Archive for ottobre 2011

Magdalene, Victor Rodriguez

ottobre 31, 2011

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Zahia Dehar in The Cat Cave by Nick & Chloé (Official)

ottobre 31, 2011

Zahia Dehar in The Cat Cave by Nick & Chloé (Official) from Zahia Officiel on Vimeo.

Craig Thompson, come ti disegno l’amore islamico

ottobre 31, 2011

Luca Beatrice per “il Giornale

È un maestro della graphic novel, quel pastiche spurio che mescola il fumetto con la narrativa, ultimo genere letterario a esprimersi con le immagini e dove queste hanno lo stesso peso e importanza della scrittura, che ha tra i suoi riferimenti il Poema a fumetti di Dino Buzzati e le storie di Hugo Pratt, praticato sia in Italia da mostri sacri quali Lorenzo Mattotti e giovani come Manuele Fior e Davide Reviati, sia all’estero (i grandi nomi della graphic novel sono Shaun Tan e Taniguchi). Dopo Maus, il capolavoro di Art Spiegelman in cui una famiglia di topi raccontava l’olocausto, è spuntato finalmente il suo erede grazie a Craig Thompson, 36enne di Portland, che con due soli libri è diventato un caso letterario superando l’ambito dei cultori della materia. Nel 2004 uscì con Blankets, romanzo di formazione di 600 pagine basato sulla propria autobiografia di ragazzo inquieto nella provincia americana, descrizione impietosa del difficile rapporto con la famiglia, le amicizie, gli studi, la scoperta della sessualità in chiave ironica ed esistenziale. Dopo sette anni di ostinato lavoro ora esce Habibi (Rizzoli Lizard, pagg. 672, ill., euro 35). Anche qui il numero di tavole è monumentale, per inscenare la storia di due giovani ex-schiavi arabi, Dodola e Zam, che vivono in un luogo non precisato e in un tempo sospeso tra il passato suggestivo e il futuro incerto e violento. È già stata definita una «storia delle storie» degna delle Mille e una notte.
Thompson si è superato nel virtuosismo grafico, utilizzando un bianco e nero ricco di particolari e dettagli, una sinfonia visiva che tocca le arti decorative in riferimenti che vanno dallo Jugenstil alla psichedelia, dall’orientalismo all’iconoclastia musulmana rischiando citazioni del Corano. Anche questa volta Thompson ambisce a qualcosa di più di un semplice fumetto, un’opera complessa più efficace e diretta di un romanzo. Probabilmente un libro destinato a far discutere, come accade ogni volta che un occidentale vuole dare la propria interpretazione del mondo islamico.

Fumetti giapponesi, Jiro Taniguchi. Operaio della creatività

ottobre 31, 2011

Jiro Taniguchi

Il fattoquotidiano.it intervista uno degli autori di manga più famosi e oggi ospite d’onore al Lucca Comics & Games. Taniguchi racconta la sua dura vita d’autore: “Faccio 30 o 40 tavole al mese, sei giorni a settimana”

Stefano Feltri per “Il Fatto

In un suo libro del 2008, “Uno zoo d’inverno” (Rizzoli), Jiro Taniguchi racconta la dura vita del mangaka, l’autore di fumetti giapponesi, operaio della creatività che deve produrre fumetti con gli stessi ritmi di Charlie Chaplin in Tempi Moderni, disegnando tutta la notte, senza weekend o pause, giusto qualche serata alcolica prima di collassare con i colleghi sulla soglia dell’ufficio. Anche ora, a 64 anni, che si è guadagnato una notorietà internazionale, ospite d’onore dell’edizione in corso dell’evento fumettistico più importante d’Italia, Lucca Comics & Games, Taniguchi racconta di avere ancora una produttività da robot dell’arte: “Faccio 30 o 40 tavole al mese, sei giorni a settimana, per 8 ore al giorno sto al tavolo da disegno, ne tengo 8 per dormire e 8 per il tempo libero, pasti inclusi. Ma rispetto ad altri periodi lavoro decisamente meno”; racconta a ilfattoquotidiano.it. Anche perché adesso ha diversi assistenti che lavorano per lui (che, nella divisione nipponica del lavoro fumettistico, curano gli sfondi e i dettagli secondari).

L’elenco delle opere di Taniguchi ormai è sterminato. In Italia al momento lo pubblicano tre editori, la Panini Comics che sta ristampando le sue opere più importanti in una collana dedicata (le ultime sono “Tokyo Killers”, “Blanca” e “I cani degli dei”) e Rizzoli Lyzard, che ne pubblica diversi volumi all’anno (in uscita “Privamevera”, con il francese Jean Luis Morvan). Più Coconino Press, che ha in catalogo tra l’altro la sterminata epopea storica “Ai tempi di Bocchan”. Lucca Comics ha scelto di celebrare Taniguchi, dedicandogli anche una mostra, “L’uomo che racconta”, con questa motivazione: “Autore completo capace di passare con una costante padronanza dei propri mezzi dal solenne romanzo storico alla struggente vicenda intimista, dal dinamico racconto d’avventura alla pacata confidenza autobiografica, è unanimemente riconosciuto come uno dei maggiori protagonisti del fumetto mondiale”. Ilfattoquotidiano.it, grazie alla mediazione della Panini, è riuscito a fargli qualche domanda, cosa non scontata visto che Taniguchi pur essendo assai più noto in Europa che in Giappone e pubblicato in decine di Paesi da questo lato del mondo, non parla alcuna lingua occidentale.

Non fosse per i tratti somatici, Jiro Taniguchi, solidi baffi grigi e occhi divertiti, potrebbe sembrare un reduce della rive gauche parigina, forse ha assorbito anche nell’aspetto qualcosa del Paese che gli ha regalato la celebrità: “Tuttora non so spiegarmi bene perché i miei manga abbiano tanto più successo in Europa che in patria, forse è proprio perché hanno un sapore molto giapponese che attirano gli europei. O forse dipende dall’influenza che ha avuto la bande dessinée francese agli inizi della mia carriera”. Taniguchi ha lavorato con diversi artisti del fumetto francofono, la collaborazione più illustre è stata quella con Moebius per Icaro (Coconino Press). E ha sempre letto opere occidentali, “tra gli italiani me ne piacciono troppi per elencarli tutti, ma devo citare almeno Giardino, Sergio Toppi, Lorenzo Mattotti e Igort”.

A prima vista non ci potrebbe essere maggiore differenza tra l’attenzione maniacale ai dettagli del fumetto francese, quelle tavole enormi e piene di colori, e la semplicità del lavoro di Taniguchi, rigorosamente in bianco e nero, mai una linea più del necessario, nessun ostacolo visivo alla lettura. Però dalla bande dessinée Taniguchi ha preso la lezione fondamentale: “I disegni sono le armi del mangaka, devono spingere il lettore dentro la storia. Se chi legge grazie a questi armi prova un senso di affinità con la tavola potrà entrare nel fumetto senza difficoltà. Anche quando lavoro penso ai giapponesi come mio pubblico, devo trovare il modo perché i disegni parlino a tutti e suscitino un’emozione universale”.

Lo hanno paragonato alla cosa più simile a Marcel Proust che i fumetti hanno espresso, con il suo eterno ritorno all’infanzia al villaggio a Tottori, nella campagna dove Tokyo è poco più di un miraggio, dove il tempo non passa e quello che conta sono solo la famiglia e i ricordi (da leggere “Al tempo di papà”, un lungo funerale del padre diventa l’occasione per ritrovare le radici). Ma Taniguchi non ha il complesso di inferiorità di certi fumettisti che senza l’etichetta di romanzieri si sentono disprezzati, a lui il dibattito tutto europeo sui graphic novel non interessa: “Io non cerco di fare romanzi grafici, semplicemente manga. Che sono una delle tecniche relativamente nuove per esprimere idee, fondendo testi, disegni e regia, cioè il layout, la scansione tra vignette”. E’ molto più interessato, il maestro di Tottori, al tormento intellettuale degli autori di manga dopo il disastro nucleare di Fukushima, in marzo.

Le bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki hanno scavato talmente la psiche dei giapponesi che tuttora i manga ne riportano gli echi, ci sono più funghi atomici nei fumetti giapponesi che in tutti i disaster movie di Hollywood, le esplosioni provocate da poteri incontrollabili, di solito della mente, sono frequentissime. E dopo i fatti di marzo le paure atomiche si sono saldate con quelle, ataviche, della geologia incontrollabile che provoca terremoti e tsunami.

Taniguchi, che sta lavorando a un’opera storica che dovrebbe terminare tra due o tre anni, racconta: “Non penso che l’influenza di Fukushima si vedrà nell’immediato, sui manga. Ma lentamente scaverà il subconscio degli artisti. Io, per esempio, dopo il terremoto e l’incidente nucleare ho scoperto nuove angosce, mi sono trovato a pensare a cose cui non avevo mai penato. Ho meditato a lungo se si potesse ancora fare manga dopo Fukushima. Poi ho capito che disegnare è importante, ancora più importante”.

Sachs, l’anti-eroe miserabile che visse come in un romanzo

ottobre 31, 2011

Maurice Sachs

Stenio Solinas per “il Giornale

«Appena ci hanno spiegato che eri al Seminario, abbiamo pensato fosse un nuovo locale e chiesto l’indirizzo per venire a cenare con te». Un aspirante sacerdote o l’eterno viveur? La vita di Maurice Sachs (Parigi, 1904 – Germania, 1945), fu un equivoco finito in tragedia. Si passa la giovinezza a prendersi gioco degli altri e di sé stessi, un po’ per finta e un po’ sul serio, da buffoni e da carogne: maldicenze, furti, traffici, alcol, sesso, droga, il vizio sottobraccio al piccolo crimine, ma sempre a buon mercato. Intanto arrivano i tempi di ferro, quando le nazioni imbracciano le armi e l’unico gioco possibile è il gioco al massacro. Nell’Europa in fiamme della Seconda guerra mondiale, Sachs s’illuse che nulla fosse cambiato e tutto fosse solo più eccitante. Lo ammazzarono i tedeschi, di cui si era messo al servizio, lavoratore volontario prima, spia dopo. Lo sbatterono in carcere ad Amburgo, poi gli spararono un colpo alla tempia durante il trasferimento a marce forzate dalla galera al porto di Kiel. Jean Cocteau, il maestro da lui in seguito rinnegato, per spiegare l’impunità del suo Dargelos negli Enfants terribles, scrive che la pena di morte non esiste nei licei. Il liceale cresciuto Sachs commise l’errore di credergli.
La “leggenda nera” di Maurice Sachs comincia con la sua morte. Prima se si vuole, è una leggenda rosa-nero, la pederastia conclamata e l’iconoclastia sofferta, l’ubriachezza anche molesta e la bancarotta, il risentimento e il tradimento verso amici, amori, benefattori. Nato nel 1906, a vent’anni è già qualcuno pur continuando a essere nessuno. È il discepolo di Cocteau, ha Maritain come padrino di battesimo quando abbandona Jahv´ per Gesù, è amico di Max Jacob, fa parte di quelli di “Le boeuf sur le toit”, che non è un tanto un locale, quanto il concentrato dei pittori, dei romanzieri e degli intellettuali dell’epoca. Non ne ha ancora trenta che già fa parte del comitato di lettura di Gallimard, ne dirige una collana editoriale, è traduttore, ha scritto un primo, brutto libro. Tutto ciò che dopo morto gli verrà addebitato come abiezione, da vivo è una sorta di divertissement: si fa tagliare un abito talare da Chanel, perché, si sa, «il nero slancia e assottiglia, ci si vede belli», rubacchia nelle case degli amici, si fa dare anticipi per libri che non scriverà, si sposa e poi pianta in asso la sposa… A ogni trasgressione, a ogni scandalo, segue un pentimento, per poi ricominciare. Fisicamente sgraziato, piccolo, grasso, calvo, ha un suo fascino, la seduzione che nasce dall’abiezione, il piacere di sporcarsi. Si vede come «un ambasciatore del male», predestinato a farlo: «In me il senso di colpa ha preceduto il primo errore». È un curioso impasto di vanità e di servilismo: «Essere schiavi è una condizione deliziosa».
Il Sabba (Adelphi, pagg. 332, euro 22; traduzione di Tea Turolla e Leopoldo Carra, con una Nota, esemplare, di Ena Marchi) esce nel 1946: Sachs è già morto, la Francia sta cercando di scrollarsi di dosso, grazie a una stentorea indignazione, l’onta dell’occupazione e della collaborazione, e lui è un buon capro espiatorio. Il sottotitolo del libro è «Ricordi di una giovinezza burrascosa» e in tono contrito racconta di «un eroe davvero miserabile. Ho fallito in tutto. Sfuggirò alla cattiva sorte? Forse me ne vado soltanto per tentare, ancora una volta, di strappare me stesso alla ronda infernale del sabba». Due anni dopo è la volta di La chasse a courre, e questa volta il tono è ribaldo, picaresco. Qual è il vero Sachs? Il primo, il secondo, tutti e due o nessuno dei due?
Ammiratore di Proust, Sachs sogna il grande libro, ma il confronto lo schiaccia e raccontare da recluso la vita, invece di viverla sino in fondo, non fa per lui. Non ci riesce nemmeno nei 17 mesi che trascorre, scrivendo, in cella: mette giù appunti, riflessioni, liste di libri, abbozza dei ritratti, ma è come se demandasse a una «seconda vita, quella di scrittore», il passaggio successivo. Crede di avere ancora tempo. Si sbaglia.
Il Sabba, e ancor più La chasse a courre (anche questo di prossima pubblicazione per Adelphi), restano come documento di un’epoca e prova di autore. Sachs racconta gli anni fra le due guerre come «il decennio dell’illusione, l’età in cui si credeva di essere felici perché ci si divertiva. Non si afferrava la vita: la si saccheggiava come una città conquistata». Allo stesso modo coglie bene come alla fine di questo arco di tempo tutto è cambiato: «La gioventù di oggi odia la frivolezza, è presa da idee fondamentali come noi eravamo presi da personaggi romanzeschi». Se nel Sabba c’è un eccesso di «io», nella Chasse c’è il distacco del memorialista.
«Credeva che tutto gli fosse permesso perché la sua innocenza aveva sempre la meglio sulla sua furbizia. Partì per Amburgo come si parte per l’Italia in viaggio di nozze; posso affermare che partì ebbro di candore, posso affermare che fu quel candore stesso a ucciderlo». In questo epitaffio di Violette Leduc c’è molto di Sachs, uno che credeva che la letteratura, alla fine assolvesse da tutto, dal tradimento come dall’infamia.

Così Marcel Proust scoprì il passato in pieno futurismo

ottobre 31, 2011
Marcello Veneziani per “il Giornale
La più bella opera che io abbia letto di recente non è un’opera e non è recente, anche se è uscita da poco. È un mosaico di frammenti staccati da un edificio vecchio di un secolo. Il palazzo in questione, di sette piani, è Alla ricerca del tempo perduto. La raccolta di schegge ha assunto invece il nome di Breviario proustiano, curato da Patrizia Valduga e ispirato da Giovanni Raboni (Einaudi, pagg. 238, euro 18,50). È sorprendente come un’antologia di passi estrapolati dalla Recherche – scritta tra il 1909 e il 1922, pubblicata in 7 volumi tra il 1913 e il 1927 – viva egregiamente di vita propria. Non lessi da ragazzo la Ricerca, ma alla stessa età in cui Proust l’aveva concepita. Si vede che c’è un giro di boa della vita in cui il bisogno di leggerla coincide col bisogno di scriverla.
Le riflessioni proustiane erano perdute negli scaffali della Recherche, e la Valduga le restituisce, lucide e perfette, viventi di vita autonoma, fuori dall’edificio paterno da cui provengono. Breviario prezioso soprattutto per chi predilige l’aforisma e il pensar breve, è d’indole e formazione più filosofica che letteraria, e lascia cadere lo stucco per puntare al succo; ossia nella prosa cerca il saggio, nello stile ricerca il pensiero, e dietro il ninnolo l’idea.
Marcel Proust ha percorso contromano il ‘900, guardando nello specchietto retrovisore. È andato incontro all’800, lo ha rianimato nel pieno fervore modernista e futurista del suo tempo. Fuori infuriava il futuro, splendeva il Sol dell’Avvenire, si cantava la bellezza della macchina e della velocità. Ma dentro la sua stanza foderata di sughero non arrivavano gli spasmi della modernità, il viaggio si compiva nella mente innamorata, insieme a una straordinaria rivoluzione, in senso astronomico. La nostalgia era nata come sentimento doloroso di una lontananza da casa o dai luoghi cari, così era stata definita da medici e letterati; con Proust traslocava dallo spazio al tempo e si faceva nostalgia del tempo perduto. Non che prima di Proust non vi fossero rimembranze e ricordanze, per alludere a gran poeti; ma è con Proust che la nostalgia designa un rimpianto consapevole e il ripensamento minuzioso del tempo perduto. E questo mentre fuori pulsavano le officine industriali, ideologiche e letterarie del futuro. Ma Proust stesso avverte che l’euforia per i vagoni in corsa che infervora il primo ‘900, è destinata a tramontare e si torna ad amare la bellezza di Venezia, quella Venezia passatista vituperata da Marinetti (che poi morì proprio lì). Accanto alla nostalgia del passato perché «i veri paradisi sono i paradisi che abbiamo perduti», Proust coltiva anche una nostalgia simultanea per gli eventi mentre accadono; è una specie di «nostalgia preventiva» che delle cose presenti preavverte la loro perdita, prefigura il loro svanire. Un meraviglioso espediente della natura, secondo Proust, che fa balenare il presente nell’orto prezioso dei ricordi.
Non manca in Proust una vena ironica che sembra avvicinarlo a Oscar Wilde; ma Wilde è un Proust estroverso, con la brillante superficialità di chi vuol stupire. Wilde ama il paradosso, che è una verità invertita e divertita, senza l’implacabile indagine introspettiva di Proust. Di lui condivide la voluttà della scrittura, non il tormento del pensiero.
È possibile tracciare una filosofia proustiana? Il florilegio ci permette di cogliere nitidamente tre versanti della Ricerca proustiana: la scoperta della curvatura del tempo, il passato che riaffiora nel presente e si congiunge al futuro; la scoperta di un ponte, di un cammino introverso che dalla luce della realtà conduce nell’antro recondito dell’anima, in quel luogo oscuro denominato psiche dove sorgono le idee e i sentimenti. E infine la scoperta che le cose sono animate; liberate dall’inerzia del loro esistere banale, vibrano di ricordi allusivi (effetto madeleine). Le cose parlano in Proust, sussurrano a chi sa ascoltare. Una rivoluzione straordinaria. Qui la solitudine di Proust si ritrova con Freud e con Bergson e anche con Nietzsche, con la fisica teorica e con l’inconscio jungiano.
Nella ricerca proustiana del tempo perduto, la morte di chi ti è caro o lo svanire del passato, tra i dolori che arreca, dona però un piacere: quel che resta nella memoria degli affetti è un ricordo selettivo, il meglio che merita di essere salvato, la sintesi gloriosa o squisita di quel che fu. Non il suo lato noioso, banale o negativo. La morte screma la vita, l’assenza depura la presenza dalla pesantezza del quotidiano. Resta il fior fiore delle persone, dei fatti e delle cose. Folgorante poi la sua intuizione sull’oblio, che preserva nelle sacche della memoria involontaria la realtà più autentica del passato. E ce la restituisce in uno di quegli agguati che il passato tende al presente appostandosi dietro l’angolo e riapparendo a sorpresa.
E poi s’intrecciano come in una trama di fili dorati, i suoi acuti pensieri sulla solitudine necessaria dell’artista e sul suo inevitabile vivere per sé, sulla considerazione del genio come specchio del mondo; la metafisica applicata alla vita quotidiana fin nei minimi risvolti, la penetrante analisi dell’amore («Non si ama che ciò che non si possiede»), della malattia e di «quella lunga disperata e quotidiana resistenza alla morte» che è la vita pensata. La spremuta di Proust non perde le sue vitamine ma le condensa. Poi verranno i proustiani di maniera, che sarebbe meglio chiamare proustatici; troppe rozze madeleine intinte nella tazza di Proust…
«e un Marcel diventa ogni villan che pasteggiando viene».
Nell’ultimo libro della Recherche, Proust scrive: «Fra dieci anni noi, fra cento anni i nostri libri, non ci saremo più». Esatta fu la profezia sulla sua vita, non sulla sua opera. I cent’anni sono vicini ma sulla Recherche non è caduta la polvere dell’oblìo.

E l’unica cosa che si salvò fu la parola

ottobre 31, 2011

Antonio Spadaro per “L’Osservatore Romano

Da Omero in poi, il materiale non manca: la guerra è stata da sempre, purtroppo, un tema caro agli uomini e quindi anche agli scrittori. Sarebbe impossibile, in poco tempo, dar conto dell’enorme quantità di pagine scritte sulla guerra anche nel solo Novecento, il secolo tinto di rosso dal sangue di due guerre mondiali e da un’infinità di conflitti locali. Anche solo limitarsi all’Italia significherebbe comporre un mosaico i cui tasselli sono firmati da scrittori quali Ungaretti, Montale, Calvino, Vittorini, Pavese, Fenoglio, Moravia, Berto, la Morante, fino ai narratori quarantenni di valore quali Eraldo Affinati. Ecco cosa offre la guerra a un narratore: uno scenario grande e drammatico di sconvolgimenti — a volte coinvolgenti anche gli dèi — e la vicenda personale di uomini che in questo sfondo si stagliano a tinte forti o deboli, a seconda dei casi.

Dall’epica classica, a questo punto, non si può non giungere a evocare gli scenari di Guerra e pace (1869) di Tolstoj. Nel romanzo del grande scrittore russo ogni episodio fornisce una valutazione di senso. Lo scenario di lotta è quello che vede schierati Napoleone, discendente e simbolo della razionalità illuministica che considera la guerra come una partita a scacchi, e il vecchio generale Kutuzov che sa che la storia non è nella volontà degli uomini, ma nella legge intima della Natura. Guerra e pacesi rivela come un trattato di gnoseologia e di etica e la guerra diventa simbolo della vita umana nel suo complesso.

La Prima guerra mondiale segna una svolta nell’immaginario bellico. L’esercizio della violenza diretta è sempre meno presente e il singolo è solo il pezzo di un congegno. Resta lo scenario, ma si perde l’eroe. Sempre di più, insomma, si stemperano dall’illuminismo al Novecento, passando soprattutto per la Certosa di Parma(1839) di Stendhal e, come si è detto, Guerra e pace, i tratti estetico-eroici della guerra. Forse solo la prosa iperletteraria ed esibizionistica di D’Annunzio resta fedele al canone eroico-estetico, come nel suo Notturno dei primi degli anni Venti. Per lo più la letteratura registra solo un uomo ridotto a quasi nulla. La coscienza di Paul Börner, protagonista di Niente di nuovo sul fronte occidentale (1929) di Erich Maria Remarque, viene eliminata da un colpo di granata, fatto insignificante per il bollettino di guerra che recita: «Niente di nuovo sul fronte occidentale». La morte del singolo è «niente di nuovo» e l’eroe diviene un puntino dolente nell’universo che vive tra i fischi dei proiettili.

Di fronte al dolore, alla tragedia e alla frantumazione esistenziale, la parola letteraria può diventare àncora di salvezza, approdo di umanità, resistenza e risonanza della coscienza. La parola dello scrittore di fronte al dramma diventa radicale appello etico, messaggio di opposizione alla barbarie e all’irrazionalità.

Un esempio: in Un anno sull’Altipiano (1938) di Emilio Lussu il narratore sta per uccidere un soldato austriaco: è un nemico e dunque da uccidere senza pensarci, automaticamente. Ma qualcosa accade. Scrive Lussu: la «certezza che la sua vita dipendesse dalla mia volontà, mi rese esitante. Avevo di fronte un uomo. Un uomo! Un uomo! Ne distinguevo gli occhi e i tratti del viso. (…) Condurre all’assalto cento uomini, o mille, contro cento altri o altri mille è una cosa. Prendere un uomo, staccarlo dal resto degli uomini e poi dire: “Ecco, sta’ fermo, io ti sparo, io t’uccido” è un’altra. È assolutamente un’altra cosa». Il filosofo Emmanuel Lévinas ha riflettuto a lungo sulla «resistenza» del volto umano rispetto a qualunque violenza. Il volto dell’altro uomo è appello alla responsabilità e grida, senza rumore di parole, il comandamento: «Tu non ucciderai». La risposta della letteratura alla guerra può dunque essere lo sdegno, l’indignazione, l’appello etico che restituisce all’uomo la sua umanità invalicabile. Straziante e raggelante, al di là di ogni dire, è poi il romanzo La notte scritto da Elie Wiesel, che ha vissuto la deportazione ad Auschwitz e Buchenwald. Nel quarto capitolo egli ci presenta l’impiccagione di un ragazzino. Alla domanda «Dov’è dunque Dio?» che si leva tra i deportati la risposta che sale alla coscienza del narratore è: «Dov’è? Eccolo: è appeso lì, a quella forca». La risposta è muta e sale dalla coscienza che resiste raggelandosi. Così ha commentato il romanzo François Mauriac: «Abbiamo mai pensato a questa conseguenza (…) la peggiore di tutte per noi che possediamo la fede: la morte di Dio in quell’anima di bambino che scopre tutto a un tratto il male assoluto?». Wiesel nelle sue pagine testimonia una resistenza, disperata ma tristemente salda, al male assoluto che lo insidia e attanaglia da tutte le parti.

Un poeta che si è radicalmente confrontato con una parola poetica che attraversa la tragedia e che viene cavata da un abisso è senza dubbio Paul Celan (1920-1970), poeta di nazionalità rumena (nato in Bucovina), di lingua tedesca e di origine ebraica. Nato nel 1920, il suo vero nome era Paul Antschel. Nel 1940, con l’inizio delle persecuzioni da parte di Hitler, i suoi genitori vengono deportati in un lager, mentre egli riesce a fuggire. Finita la guerra, il poeta si trasferisce a Bucarest dove pubblica le sue prime opere, firmandole con l’anagramma del suono del cognome: Celan. Nel 1948 lascia Bucarest per Parigi, dove due anni dopo consegue la licenza in Lettere. Cinque anni dopo ottiene la cittadinanza francese. Si tolse la vita nel 1970.

I testi poetici di Celan appaiono secchi, duri, ostici a leggersi, spesso difficili a comprendersi. Tra i suoi scritti emerge per densità e ampiezza quello letto in occasione del conferimento del premio Georg Büchner il 22 ottobre 1960: l’autore si mise a scriverlo di getto, quasi in uno stato di esaltazione. Il titolo dato al testo è Il meridiano. Esso costituisce una delle più ardue riflessioni di poetica del Novecento e certamente anche una sorta di «testamento spirituale» del suo autore.

Celan ha, per esperienza biografica bruciante, una consapevolezza radicale degli orrori e delle tragedie del nazismo. Sarà quell’orrore a condurlo a suicidarsi, gettandosi nella Senna. Questa consapevolezza drammatica gli fa porre l’interrogativo di Adorno: di fronte alla tragedia non è meglio tacere?

Celan tuttavia non si ferma al silenzio, come testimonia del resto la sua poesia. Il poeta offre anche una risposta alla domanda che egli stesso ha inteso porre. Lo fa partendo dal titolo di una sua raccolta,Atemwende, parola che in italiano è tradotta con l’espressione «Svolta del respiro». Quale il senso di questo titolo? Il poeta assume, «inspira», la realtà che gli sta intorno, la elabora per mezzo dell’arte e la restituisce, la «espira» come poesia. Nella sua semplicità questo flusso d’aria rende perfettamente il senso della poesia di fronte alla vita. Il poeta non può che respirare la propria aria, quella che lo circonda e i suoi polmoni la elaborano per espirarla in forma poetica. La poesia insomma è «figura e direzione e “respiro”», come afferma Celan.

Ma se l’aria intorno alla realtà si fa irrespirabile? Se l’aria si fa densa di polvere? Cosa accade al poeta? Smetterà di restituire poesia? Il suo respiro non potrà che diventare rantolo e sarà sufficiente appena per un grido, incapace di dire il reale e appena utile a denunciarne l’indicibilità. La situazione critica conduce la poesia sull’orlo di se stessa ma, scrive Celan, «L’unica cosa che si salvò fu la parola». La parola si salva, ma per salvarsi, continua, deve «traversare le proprie impossibilità di rispondere, la propria tendenza ad ammutolire». Essa dunque non ha la natura di un «pauroso ammutolire», di «qualcosa che toglie (…) il respiro e la capacità di parlare», né tende a diventare «respiro di pietra» (Steinatem).

Celan tenta di attraversare le «mille tenebre» per salvare la capacità di parola dall’afasia incombente. È cosciente sia «dei limiti che la lingua gli impone» sia «delle possibilità che la lingua gli dischiude». Resta l’attesa, la speranza, la prospettiva di una salvezza della parola. La nostra umanità è come una rosa che vuol fiorire incontro a un «Tu», a un Altro, che qui è Nessuno. La rosa è emblema di una poesia con un compito preciso: spingersi verso «Nessuno», che è il calco del vuoto di Dio, ma che è e rimane un «Tu» (Du), a cui ci si rivolge e a cui è indirizzata questa «lode».

Cosa comprendiamo grazie a queste brevi e riflessioni sulla poesia di Celan? Che resta la tensione della parola, «riserbata e taciturna», strappata al silenzio come una vita strappata alla morte. La poesia allora diventa comunque segno di una dimensione verticale e trascendente a cui Celan arriva a dire: «Tu sei il mio commensale, bevi alla mia sete». La poesia della tragedia è, quindi, frammento di un discorso sempre aperto verso un Altro.

Roman Vlad, la mia vita straordinaria

ottobre 31, 2011

Roman Vlad è nato a Cernauti il 29 dicembre 1919

A 92 anni Roman Vlad racconta in un libro la sua vita straordinaria. Dalla Romania all’Italia, inseguito dalla musica anche quando dorme

Sandro Cappelletto per “La Stampa

A volte, è come leggere una sceneggiatura: l’esercito romeno che si ritira, quello russo che avanza, «ma riuscii a trovare un cavallo e una carrozza sulla quale caricai i miei genitori, mia sorella e la vecchia nonna materna e prima di abbandonare la grande casa avita vi entrai per l’ultima volta e suonai sul mio pianoforte un Preludio di Chopin». Regione della Bucovina, nel Sud della Romania, giugno 1941. Roman Vlad e la famiglia riescono a mettersi in salvo. Lui raggiungerà l’Italia e sarà per sempre.

Il maestro Vlad, che oggi ha 92 anni – «La testa funziona bene, la carrozzeria meno, continuo a scrivere musica ogni giorno» -, si è finalmente deciso a raccontare la propria rarissima vita. Con l’aiuto di due musicisti e amici, Vittorio Bonolis e Silvia Cappellini, ha scritto Vivere la musica. Un racconto autobiografico, in uscita per Einaudi. Persone, luoghi, fatti, giudizi, vicende private e pubbliche: il libro (pp. 229, e14) è un atlante del nostro tempo culturale e politico. La dedica è alla moglie, l’archeologa Licia Borrelli, «che illumina la mia vita».

Maestro, lei parlava molte lingue, aveva disponibilità, perché ha scelto l’Italia?
«È stato spontaneo, come fosse prestabilito. L’Italia era e resta per me il Paese della cultura. Ho viaggiato molto, nessun’altra nazione ha altrettanta sostanza artistica. Anche se spesso viene celata dalla volgarità, dal degrado. Il raggio del banale si sta allargando. Bisogna reagire».

Lei arriva, per studiare ingegneria e musica, durante gli anni del fascismo. Nel libro sostiene che la libertà di espressione per gli artisti era comunque garantita.
«Grazie a Giuseppe Bottai, ministro dell’Educazione Nazionale, si poteva fare in Italia quello che in Germania e Russia era proibito. Tra gli artisti c’erano i fascisti onesti, come Goffredo Petrassi, al quale devo molto. E altri diciamo disonesti, che poi vorranno negare di essere stati fascisti, come Luigi Dallapiccola, che rimane comunque un grande compositore. Casella non era fascista, ma naturalmente per poter lavorare ha dovuto pagare i suoi prezzi».

L’artista, la sua libertà, la sua verità: accenna spesso a questo triangolo. A che conclusione è giunto?
«L’unica verità possibile per l’artista è l’adeguamento dell’oggetto che lui crea alla sua realtà interiore. Una verità soggettiva, che inverte la verità oggettiva inseguita da Tommaso d’Aquino».
Lei scrive: «Sono religioso, ma non ho la fede».

Può spiegarsi?
«Mio padre era ortodosso, mia madre cattolica e mi ha educato lei. Amo la figura e le parole di Gesù Cristo. Ma non posso dire, come Pascal: “Dio, tu mi cerchi, dunque mi hai trovato”. Magari potessi. Studiando ingegneria e matematica mi sono reso conto, soprattutto, dei limiti dell’uomo. Il nostro pianeta, l’universo intero, sono inspiegabili».

Ha cominciato a mettere le dita su un pianoforte prima di imparare a leggere e scrivere. Ha composto il suo primo pezzo a 4 anni, ancora oggi la musica non l’abbandona mai, nemmeno quando dorme. Davvero Bach le appare in sogno?
«Ero al Cairo. Nel sonno, sento una voce che mi parla in tedesco antico e mi dice in quale passaggio della viola nella Messa in si minore è nascosto il nome BACH, quattro lettere che nella notazione anglosassone corrispondono a quattro note. Annoto tutto, controllo ed è proprio così. Anche l’inizio della Messa che ho appena terminato, l’ho sentito sognando».

«Stravinskij e Schoenberg, i dioscuri del pensiero musicale del Novecento. Lei su Stravinskij ha scritto un libro importante. Sceglie lui?
«Scelgo Verdi e scelgo Wagner, amo Stravinskij e amo Schoenberg. Quando sei di fronte ai titani, puoi solo amarli, perché scegliere, cioè escludere? Certo, di Stravinskij sono stato anche amico. Oggi, continua a emozionarmi Mahler: lui non banalizza il sublime, porta il banale della vita al sublime. Lo conduce in Paradiso».

Riccardo Muti, Giuseppe Sinopoli, Leonard Bernstein: i tre direttori che ricorda con maggior affetto. Verso i colleghi è sempre piuttosto generoso. Gli uomini politici le piacciono meno?
«Bill Clinton suona il sassofono e ha mostrato molta attenzione per i problemi degli artisti e del diritto d’autore. Edward Heath, ex primo ministro inglese, venne a Firenze tentando di portare via Muti dal Maggio Musicale e farlo trasferire a Londra. Sono episodi che fanno la differenza. Da noi ci sono solo delle eccezioni, come i Presidenti Ciampi e Napolitano, frequentatori assidui di concerti. Non voglio nemmeno parlare di quel ministro che ha detto “con la cultura non si mangia”: forse intendeva scherzare, ma le conseguenze sono state gravi».

Molti sono stati i suoi incarichi: direttore artistico di tante istituzioni, compresi il Teatro alla Scala e l’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai di Torino, presidente della Siae, ancora oggi «presidente onorario» dell’Accademia Filarmonica Romana. Il grande pubblico televisivo la conosce soprattutto per la serie di concerti dedicati ad Arturo Benedetti Michelangeli, di cui ha curato le introduzioni. Come reagì Michelangeli?
«Registrai tutte le puntate in un unico fortunato pomeriggio, senza mai sbagliare una frase o una nota al pianoforte. Da Michelangeli nessuna reazione, mai. Anni dopo, leggendo il libro della vedova, scopro che guardava quei programmi spesso, seduto in poltrona. E si commuoveva, dicendo che lo avevo capito alla perfezione. Era un uomo di infinito pudore».
Oltre la vetrata della bella casa alta nel cuore di Roma, il sole e il cielo al tramonto stanno facendo il loro spettacolo. Brindiamo «alla musica» con un gin tonic molto carico.

Maestro, ma quel pianoforte su cui ha suonato il Preludio di Chopin nel 1941, l’ha mai cercato, ritrovato?
«Poco tempo fa un giovane studente di musica romeno mi ha scritto che ce l’ha lui, è sicuro, è proprio quello. Misteriosi, affascinanti giri della vita».

Cibo solido per palati fini

ottobre 31, 2011

Antonio Rosmini

Roberto Cutaia per “L’Osservatore Romano

«Percorrendo pensoso questa via Antonio Rosmini concepiva l’Idea dell’Essere base dell’alto suo sistema filosofico». Questa scritta compare in via Terra a Rovereto (Trento) città natale del beato Rosmini. Da quel giorno il giovane per tutta la vita dedicò ogni sforzo per compendiare il grande «Sistema della Verità» la Teosofia, ovvero la «Summa del pensiero rosminiano, pilastro metafisico della cristianità». Il 2 novembre uscirà nella collana «Il pensiero occidentale» diretta da Giovanni Reale, una nuova edizione della Teosofia, (la quarta in ordine cronologico dalla prima del 1859-1874) a cura di Samuele Francesco Tadini dal titolo: Antonio Rosmini. Teosofia (Milano, Bompiani, 2011, pagine 2.944, euro 50). Ce ne parla in anteprima il curatore, un vero «sherpa» del pensiero rosminiano, autore di una corposa introduzione di duecento pagine.

Rosmini scrivendo il Nuovo Saggio sull’origine delle idee allora ritenne: «dar latte agli uomini che non sono capaci oggidì di solido cibo». La Teosofia oggi è il cibo solido?

La Teosofia è cibo solido, ma è cibo per palati fini. Saperla gustare significa essere in grado di coglierne, oltre che la profondità, anche l’equilibrio teoretico. Il cibo è solido perché il cuore di esso è l’insieme dei valori dello spirito umano in ordine al grande tema dell’Essere.

La composizione della Teosofia comincia il 14 aprile del 1846. Ma l’opera non fu concepita fin dalla giovinezza?

Rosmini ha sempre pensato, sin da giovane, alla necessità di una grandiosa opera in grado di fare chiarezza sulle questioni dell’ontologia e della metafisica, ma si era reso conto che essa avrebbe trovato adeguato compimento solo dopo la tematizzazione e la soluzione dei problemi concernenti quella che chiama «filosofia regressiva».

Nell’introduzione alla Teosofia lei dice che «la lettura dovrà essere sorretta da un adeguato “coraggio metafisico”». Si tratta di un’opera per pochi eletti?

Il «coraggio metafisico» è il coraggio che possiede il filosofo quando, libero da ogni forma di pregiudizio, tenta di spingere la propria ricerca razionale così in profondità da cogliere le relazioni fra l’idealità, la realità e la moralità.

Come si struttura la Teosofia rosminiana?

Del voluminoso progetto originale resta ciò che ho definito un «grande frammento», per quanto colossale appaia ai nostri occhi, che è strutturalmente pensabile come diviso almeno in due parti. Se, volessimo considerarne la divisione da un punto di vista teoretico, la Teosofia risulterebbe tripartita in dottrina dell’Ente in universale, dottrina dell’Ente infinito e dottrina dell’Ente finito.  (more…)

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ottobre 30, 2011

Über mädchen – about girls, published by Kehrer © Gitta Seiler

ottobre 30, 2011

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ottobre 30, 2011

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La grazia dell’amore carnale

ottobre 30, 2011

Carlo Ossola per “Il Sole 24 Ore”

La versione del Cantico approntata da Guido Ceronetti apparve, la prima volta, da Adelphi, nel 1985; più volte ristampata, ebbe una preziosa edizione, quindici anni or sono, nel 1996, per i tipi di Tallone. Recensendola su questo giornale riportavo un passo della sua meditazione: «Dio nel Cantico non c’è, eppure Dio lo riempie. È poesia erotica il Cantico, eppure l’amore umano non ne è che l’ombra sul muro. Dio cerca Dio nel Cantico, ma Dio non può andare in cerca di se stesso. Il Cantico non ha principio, né centro, né conclusione. Come libro è il più scucito degli Agiografi. Insegna qualcosa? Niente… Che cosa ci dice dell’amore? Niente. Il Cantico mi svuota».

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Siamo realisti, cosa esiste?

ottobre 30, 2011

Mario De Caro per “Il Sole 24 Ore”

Tra le questioni filosofiche, ce n’è una che da millenni appassiona i filosofi ma lascia di stucco chi filosofo non è: la questione del realismo. Spesso, ad ascoltare i filosofi che discutono di realismo, i profani si infastidiscono; e capita che battano il pugno sul tavolo per dimostrare che, inconfutabilmente, là fuori una realtà esterna c’è ed è indipendente da noi, checché ne dicano i filosofi. Le possibilità allora sono due: o i filosofi sono una categoria di perdigiorno oppure le cose non sono così semplici.

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«Il destino? No, c’è solo il caso»

ottobre 30, 2011

Paul Auster

Lara Ricci per “Il Sole 24 Ore”

«No, non credo al destino. Penso che le nostre vite siano una progressione di contingenze multiple». Non c’è un verso, nell’universo, per Paul Auster, lo scrittore che nelle sue storie ricche di quesiti metafisici si è lungamente soffermato sulla contrapposizione tra caso e necessità come spiegazione del mondo, lasciando spesso i lettori intenti a domandarsi se ci fosse un senso nelle strane coincidenze narrate. A partire dal romanzo che lo ha reso famoso, Trilogia di New York, dove il racconto prende il via con un evento fortuito, una telefonata nella notte a un numero sbagliato, e prosegue seguendo i capricci del caso, fino al suo ultimo libro, Sunset Park, la cui trama ruota attorno a un litigio tra fratelli finito con la morte accidentale di uno dei due, Auster non manca di esplorare quei fatti incidentali e apparentemente insignificanti che fanno deviare per sempre il corso della nostra esistenza.

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Il conservatore dell’Occidente

ottobre 30, 2011

Roger Scruton

da “Il Giornale

Fra i massimi esponenti del conservatorismo contemporaneo, giudicato dal New Yorker «uno dei più influenti filosofi al mondo», l’inglese Roger Scruton (1944) – accademico, compositore, giornalista – ha messo al centro della sua riflessione le conquiste della cultura occidentale. Tra i suoi libri: La bellezza. Ragione ed esperienza estetica (Vita e Pensiero, 2011), Il suicidio dell’Occidente (Le Lettere, 2010), Manifesto dei conservatori (Raffaello Cortina, 2007).

Un po’ di pessimismo fa bene alla storia

da “il Giornale

Scriveva quarant’anni fa Giuseppe Prezzolini nel suo Manifesto dei conservatori che «direttiva fondamentale» del pensiero non progressista doveva essere il pessimismo, ovvero il rifiuto di ogni fede nelle magnifiche sorti dell’umanità. Non parrà strano che ai nostri giorni il britannico Roger Scruton, principale esponente del conservatorismo europeo sul piano culturale, abbia dedicato il suo ultimo saggio proprio a quel concetto, pur senza citare mai il predecessore italiano.
Del buon uso del pessimismo (e il pericolo delle false speranze), in libreria dal 4 novembre (Lindau, pagg. 230, euro 23; traduzione di Diana Mengo) è infatti un brillante pamphlet contro tutte le illusioni (soprattutto) delle sinistre. Proprio nell’eccesso di «ottimismo senza scrupoli» Scruton scova gli errori di giacobini e futuristi di ieri e di oggi. Non si tratta di accantonare la speranza, che rimane una virtù cardinale, ma di considerare come la speranza, «separata dalla fede e non temprata dall’evidenza della storia» possa essere molto pericolosa.
Meglio allora coltivare un po’ di sano e ironico pessimismo, un realismo disincantato che argini le fallaci pretese di cambiare il corso della storia e «trasformare il mondo». Il pessimista confida invece nei cambiamenti lenti, nelle istituzioni ereditate dagli antichi, nelle tradizioni e nelle consuetudini. Fra i tanti nefasti ottimisti incalliti Scruton mette i fanatici delle tendenze «post-umaniste» o «transumaniste» che intendono superare i limiti posti dalla natura alla finitezza delle creature, i sostenitori della «pianificazione economica», gli araldi dello «spirito del tempo» sempre innamorati acriticamente delle novità e gli ingenui fautori del multiculturalismo. Lo stesso terrorismo omicida, quello delle Brigate Rosse come quello di Al-Qaeda, a ben vedere, è una forma di ottimismo che pretende di migliorare il mondo per mezzo della violenza più o meno mirata.
Dovendo indicare il capostipite di tutto questo tragico ottimismo moderno, Scruton dedica molto spazio a Rousseau che teorizzava la natura incorrotta del «buon selvaggio» traviato poi dalla cultura. Questo oblio del peccato originale eretto a sistema fece molti seguaci fra i rivoluzionari francesi e i loro discendenti comunisti e nazisti impegnati nella distruzione del mondo e dei valori che, a sentir loro, corrompevano gli uomini. Se la realtà non si adeguava ai sogni, ai progetti, ai piani quinquennali, tanto peggio per la realtà, per i realisti e per i pessimisti.

Il pamphlet del filosofo inglese che mette in guardia dalle false speranze

di Roger Scruton, da “Il Giornale

Il Contratto sociale di Rousseau proclama splendidamente che l’uomo è nato libero, ma si ritrova ovunque in catene. Se Rousseau fosse un ottimista è oggetto di disputa fra gli studiosi; se credesse davvero in ciò che scriveva rimarrà per sempre incerto; e non sarà mai stabilito nemmeno se la sua pretesa di onestà nelle Confessioni sia solamente un esempio di eccessiva rivendicazione.
Il Contratto sociale finisce comunque con il giustificare quelle catene delle quali si lamenta all’inizio, e in seguito la sua appassionata difesa della libertà fu usata per scusare la tirannia dei rivoluzionari. Eppure, una cosa è chiara: fu Rousseau a fornire il linguaggio, le linee di pensiero con le quali introdurre una nuova concezione della libertà umana, secondo la quale la libertà è ciò che rimane quando gettiamo via tutte le istituzioni, tutti i limiti, tutte le norme e tutte le gerarchie \.

Poco tempo dopo, Robespierre istituì quello che chiamò «dispotismo della libertà», tagliando ogni testa che avesse qualche problema a riguardo. Il tributo di sangue finale, secondo lo storico francese René Sédillot, fu di due milioni di vittime, con un’Europa al contempo immersa in guerre di portata continentale che avrebbero distrutto le speranze delle persone più assennate. Ora, non voglio sostenere che la Rivoluzione francese sia stata causata da un’idea fallace. Significherebbe semplificare questo grande evento ben oltre il ridicolo. Ma l’acquiescenza dimostrata dai rivoluzionari nella strage da loro stessi causata fu di certo resa più semplice dal facile ottimismo della loro filosofia. (more…)

La lunga mano del Pakistan dietro al ricatto del terrore

ottobre 30, 2011

Guido Olimpio per “Il Corriere della Sera”

Sono tenaci. Capaci di adattare le loro tattiche. Picchiano come fabbri, poi lasciano intravedere spiragli di negoziati. E godono delle simpatie interessate dei pachistani. La loro strategia è semplice: tenere il più possibile, visto che alla fine la Nato se ne dovrà andare. La strage di Kabul sintetizza i dieci anni della guerra più lunga. Un’autobomba impressionante — quasi 700 chili di esplosivo —, un veicolo blindato che nulla può contro il kamikaze, un attacco nella capitale, perdite pesanti. L’ultimo rapporto uscito dal Pentagono, pur sottolineando i successi registrati in alcuni parti dell’Afghanistan, avverte che la situazione rimane instabile anche per colpa delle trame pachistane e della debolezza del governo Karzai. Le forze locali appaiono incapaci di affrontare la sfida: su 218 battaglioni di polizia neppure uno può agire da solo; su 204 battaglioni dell’esercito afghano solo uno è in grado di operare in modo autonomo. Gli sforzi degli alleati — Italia compresa — nell’addestramento dei reparti afghani non ha ancora colmato il divario. È ovvio che non dipende dagli istruttori ma dalla volontà dei locali. Lo rivela un dato. Soltanto a giugno hanno disertato 5 mila soldati afghani. Fughe che accompagnano un altro fenomeno in crescita, quello dei militari che sparano sui soldati Nato: ieri sono stati uccisi tre australiani. Tutti si chiedono — conoscendo già la risposta — cosa accadrà man mano che le province passeranno sotto il controllo delle autorità afghane.
Il quadro precario favorisce i talebani e i gruppi affini. Dimostrando grande pragmatismo, gli insorti si sono adeguati al momento. Sul piano strettamente militare hanno continuato a evitare lo scontro diretto. Non potrebbero sostenerlo, vista la disparità di volume di fuoco. E allora si sono affidati alla loro arma migliore. Gli esplosivi. Il 90 per cento delle perdite Nato (e dei civili) è da attribuire agli ordigni improvvisati, in gergo Ied. Ancora un numero: da giugno ad agosto sono state scoperte o individuate 5.088 bombe. (more…)

Dieci cose che mi ha insegnato mio nonno Luigi Einaudi

ottobre 30, 2011

Luigi Einaudi nel 1952 nella sua tenuta di San Giacomo, a Dogliani, attorniato da otto nipoto ai quali legge le Georgiche di Virgilio

A mezzo secolo dalla morte, le lezioni del Presidente nel ricordo del nipote ambasciatore: la base di partenza per quasi tutto era la lettura

Luigi Roberto Einaudi, da “La Stampa

Gli insegnamenti che mi ha lasciato mio nonno, Luigi Einaudi, si possono riassumere in dieci lezioni. Supplirò ai difetti della memoria citando brani di lettere che mi scrisse quando era Presidente della Repubblica e io facevo il liceo e l’universita negli Stati Uniti. Lui aveva fra i 78 e gli 81 anni, mentre io avevo fra i 16 e i 19 anni.

Prima di parlare di lezioni, però, bisogna dire che per Luigi Einaudi la base di partenza per quasi tutto era la lettura. Poche sono le sue foto nelle quali non ha qualcosa de leggere in mano. Dall’età di dieci anni io divoravo le avventure di Emilio Salgari. Così ho anche letto Jules Verne, prima in italiano e, solo dopo, in francese. Ma di letture più serie poche. Il nonno non era del tutto contrario: «Quella tua era l’età in cui io divoravo libri; pur di leggere, senza discernimento talvolta, ma avendo cura si trattasse per lo più di scrittori grossi, quelli che dissero qualcosa. Nacque un gran disordine, ma qualcosa rimane sempre. Non consiglio il disordine, ma importa fare escursioni extravaganti fuor del campo assegnato, è utile ed eccita la mente in un’età in cui questa è pronta a ricevere. Regola: non leggere libri di gente mediocre o di pura attualità».

Nel 1952 avevo compiuto sedici anni e il nonno mi permise di dormire a San Giacomo fra gli scaffali della biblioteca, un ricordo che mi rende felice ancora oggi. Quell’estate mi fece leggere Virgilio con lui in latino, spiegando che la lettura era per imparare un’altra lingua, ma anche per meditare sulla sostanza. Quel Natale mi mandò il Dizionario moderno del Panzini con la dedica: «A Luigino, perché nello scrivere italiano abbia una guida alle parole moderne che è bene usare il meno possibile».

Nel 1954 abbiamo letto assieme L’Ancien Régime et la Révolution di Tocqueville in francese. Poi mi fece leggere i commentari dell’inglese Arthur Young che aveva viaggiato in Francia negli anni prima della rivoluzione registrando le condizioni economiche e sociali.

Nel 1945, al ritorno dall’esilio svizzero per assumere la carica di governatore della Banca d’Italia Luigi Einaudi aveva 71 anni. Mio padre diceva che il nonno «era affamato» di rimettersi al lavoro. A quante persone è dato avere l’opportunità di mettere in pratica le conoscenze e le teorie di tutta una vita? (more…)

Quando andai al cinema con James Dean

ottobre 30, 2011

Dario Zonta, da “l’Unità.it

Al Festival di Roma, la sezione Extra, curata da Mario Sesti, regala la sua prima gemma portando in sala il documentario Hollywood bruciata – Ritratto di Nicholas Ray, per la regia del giovane Francesco Zippel, e al cospetto del pubblico lo sceneggiatore ultra ottantenne Stewart Stern, autore di Gioventù bruciata, per dirne una, e amico personale di James Dean e Paul Newman. Qualche giorno prima del passaggio ufficiale, abbiamo avuto l’onore di incontrare Stern in occasione della trasmissione radiofonica Hollywood Party su Radio Tre, anticipando di un soffio l’incontro che si è tenuto ieri con Antonio Monda e Mario Sesti in quel dell’Auditorium.

L’ICONA DI UNA GENERAZIONE
Nipote di Adolph Zukor, fondatore della Paramount, e cugino dei Loews, primi proprietari della Mgm, Stern ha potuto sin da subito frequentare la miglior tradizione del cinema americano e i suoi epigoni. Tra questi c’era un giovanissimo Dean, ancor prima che diventasse l’eterno ribelle, il mito e l’icona di una generazione. Il racconto del primo incontro con Dean è una pagina di storia che vorremmo restasse segnata nel tempo. Ve la riportiamo così come è avvenuta, quasi fosse la lettura dell’estratto di un diario.

«L’incontro con Jimmy avvenne a New York all’epoca in cui dovevo curare la regia di un’opera teatrale. Volevo provinare dei giovani attori ed entrai in contatto con un gruppo che proteggeva i loro interessi e che dava alla New Drama Society la possibilità di avere accesso ai questi nuovi talenti. A un certo punto qualcuno mi disse che per quella parte sarebbe stato perfetto un tale chiamato James Dean. Io non ne avevo sentito parlare, sapevo solo che fatto due lavori a Broadway. Cercai di chiamarlo al numero di telefono che mi avevano dato, ma senza successo. Poi è accaduto che mio cugino Loew, imparentato con il Loews del Mgm e Zucker della Paramount, mi ha detto che conosceva Dean attraverso la Pier Angeli che io avevo conosciuto a Roma in occasione del mio lavoro su Teresa (di cui Stern scrisse il soggetto). Mio cugino mi disse che doveva andare dal dentista e che ci sarebbe stato anche Jimmy. Così, quel giorno, io e questo giovanotto ci siamo ritrovati nella sala d’attesa di un dentista, seduti su quelle poltrone con sotto le rotelle. All’inizio ci siamo ignorati, guardavamo il giardino al fuori della grande vetrata e il nostro riflesso mentre giocavamo con la poltrona a rotelle. Poi, all’improvviso, forse perché annoiato, Jimmy fa il verso di una mucca “muuu”. Mi dissi, riesco a fare di meglio. E ho iniziato con la mia versione della mucca. Jimmy rimase colpito e mi chiese cosa altro sapessi fare. Risposi che sapevo fare il verso di un vitello che veniva preso al lazzo durante un rodeo. E lo feci. Lui mi rispose che sapeva fare le pecore. Insomma, iniziò una formidabile gara d’imitazione di versi d’animali che finì con la mia performance su tre maiali che mangiano contemporaneamente. Alla fine mi disse: “Perché non vieni al cinema con me domani sera?”. Arrivammo al cinema a bordo della sua moto. C’era il titolo di un film che non mi di diceva niente con su scritto “anteprima privata”. Siamo entrati in sala, c’erano dei posti riservati con un nastro e lui prende lo leva e dice «sediamoci». (more…)

I LIBRI USCITI PER L’ANNIVERSARIO

ottobre 29, 2011

Luigi Einaudi

“il Giornale

Tra i libri usciti in occasione dei 50 anni dalla morte Luigi Einaudi, da segnalare il breve scritto dell’economista e politico «L’imposta patrimoniale» ripubblicato da Chiarelettere con prefazione di Francesco Giavazzi in cui si trova la famosa frase: «Bisogna ricreare fiducia. Questo è il miracolo dell’imposta straordinaria sul patrimonio»; poi la raccolta di scritti di diversi studiosi, a cura di Alfredo Gigliobianco, «Luigi Einaudi: libertà economica e coesione sociale» (Laterza) sui grandi temi «einaudiani», dalla giustizia sociale all’uguaglianza; e il saggio di Roberto Vivarelli «Liberismo, protezionismo, fascismo. Un giudizio di Luigi Einaudi» (Rubbettino) sulle ragioni che resero il nostro stato liberale incapace di fronteggiare il fascismo. (more…)

Il grande equivoco dell’esercito afghano

ottobre 29, 2011

La guerriglia perde terreno, ma guadagna visibilità. Senza sicurezza non c’è transizione. Le Forze di sicurezza fanno passi avanti, ma resta l’incognita pakistana

Fabrizio Maronta per “Limes

Il 13 settembre scorso, una serie di attacchi coordinati getta Kabul nel panico: a un tratto, sembra di essere tornati all’inizio degli anni Novanta, prima dell’arrivo dei taliban, quando nella martoriata capitale afghana imperversavano i signori della guerra. Da un edificio in costruzione a ridosso del quartier generale Isaf, nell’iperprotetta Zona verde, un gruppo di guerriglieri spara razzi e granate sul compound militare, mentre poco distante l’ambasciata statunitense è presa di mira da un altro commando. Ci vorranno 20 ore di controffensiva per riportare l’ordine. Bilancio: 19 morti, di cui 8 attentatori.

Una settimana dopo, il 20 settembre, un attentatore suicida si introduce nella casa di Burhanuddin Rabbani, ex presidente dell’Afghanistan e capo del Consiglio di pace, l’organismo governativo incaricato di portare avanti i colloqui con i taliban. Nessuno, ai numerosi controlli di sicurezza (la casa è a due passi dall’ambasciata americana), nota alcuna anomalia nel tradizionale turbante che cinge il capo dell’individuo: eppure, esso cela una bomba che uccide sul colpo Rabbani e ferisce gravemente il suo vice, Masum Stanikzai, che ora lotta tra la vita e la morte in un ospedale indiano.

Questi episodi restituiscono l’immagine di un paese nel caos, in cui nemmeno il massiccio dispiegamento di truppe occidentali (130 mila uomini) riesce ad avere la meglio su una guerriglia incoercibile, che arriva a minacciare il cuore delle istituzioni locali e della presenza militare internazionale. Ma le cose stanno esattamente così?

Negli ultimi due anni, la martellante controffensiva della Nato ha sensibilmente ridotto il potenziale della guerriglia, ricacciata nel sud del paese e resa incapace di condurre campagne su vasta scala, data l’incolmabile inferiorità rispetto alle forze della coalizione. La Nato stima oggi in circa 5 mila i taliban fanatici, cuore dell’insorgenza, che combattono guidati solo o soprattutto da un forte movente ideologico. A questi si aggiungono altri 8-10 mila “salariati della guerra”, per lo più giovani uomini disoccupati che imbracciano le armi per sfuggire alla fame e dar da mangiare alla famiglia. Numeri non trascurabili, ma pur sempre residuali rispetto a quelli di Isaf e delle Forze armate afghane. (more…)

Addio a Hillman così si muore da filosofo antico

ottobre 29, 2011

Lo psicanalista e filosofo americano James Hillman era nato nel 1926. Allievo di Carl Gustav Jung, è stato il fondatore della psicologia archetipica. È autore di oltre venti libri tradotti in 25 lingue

Il grande psicanalista americano si è spento a 85 anni. Malato di cancro, ha rinunciato alla morfina per ragionare fino all’ultimo con i discepoli sulla sua esperienza estrema

Silvia Ronchey per “La Stampa

“Socrate, sei come una torpedine marina. Quando parli dai la scossa», è scritto in un dialogo di Platone. James Hillman, fra i massimi pensatori dei nostri tempi, aveva una personalità socratica. Ci insegnava a conoscere noi stessi, secondo il motto inciso sul marmo di Delfi. Si metteva sempre in contrasto con l’opinione corrente. E aveva una grande esperienza nel dialogo. Ogni volta che si dialogava con Hillman ci si trovava in contatto con quell’ironia socratica, quella capacità di rovesciare ed elettrizzare ogni discorso, che è propria di chi ha inventato un nuovo pensiero e un nuovo modo di far pensare gli altri, sovvertendo completamente le loro abitudini logiche e psicologiche. Hillman ci dava non solo e non tanto le risposte, Hillman ci dava le domande. Correggeva le nostre domande, le guariva dalla loro inerzia e dalla loro patologia.

Da anni aveva scelto di psicanalizzare non più singoli pazienti, ma tutti noi. Era un terapeuta della psiche collettiva, aveva preso in cura l’Anima del Mondo. Meraviglioso scrittore, ispirato oratore nelle prodigiose conferenze tenute per tutta la vita in tutto il mondo, Hillman era un cosmopolita. Aveva studiato alla Sorbona e a Dublino, era stato allievo di Jung a Zurigo, alla sua morte aveva diretto lo Jung Institut. Conosceva non solo molte lingue – incluse quelle morte, come il greco antico degli dèi pagani che amava e frequentava – ma anche il linguaggio dell’inconscio, la lingua dei sogni, il dialetto dei simboli e delle immagini. (more…)

DA HOBBES A SCHMITT, ECCO IL LEVIATANO

ottobre 29, 2011

Thomas Hobbes

Escono la ristampa del classico seicentesco e lo studio del filosofo del ´900. Quando fu pubblicato, nel 1651, si avvertiva in Europa la necessità di un rinnovo delle istituzioni Tanti poi interpretarono il trattato: da Rousseau a Kant fino a Benjamin

Antonio Gnoli per “la Repubblica”

Il Leviatano è un grandissimo libro di teoria politica. Ancora oggi ci turbano le sue analisi. Ancora oggi stupisce la capacità introspettiva con cui Thomas Hobbes indagava la natura umana, estraendone miserie e nefandezze: (more…)

Come mettere tutto (ma anche niente) dentro un’enciclopedia

ottobre 29, 2011

Si chiama Charles Dantzig, da noi è (quasi) sconosciuto e i suoi elenchi sono straordinari. Altro che Fazio&Saviano

Stenio Solinas per “il Giornale

C’è un’ammirazione che nasce dall’irritazione. È quella che provo di fronte ai libri di Charles Dantzig, di cui ora esce Enciclopedia capricciosa di tutto e di niente (Archinto, pagg. 572, euro 30). Cinque o sei anni fa era stata la volta del Dictionnaire égoïste de la littérature française, vertiginoso compendio che dalla A di Aragon alla Z di Zola costruiva una personalissima storia della letteratura nelle quale nove volte su dieci si facevano a pezzi scrittori che amo e nella stessa percentuale si elogiavano scrittori che detesto, ma sempre però con una grazia stilistica e una profondità che, nel maledirlo, mi facevano mormorare: «E se avesse ragione lui?».
L’Enciclopedia è costruita allo stesso modo, però sono le liste a esserne il soggetto: liste di luoghi, città, viaggi, popoli, sentimenti, persone, cose, solitudini e consuetudini, attori e pittori, nomi, fatti, persino scemenze.
Quando c’era ancora in Italia la Prima repubblica, il settimanale Cuore lanciò fra i suoi lettori l’elenco delle dieci cose per cui valesse la pena vivere. (more…)

Storie di eremiti contemporanei

ottobre 29, 2011

Francesco Antonioli

Francesco Antonioli per “Il Sole 24 Ore”

Sarà in libreria da martedì il volume Un eremo è il cuore del mondo. Viaggio tra gli ultimi custodi del silenzio (Piemme, pagg. 224, € 15,00) scritto dal giornalista del Sole 24 Ore Francesco Antonioli. Sono racconti di viaggio sulle tracce di eremiti e solitari appartenenti non solo alla tradizione cristiana. Ne anticipiamo di seguito uno stralcio.

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PencilHead

ottobre 29, 2011

PencilHead from qwaqa on Vimeo.

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ottobre 27, 2011

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Un nuovo umanesimo in dieci principi

ottobre 27, 2011

Julia Kristeva

Il «bisogno di credere», il «desiderio di sapere»: dialogo tra religioni e ateismo

Julia Kristeva, da “Il Corriere della Sera

Che cos’è l’umanesimo? Un grande punto interrogativo da affrontare con la massima serietà? È nella tradizione europea, greco-giudaico-cristiana, che si è prodotto questo evento che non cessa di promettere, di deludere e di rifondarsi. Quando Gesù si descrive (Giovanni 8,24) negli stessi termini di Elohim che si rivolge a Mosè (Esodo 3,14), dicendo: «Io sono», egli definisce l’uomo – anticipando così l’umanesimo – come una «singolarità indistruttibile» (secondo l’espressione di Benedetto XVI).

Singolarità indistruttibile che non solo lo ricollega al divino attraverso la genealogia di Abramo (come faceva già il popolo di Israele), ma che innova. Giacché l’«Io sono» di Gesù si estende dal passato e dal presente al futuro e all’Universo; il Roveto ardente e la Croce diventano universali.

Quando il Rinascimento con Erasmo, poi l’Illuminismo con Diderot, con Voltaire, con Rousseau, ma anche con il Marchese de Sade, e via via fino a quell’ebreo ateo che è stato Sigmund Freud, proclamano la libertà degli uomini e delle donne di ribellarsi contro i dogmi e le oppressioni, la libertà di emancipare gli spiriti e i corpi, di mettere in discussione ogni certezza, comandamento o valore – aprono forse essi la porta a un nichilismo apocalittico? Attaccandosi all’oscurantismo, la secolarizzazione ha dimenticato di interrogarsi sul bisogno di credere che è sotteso al desiderio di sapere, così come sui limiti da porre al desiderio di morte – per vivere insieme. Tuttavia, non è l’umanesimo, sono le derive settarie, tecnicistiche e negazionistiche della secolarizzazione che sono precipitate nella «banalità del male», e che oggi favoriscono l’automatizzazione in atto della specie umana. «Non abbiate paura!», queste parole di Giovanni Paolo II non erano rivolte solamente ai credenti, che incoraggiavano a resistere al totalitarismo. L’invocazione di questo Papa – apostolo dei diritti dell’uomo – ci incita anche a non temere la cultura europea, ma al contrario ad osare l’umanesimo: costruendo complicità tra l’umanesimo cristiano e quello che, scaturito dal Rinascimento e dai Lumi, ambisce a rischiarare le vie rischiose della libertà.

Ecco perché, in questa vostra terra d’Assisi, i miei pensieri si rivolgono a san Francesco: che non cerca «tanto di essere compreso, ma di comprendere», «non tanto di essere amato, ma di amare»; che suscita la spiritualità delle donne con l’opera di santa Chiara; che pone il bambino nel cuore della cultura europea creando la festa di Natale; e che, poco prima di morire, da vero umanista ante litteram, manda la sua lettera «a tutti gli abitanti del mondo». Penso anche a Giotto che dispiega i testi sacri in un insieme di immagini viventi della vita quotidiana degli uomini e delle donne del suo tempo, e sfida il mondo moderno a scuotersi dal rito tossico dello spettacolo oggi onnipresente.

Ed è Dante Alighieri che mi interpella in questo istante, quando celebra san Francesco nel Paradisodella sua Divina Commedia. Dante ha fondato una teologia cattolica dell’umanesimo dimostrando che l’umanesimo esiste solo ed in quanto noi trascendiamo il linguaggio attraverso l’invenzione di nuovi linguaggi: come lui stesso ha fatto, scrivendo in uno «Stil novo» la lingua italiana corrente, e inventando neologismi. «Oltrepassare l’umano nell’umano» («trasumanar», Paradiso, I, 69), questo – dice Dante – sarà il cammino della verità. Si tratterà di «annodare» – nel senso di «accoppiare», di vedere come si annodano il cerchio e l’immagine dentro un rosone (come l’una si «indova» nell’altra, come si posiziona, come si mette in quel «dove», Paradiso, XXXIII, 138) – si tratterà di annodare il divino con l’umano nel Cristo, di annodare il fisico e lo psichico nell’umano.

Di questo umanesimo cristiano, inteso come un «oltrepassamento» dell’umano, come l’accoppiamento dei desideri e del senso attraverso il linguaggio – purché si tratti di un linguaggio d’amore – l’umanesimo secolarizzato è l’erede spesso inconsapevole. (more…)

Contro i (falsi) miti della psicologia

ottobre 27, 2011

Cinquanta luoghi comuni sul nostro cervello smontati dalla scienza

Cristina Taglietti per “Il Corriere della Sera

Rubriche di psicologia, manuali di auto-aiuto, strizzacervelli in tv. E poi un’invasione di notizie della serie strano ma vero, pillole di scienza, precetti di comportamenti. Mai come in questo periodo la psicologia è stata così popolare, anche se il cervello continua a essere un grande sconosciuto. Nel corso degli anni miti e leggende di (pseudo) psicologia si sono stratificati nelle nostre menti, spesso condensati in forma di proverbio popolare («Chi ben ama ben castiga», «Confidenza toglie riverenza», «L’unione fa la forza») a volte inducendoci in errore sulla natura umana, magari con il risultato di spingerci a prendere decisioni incaute. Così chi crede, per esempio, che le esperienze dolorose vengano abitualmente rimosse, può passare buona parte della sua vita a cercare nel passato il trauma che in realtà non ha mai subito o chi è convinto del fatto che «gli opposti si attraggano» potrebbe ritrovarsi a dedicare anni alla ricerca di un’anima gemella dalla personalità e dai valori radicalmente diversi dai propri.

Ora è un saggio documentato, scritto da quattro esperti, Scott O. Lilienfeld, Steven Jay Lynn, John Ruscio, Barry L. Beyerstein, I grandi miti della psicologia popolare. Contro i luoghi comuni che Raffaello Cortina ha mandato in libreria ieri, a fare finalmente chiarezza tra il vero e il falso in cinquanta miti che riguardano undici ambiti: la forza del cervello, lo sviluppo e l’invecchiamento, la memoria, l’intelligenza e l’apprendimento, la coscienza, le emozioni, il comportamento interpersonale, la personalità, la malattia mentale, il rapporto tra psicologia e legge, la terapia. (more…)

Cattelan appeso al Guggenheim come un salame

ottobre 27, 2011

Dal 4 novembre al 22 gennaio il Solomon Guggenheim di New York dedica a Maurizio Cattelan, oggi l’artista italiano più famoso del mondo, la prima retrospettiva che ne ripercorre l’intera carriera. La mostra "Maurizio Cattelan: All", è curata da Nancy Spector, vicedirettore del museo newyorchese

Parla la curatrice della mostra-evento newyorchese con le opere che scendono dalla rotonda del museo

Francesca Bonami per “La Stampa

C’ è una nuova espressione latina, «Cattelan ad nauseam» che tradotta vuol dire «non ne possiamo più di Cattelan». Era forse dal tempo del matrimonio di Jeff Koons con l’allora onorevole Ilona Staller che un artista non occupava così massicciamente la stampa nazionale e internazionale fino a farci venire la nausea. Allora come antidoto andiamo a sentire la voce non del protagonista ma di Nancy Spector, vicedirettore del Guggenheim Museum di New York e curatrice della «mostra del secolo», l’annunciatissima annunciazione cattelaniana con le opere appese come salami che scendono dalla rotonda del più famoso museo del mondo, costata si dice quasi quattro milioni di dollari, cifra tenuta top secret dal museo come d’altronde tutta la mostra.

Cattelan ha fama di essere sia sciupafemmine sia sciupacuratori. Essendo Nancy Spector entrambe le cose, si potrebbe temere il peggio. Invece questa solo apparentemente dolce signora ha saputo tenere testa al Lucignolo dell’arte contemporanea ed è stata capace, da quando l’ha incontrato la prima volta alla Biennale di Venezia del 1997, di convincerlo dopo lunghe ed estenuanti conversazioni a fare quella che sarà una delle mostre più audaci nella storia del museo. Ma la faccenda non è stata semplice. Per strappare il sì di Cattelan, in quel matrimonio che ogni curatore s’illude essere eterno ma che invece durerà solo quanto all’artista farà comodo, di solito la durata della mostra, la Spector ha dovuto aspettare il 2007, dieci anni dopo il colpo di fulmine iniziale. (more…)

Pillole di saggezza proustiane. La collezione di Patrizia Valduga

ottobre 27, 2011

Luca Vaglio per “Il Sole 24 Ore”

“Diverse volte, basta rovesciare le reputazioni create dalla gente per avere il giudizio esatto su una persona”. La frase è tratta da «Breviario proustiano» (Einaudi), libro curato dalla poetessa Patrizia Valduga, che contiene, divise per temi, dalla felicità all’inconscio, fino alla memoria, circa 1.500 pensieri tratti dalla Recherche di Marcel Proust, nella traduzione di Giovanni Raboni.

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Il governo olandese vuole mettere la marijuana troppo forte fuori legge

ottobre 27, 2011

L’idea del ministro della Giustizia è di trattare la skunk, la cannabis con un forte quantitativo di principio attivo, al pari di eroina e cocaina in modo da vietarne la vendita. Insorgono gli imprenditori del settore: “Provvedimento demenziale, basato su presupposti scientifici inesistenti

Massimiliano Sfregola per “Il Fatto

La guerra alla droga che contrappone governo olandese da una parte e il mondo attorno al commercio della marijuana (che in Olanda è semi-legale) dall’altra, si arricchisce di un nuovo capitolo.

Nel corso di una recente conferenza stampa, il ministro della Giustizia, Ivo Opstelten ha annunciato che dal 2012 la cannabis venduta nei coffee-shop, i bar dove dal 1976 è tollerata la vendita di piccoli quantitativi di erba e hascisc, non potrà più superare il 15 per cento di thc, il tetraidrocannabinolo, uno dei principi attivi responsabili dell’effetto di quelle sostanze. L’erba più forte, la cosiddetta skunk, sarà quindi trattata, secondo i piani del governo, al pari delle droghe pesanti e inserita nella tabella delle ‘hard drugs’, insieme aderoina e cocaina, la cui vendita al dettaglio è vietata.

La decisione, come aveva suggerito lo scorso giugno una commissione governativa incaricata di redigere una proposta di riforma dell’attuale legislazione sugli stupefacenti, arriva proprio in concomitanza con il parziale abbandono del progetto di chiusura dei coffee-shop ai turisti a causa della ferma opposizione di gran parte dei sindaci del paese. Nell’annunciare il provvedimento, il ministro della Giustizia ha sottolineato coma la responsabilità del mancato monitoraggio sarà totalmente a carico dei negozi, nonostante a questi ultimi sia consentita solo la vendita al dettaglio.

Questa nuova offensiva del governo, si muoverebbe sulla linea di evidenze scientifiche, che dimostrerebbero quanto siano rischiose per la salute alte percentuali di Thc. E gli imprenditori della cannabis, cosa ne pensano? (more…)

Compagnia delle Opere: il forziere del “partito di Dio”

ottobre 27, 2011

di Ettore Livini, da Affari & Finanza di Repubblica, da “Micromega

Prima le spinte del Vaticano. Poi Todi. Ora le grandi manovre al centro del quadro politico romano per gettare le basi del dopo Berlusconi. La Balena bianca dopo anni di letargo bipolare ha avviato le prove tecniche di risveglio. E in attesa di trovare leader, alleati e linea politica, si consola con una certezza: il forziere di Dio, vent’anni dopo l’eutanasia della Democrazia cristiana, gode ancora di ottima salute. Tenuto in piedi, anzi tonificato, negli anni bui del bipartitismo dall’unica macchina di voti, soldi e consensi sopravvissuta alle macerie dello scudo crociato: quella di Comunione e liberazione e della Compagnia delle Opere (Cdo). La Confindustria dei cieli pronta a fare da Cavallo di Troia qualcuno dice anche da Bancomat per il ritorno dei cattolici al centro della scena politica nazionale.

Fare un estratto conto preciso al centesimo dei soldi a disposizione di questa lobby politico-finanziaria non è facile. La Cdo è una nebulosa proteiforme posizionata nell’area grigia tra profit e noprofit dove i dati pubblici sono merce rara. L’unica certezza è che negli ultimi anni, crisi o non crisi, ha continuato a crescere. Le aziende iscritte (prezzo attorno ai 300 euro l’anno) sono 36.600, il 10% in più del 2010, per un giro d’affari complessivo attorno ai 70 miliardi. L’elenco ufficiale dei soci non esiste, ma solo in Lombardia, feudo del governatore Roberto Formigoni, sarebbero 6mila, più di quelli di Assolombarda. I documenti depositati sulla galassia si contano sulla punta delle dita. E raccontano solo una porzione infinitesimale del potere dell’armata ciellina. C’è un’Associazione Compagnia delle Opere con 4 milioni di attivi e 137mila euro di utile nel 2009. Sotto il suo cappello ci sono Cdo Net (servizi, 9 milioni di ricavi), la misteriosa Magifyng films negli Usa e Bps (consulenza finanziarie 5,5 milioni di fatturato). Dove tra gli azionisti spuntano alcuni degli uomini forti del gruppo come Graziano Tarantini presidente di A2a, membro della potentissima Fondazione Cariplo e consigliere di Akros e Bpm e Paolo Fumagalli, presente in alcuni cda in orbita IntesaSanpaolo. Ma si tratta solo di una goccia nell’oceano degli interessi della Compagnia.

I vantaggi per i soci. Il vero tesoro del forziere di Dio è altrove. Sfuggente e invisibile, fatto di mille rivoli di denaro (tutti insieme fanno un fiume d’oro) che corrono tra politica, affari e opere di bene. Un patrimonio milionario capace, al momento delle elezioni, di trasformarsi in un serbatoio da centinaia di migliaia di voti. La Compagnia delle Opere si è messa nel mezzo di questo crocevia strategico: «L’associazione è scritto nella brochure di presentazione dà la possibilità di trovarsi al centro di un complesso di relazioni in cui ciascun associato può trarre beneficio per la sua impresa». Come? (more…)

Wojtyla teologo antitotalitario

ottobre 27, 2011

Maximilian Heim per “Avvenire

Quando nel 1959 il giovane Joseph Ratzinger tenne la sua prima lezione da professore, l’Università di Bonn non era molto grande, le varie cattedre non avevano assistenti e dattilografi, ma c’era un rapporto diretto fra i professori e fra questi e gli studenti. E il fatto che un’università avesse una facoltà di Teologia era motivo di orgoglio. L’università formava un “tutto” al di là delle sue diverse facoltà e in questo tutto, in questa dimensione universale dell’intelligenza si svolgeva il lavoro accademico. Una facoltà teologica trova il suo posto nell’università proprio per questo motivo, perché in tale disciplina da sempre fede e ragione si rapportano l’una all’altra. La ragione appartiene all’interrogarsi dell’uomo, al suo impulso verso la conoscenza e la verità che conosciamo già con Socrate. All’uomo non basta ciò che è apparente e superficiale ma è alla ricerca dell’Essere. L’università è il luogo in cui attraverso la ragione l’uomo indaga la struttura del cosmo. Perciò la teologia chiede la ragionevolezza della fede, anche se non tutti condividono questa fede. Un docente di Teologia dogmatica come Erwin Dirscherl ha scritto in un commento al discorso di Ratzinger a Ratisbona: «Il cuore della relazione tra fede e ragione consiste in un appello all’apertura al dialogo, dialogo in cui sosteniamo la nostra posizione ma consci dei nostri limiti e con una disponibilità all’apprendimento e ai cambiamenti». In che rapporto stanno filosofia e teologia? (more…)

La ricetta della salute secondo la Cabalà: sesso e cibo moderato

ottobre 26, 2011

Luca Vaglio per “il Sole 24 Ore”

“Benedirò il tuo pane e la tua acqua, rimuoverò da te ogni malattia”, dice Dio a Mosè in un versetto biblico del libro dell’Esodo. In queste parole appare un forte legame tra spiritualità e salute, tra alimentazione e trascendenza. Fa propria questa prospettiva filosofica il libro di Daniela Abravanel «La Cabalà e i quattro mondi della guarigione».

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ottobre 26, 2011

Il sangue versato e le geometrie del desiderio

ottobre 26, 2011

Oddone Camerana per “L’Osservatore Romano

Alla ragguardevole età di ottantotto anni il critico letterario e antropologo delle religioni René Girard continua a essere presente sulla scena degli studi consacrati alla sua specialità. Due i titoli usciti in questo 2011 che sta per finire. Il primo tradotto in italiano Violenza e religione. Causa o effetto? (Milano, Raffaello Cortina, 2011, pagine 85, euro 11), il secondo in francese Géométries du desir (Parigi, L’Herne, 2011, pagine 218, euro 9,50). Entrambi dedicati alla ripresa di articoli, conversazioni o atti di convegni accademici, testi ai quali il comune lettore avrebbe avuto accesso difficile.

L’occasione è invece preziosa e da non lasciarsi sfuggire in quanto dà modo di verificare l’attualità e la tenuta della stupefacente teoria mimetica di Girard applicata alle religioni arcaiche, al mito, nonché alla religione cristiana.

Occasione offerta non solo a chi conosce già le opere fondamentali dello studioso francese pubblicate in Italia da Adelphi, La violenza e il sacro e Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, ma anche a chi, stimolato dalla lettura delle recenti novità, abbia voglia poi di approfondirne il contenuto.

Vero è che in queste ultime le linee del pensiero girardiano sono esposte al completo ancorché in forma sintetica.

Si comincia dalla teoria dei rapporti interpersonali dominati dal desiderio messo in moto da quello altrui — teoria elaborata rileggendo i romanzi classici europei e riverificata sui testi dell’Antico e del Nuovo Testamento.

Si passa poi alla messa in luce della comunità i cui protagonisti della lite diventano folla compatta grazie al trasferimento su un presunto responsabile della colpa del contagio che li avrebbe distrutti.

È il momento del meccanismo vittimario e della divinizzazione del presunto colpevole, momento e meccanismi che, premiati dal ritorno miracoloso all’ordine e alla pace, richiedono di venir ripetuti se non altro in via preventiva dando così vita al mito e al rito sacrificale. (more…)

Ermetismo, l’eterna rivelazione

ottobre 26, 2011

Il sommo Trismegisto, il dio che non smette mai di creare il mondo

Pietro Citati per “Il Corriere della Sera

Siamo abituati a credere che la filosofia occidentale dipenda da alcuni grandi pensatori: Platone, Aristotele, Cartesio, Spinoza, Kant, Hegel. E dimentichiamo l’enorme influenza esercitata da una filosofia apparentemente minore, quella ermetica, immaginata da pensatori sconosciuti, che per diciannove secoli attraversa come un fiume sotterraneo tutta la storia dell’Occidente. Appare, scompare, si nasconde, torna alla luce, viene tradotta, assimilata, trasformata, modellata, rimodellata, sino ad assumere forme imprevedibili. In due grossi volumi, un eccellente studioso, Paolo Scarpi, ha pubblicato La rivelazione segreta di Ermete Trismegisto, raccogliendo i testi essenziali della dottrina ed altri meno noti (Fondazione Lorenzo Valla-Mondadori, pagine CXXII-544, XL-652, 60). Un gruppo di studiosi ha tradotto e ampiamente commentato: insieme a Paolo Scarpi, Alberto Camplani, Chiara Cremonesi, Simonetta Feraboli, Claudio Marangoni, Chiara Poltronieri, Andrea Rodighiero, Lorenza Savignago, Andrea Tessier, Michela Zago, la quale ha inoltre preparato un vasto Indice delle cose notevoli, utilissimo per addentrarsi in questa selva, che a volte si ispessisce e diventa quasi inestricabile. (more…)

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ottobre 25, 2011

Fol Amour © Liliroze

ottobre 25, 2011

La prova dell’esistenza di Dio? Viene da Nietzsche

ottobre 25, 2011

Robert Spaemann

Parla il filosofo Robert Spaemann, compagno di ricerche di Ratzinger, che domani terrà una lectio a Torino

Letizia Tortello per “La Stampa

“È una vecchia diceria che esista un essere nella nostra lingua chiamato “Dio”. Una diceria immortale, che non riusciamo in nessun modo a mettere a tacere». Chi parla (nei chiari toni della provocazione) non è un ateo e neppure un nichilista. È il filosofo Robert Spaemann, uno dei massimi pensatori tedeschi viventi, ospite questa settimana del X ciclo di seminari della Scuola di Alta Formazione Filosofica di Torino. Domani alle 18, presso il Circolo dei Lettori, terrà una lectio intitolata «Che cosa rende persone le persone?», e intanto arriva in libreria, edito da Lindau, il suo libro Tre lezioni sulla dignità umana .

Ottantaquattrenne dall’energia intellettuale inesauribile, nato a Berlino, compagno di ricerche di papa Benedetto XVI, Spaemann è autore di una dimostrazione di Dio «alle condizioni della vita moderna». Una tesi che muove da presupposti nietzscheani. Nel disorientamento del tempo presente, in cui laicità, religione ed etica sembrano sempre più universi lontanissimi tra loro, lui ribalta la «filosofia del martello». Fino al paradosso: «Dio è il fondamento e non si può che pensarlo così». Ma chi ha contribuito a preparare il terreno per questa nuova prova dell’esistenza di Dio è proprio il filosofo dello Zarathustra , che ne teorizzò la morte.

Professore, lei ha definito il suo argomento sull’esistenza di Dio come una tesi «Nietzsche-resistente». Che cosa significa?
«Contrariamente a quanto si crede, Nietzsche è il migliore teorizzatore del legame tra Dio, l’esistenza e la verità. Negare Dio equivale a dire che si nega la verità. Nella visione nietzscheana, gli uomini si limitano a conoscere i propri stati d’animo soggettivi. Ma se ci basiamo sull’identificazione tra il mondo e la sua rappresentazione, le rappresentazioni non coincideranno mai. Un esempio: poniamo che io abbia mal di testa, lei potrebbe dirmi che non è vero, perché il mal di testa lo sento solo io. Ma come ho scritto in un mio libro, se vogliamo essere reali dobbiamo rimanere attaccati all’esistenza di Dio, che è il garante dello spazio della verità, entro il quale il soggetto può recuperare la propria identità oltre l’autocoscienza istantanea». (more…)

Lo sguardo del giornalista su Paolo

ottobre 25, 2011

Il dialogo tra ebrei e cristiani

Cristiana Dobner per “L’Osservatore Romano

Lo sguardo posato su Paolo apostolo da Jean-François Bouthors, giornalista e scrittore — quindi non biblista di mestiere ma appassionatamente curvo sulla Parola — presenta una novità che rende le pagine di Paul, le Juif (Editions Parole et Silènce, 2011, pagine 200, euro 14), agili nel linguaggio ma estremamente dense nella rigorosa prospettiva teologica, attraenti e suggestive.

Marc Rastoin, gesuita e biblista al Collège des Bernadins (luogo di incontri e iniziative culturali a Parigi), figlio «d’arte ecumenica» per parte di padre e di madre, Jean e Jacqueline Rastoin (scrittrice e traduttrice attiva nel dialogo ebraico-cristiano), e fratello della carmelitana Cécile (a sua volta presente nel mondo ecumenico con i suoi scritti) coglie il nucleo da cui irradia tutto il saggio: «Come partire dalle nostre Scritture per pensare positivamente l’esistenza presente d’Israele?».

L’ultimo libro di Benedetto XVI dimostra come le interpretazioni antisemite siano state ormai bandite dal pensiero teologico della Chiesa. Tuttavia queste chiarificazioni devono penetrare nella mentalità e nell’immaginario comune.

Alle lettere paoline l’autore affianca la disanima rigorosa dell’opera di Luca «legata a quella di Paolo da numerosi legami». La continuità profeti, Cristo, apostoli ne risulta dimostrata e operante.

Un’asserzione lapidaria regge tutto l’impianto: «Se il Cristo è una novità radicale, nello stesso tempo è completamente inscritto nel movimento dell’amore di Dio per la sua creazione, come lo dimostra la Scrittura. Per Paolo, Cristo non è estraneo all’esperienza d’Israele. Al contrario ne rivela tutta l’ampiezza».

La cascata degli interrogativi non ha fine. Bouthors possiede l’intelligenza e l’arguzia per non porre le sue interpretazioni come parole definitive ma possiede anche la consapevolezza della qualità delle sue risposte, sempre meditate, documentate ed equilibrate. Basterà un solo esempio. L’indurimento, l’accecamento e la sordità d’Israele, se sono una rude lezione per il popolo che non mantiene fede all’alleanza, non esprimono però una condanna. Dimostrano solo la loro qualità di prova. Non sono infatti volte alla cancellazione del popolo eletto, ma mirano a riportarlo a una rinascita come nazione santa, qual è realmente.

Ruotando intorno al perno comune indicato, i dieci capitoli costituiscono una griglia serrata in cui può passare soltanto quanto positivamente crea e contiene in sé la Parola di Dio, abbandonando quelle posizioni desuete (o oggi ingiustificabili teologicamente), che tanto attrito e sofferenza hanno provocato nel rapporto fra popolo ebraico e Chiesa.

Al lettore attento non potrà sfuggire un dato estremamente importante: se avrà la pazienza di raccogliere gli interrogativi e le rispettive risposte in una sinossi, si troverà fra le mani (e anche nel cuore aperto all’ascolto del Dio che si rivela) una nuova postura teologica ed ermeneutica che gli consentirà di sentirsi parte attiva in ogni passo che Israele e la Chiesa stanno oggi muovendo.

L’accorato appello conclusivo dell’autore quindi non poggia su un’emotività scossa o su un cedimento di pietà, quanto piuttosto su tutta l’arcata gettata nel saggio che si dimostra anello aperto di un’inclusione. L’esergo riporta una frase di Emmanuel Lévinas, che la finale incorpora e fa propria rilanciandola nella storia di ciascuno, perché la responsabilità comune diventi trasparente: «Possiamo, ebrei e cristiani, ognuno secondo la propria chiamata, essere fedeli servitori dell’Alleanza che Dio ha voluto».

La vera perla di casa Freud

ottobre 25, 2011

Lucetta Scaraffia per “L’Osservatore Romano

Goce Smilevski è uno scrittore macedone giovane e sconosciuto. O almeno tale è stato fino al successo clamoroso del romanzo intenso e appassionante La sorella di Freud (Parma, Guanda, 2011, pagine 334, euro 18).

Visto il tema, si potrebbe pensare che, come hanno fatto altri scrittori a corto di fantasia, egli abbia cercato di sfruttare l’interesse verso un personaggio famoso, Sigmund Freud, per sviluppare intorno a lui dei temi minori, poco trattati anche nelle biografie, come quello della famiglia d’origine, e in particolare delle sorelle. Sorelle nei cui confronti — e questo è un dato storico inoppugnabile — Freud non si è comportato molto bene, dal momento che le ha abbandonate nella Vienna occupata dai nazisti, da dove sono state poi deportate in campo di sterminio, invece di condurle con sé in salvo a Londra. Potendo scegliere sedici persone da portare con sé verso la salvezza, Freud ha preferito alle sorelle le sue assistenti, il suo medico con famiglia, il cagnolino. Una decisione che ancora una volta metteva in luce come per lui fosse più importante la rete di rapporti professionali di quella familiare.

Ma il romanzo, che comincia proprio da questo momento, la partenza di Freud da Vienna, per poi svilupparsi a ritroso, a partire dalla giovinezza sua e delle sorelle, non vuole essere una «rivelazione» delle mancanze dell’inventore della psicanalisi, sulle quali pure le biografie sorvolano volentieri. Né tanto meno un fantasticare intorno al suo ambiente familiare.

Il romanzo, che ha una protagonista, la sorella Adolfine — la più infelice delle quattro, malata fin da ragazza, malinconica e sfortunata, ma anche capace di capire con straordinaria acutezza l’animo delle persone — è in realtà una profonda riflessione sulla pazzia, sui rapporti uomo-donna all’interno della famiglia, e anche più in generale sul destino dei legami familiari. Ma anche una riflessione sulla radice ebraica di Freud, da lui rapidamente accantonata a favore di un’identità scientifica atea che avrebbe dovuto affrancarlo finalmente da quel passato di persecuzioni e umiliazioni che incombeva su ogni ebreo. (more…)

Nella guerra tra Russia e Georgia cambiano le armi

ottobre 25, 2011

Carta di Laura Canali

Mosca e Tbilisi non si sparano ma cercano ancora di annientarsi, usando questa volta l’economia per piegare l’avversario. Putin ci prova con l’Unione eurasiatica e Saakashvili risponde col suo veto al Wto

Cecilia Tosi per “Limes

È di nuovo guerra tra Russia e Georgia. Non volano proiettili, ma solo perché non vanno più di moda. L’arma più efficace, oggi, è quella economica ed entrambi pensano di poterla usare a loro vantaggio.

La Russia, come al solito, ci va giù pesante. Approfitta delle sue dimensioni, geografiche e politiche, per cercare di strozzare la Georgia, unico ex satellite di Mosca che si ostina a rivendicare una totale indipendenza. (more…)

I silenziosi complici del male

ottobre 25, 2011

Susanna Nirenstein per “la Repubblica”

Nel cuore di tenebra dell´Europa e del Novecento. È lì che l´israeliano Nir Baram vuol penetrare col suo imponente Brave persone (Ponte alle Grazie, traduzione di Elisa Carandina, in libreria da venerdì prossimo e già acquistato dagli editori di mezzo mondo), è lì, e non per raccontare il disastro dalla parte delle vittime, come è sempre stato nella tradizione della letteratura ebraica degli ultimi 65 anni: in questo romanzo, che si muove dalla Notte dei Cristalli nel ´38 all´invasione tedesca dell´Urss e che ha fatto molto discutere l´intellighentsia d´Israele (con infiniti plausi di Yehoshua e Oz), i due eroi principali fanno scandalosamente parte degli apparati nazista da un lato, e sovietico dall´altro, sono due intellettuali necessari, volenterosi, per quando dubbiosi, che finiscono per affiancare, oliare, potenziare i meccanismi vessatori e criminali dei due regimi.
Si potrebbe dire che c´è il precedente de Le benevole di Jonathan Littell, il discusso autore ebreo americano che di un gerarca hitleriano di stanza nella Parigi occupata ha fatto l´io narrante, ma i casi sono diversi e il messaggio è diverso, per quanto sia interessante notare che i due autori ebrei fanno parte della stessa generazione e sono stati colti da una necessità parallela: mettere da parte le lacrime e indagare l´impensabile.  (more…)