Archive for the ‘esteri’ Category

“Riabilitate i funghi allucinogeni possono avere uso terapeutico”

gennaio 30, 2012

Uno studio britannico ha evidenziato gli effetti positivi della psilocibina, ribaltando la vecchia certezza che essa faccia aumentare l’attività cerebrale. In realtà, la rallenterebbe e potrebbe aiutare le persone a conservare i ricordi in maniera più vivida, riducendo l’ansia. Ma non tutti i medici sono d’accordo

Sara Ficocelli per “la Repubblica

“TURN ON, tune in, drop out”, “accenditi, sintonizzati, sganciati”. Con queste parole lo psicologo Timothy Francis Leary negli anni Sessanta invitava gli studenti di Harvard a svegliare la mente, “distaccandosi da ciò che involontariamente restringe la libertà d’azione”. Frainteso dall’opinione pubblica, ma apprezzato dai neuroscienziati, quello che fu considerato il “profeta” dell’LSD sarebbe stato fiero dei colleghi dell’Imperial College di Londra, che in due studi pubblicati su Proceedings of the National Academy of Sciences e sul British Journal of Psychiatry hanno dimostrato gli effetti positivi della psilocibina: il principio attivo dei funghi allucinogeni sarebbe capace di diminuire l’attività cerebrale e di aiutare le persone a mantenere i ricordi più vividi. Secondo i ricercatori, inoltre, potrebbe ora essere usato a scopo terapeutico, passando dalle porte della percezione a quelle dei laboratori farmacologici, senza passare dal proibizionismo.

In particolare, gli studiosi avrebbero scoperto che le immagini geometriche e la vivida immaginazione che si sperimentano sotto l’influsso dei funghi psicoattivi non sono, come ritenuto finora, il risultato di un aumento dell’attività cerebrale, bensì di una sua riduzione; fenomeno che potrebbe spiegare la liberazione della mente dai vincoli abituali. “Un risultato del tutto inaspettato”, ha detto il coordinatore dello studio, David Nutt, dell’Imperial College di Londra, precisando che “quando si ottiene esattamente l’opposto di quello che si prevedeva, sai che è un risultato giusto, perché non c’è parzialità”.

Essendo la psilocibina illegale, il team ha dovuto faticare un bel po’ per portare a termine lo studio, col timore costante che i volontari sperimentassero il famoso “bad trip”. Soggetti “volontari”, già avvezzi all’uso di certe sostanze, sono stati sottoposti a risonanza magnetica funzionale (che misura la risposta emodinamica correlata all’attività neuronale del cervello) prima e dopo la somministrazione endovenosa di psilocibina. Il flusso di sangue e l’attività cerebrale dei primi 30 hanno rivelato una diminuzione dell’attività nella corteccia prefrontale mediale (un’area coinvolta nelle emozioni, nell’apprendimento, nei processi della memoria e nelle funzioni esecutive) e in quella cingolata posteriore, la cui funzione è però meno chiara.

Il team ha poi utilizzato i dati per valutare come la connettività funzionale tra queste due regioni cerebrali vari nel corso del tempo, e ha scoperto che la loro disattivazione è reciprocamente legata. Le due regioni sono infatti connesse da una rete chiamata Default-mode network (DMN) che integra funzioni cerebrali come sensazioni, ricordi e ambizioni. “E’ un meccanismo che stabilisce chi sei e come vedi il mondo”, ha detto Nutt. Una riduzione dell’attività del DMN potrebbe quindi, secondo gli autori di questa ricerca, consentire una modalità di conoscenza priva di vincoli, tipo quella sperimentata nel 1960 da Leary durante una vacanza in Messico, grazie ai “funghetti magici”.

Un secondo studio, condotto su altre 10 persone, avrebbe anche dimostrato che i ricordi, sotto l’effetto della psilocibina, migliorano e che la sostanza influisce positivamente su ansia e depressione. “Questi hub vincolano la nostra esperienza del mondo e la tengono in ordine. Ora sappiamo che la disattivazione di queste regioni porta a uno stato in cui il mondo viene vissuto con stupore, come qualcosa di strano”, ha aggiunto Nutt.

Secondo Rosanna Cerbo, neurologo psichiatra della Sapienza di Roma, non ci sono però dati sufficienti per parlare di una possibile efficacia terapeutica. “Gli studi che sono stati fatti finora dimostrano effettivamente dei vantaggi per il cervello – spiega – ma solo perché queste sostanze tolgono l’ansia. L’unica efficacia possibile, almeno a livello di quelle sperimentate finora, sta nella loro funzione ansiolitica”.

“I risultati dell’esperimento – spiega Enrico Cherubini, coordinatore del settore di Neurobiologia della Sissa di Trieste, la Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati, e presidente della Società Italiana di Neuroscienze – sono stati riscontrati in aree cerebrali associative  di fondamentale importanza per l’integrazione delle funzioni cognitive. Quindi è davvero plausibile che tali sostanze, riducendo l’attività cerebrale e inibendo questi collegamenti, abbiano effetti benefici sulla psiche, soprattutto in chi soffre di depressione. L’effetto distensivo delle droghe psicoattive è conosciuto da tempo; approfondirne le possibilità terapeutiche mi sembra una cosa molto interessante”.

Questo non significa che da domani le sostanze allucinogene come la psilocibina verranno utilizzate disinvoltamente dalle case farmaceutiche e somministrate con altrettanta leggerezza dagli psichiatri, anche perché in agguato c’è sempre il rischio di dipendenza. “La psilocibina – ha concluso Nutt  – potrebbe essere somministrata solo un paio di volte sotto la supervisione di un terapista. Con la speranza che, alla fine del processo, non si sia più dipendente dai farmaci. Sarebbe come aprire una porta e mostrare che c’è un altro modo di essere”.

Il ’68? Nacque da un omicidio insabbiato

gennaio 25, 2012

Il poliziotto in borghese che colpì non agì per legittima difesa, anzi uccise il giovane sparando a bruciapelo

Francesco Tortora per “Il Corriere della Sera

L’omicidio dello studente tedesco che scatenò le rivolte del sessantotto e che più tardi diede vita al terrorismo rosso in Germania fu premeditato dalla polizia. Dopo oltre 40 anni, grazie alle nuove tecnologie investigative, la procura di Berlino ha dimostrato che la morte di Benno Ohnesorg, avvenuta il 2 giugno del 1967 durante una manifestazione studentesca organizzata per protestare contro la visita a Berlino Ovest dello Scià di Persia Mohammad Reza Pahlavi, non fu un tragica casualità e soprattutto l’autore del delitto, il poliziotto in borghese Karl-Heinz Kurras, non agì per legittima difesa. La nuova indagine, anticipata dalla rivista tedesca Der Spiegel, dichiara che l’agente si avvicinò al capo dei manifestanti e sparò a bruciapelo.

MICCIA – Quel giorno i manifestanti scesero in piazza per protestare contro la Scià Pahlavi, considerato un rappresentante della «politica imperialista degli Usa», al tempo impegnati nell’impopolare e tragica guerra del Vietnam. Secondo gli storici la morte di Ohnesorg fu la miccia che portò alle proteste del ’68 nella Germania Occidentale e proprio dopo questo tragico evento cominciarono a costituirsi le prime cellule della Rote Armee Fraktion (Raf), il gruppo terroristico di estrema sinistra che insanguinò il paese teutonico per tutti gli anni ’70 e gli inizi degli anni ’80. Poche ore dopo l’omicidio, la polizia dichiarò che l’agente era stato aggredito da alcuni giovani armati di coltelli, capeggiati dallo studente Ohnesorg ed era stato costretto a sparare.

FALSO – Il poliziotto che alcuni documenti segreti scoperti nel 2009 dimostrano essere stato a lungo un informatore della Stasi, il servizio segreto della Ddr, non fu minacciato da nessuno, ma come mostra un filmato si avvicinò lentamente al leader dei manifestanti e armato di pistola, lo uccise.

NUOVE PROVE – Una foto invece immortala l’omicida che appoggia una mano sulla spalla sinistra di un altro poliziotto mentre fa partire il colpo che ucciderà Ohnesorg. Altre immagini mostrano tre agenti picchiare lo studente anche dopo che quest’ultimo è stato colpito dal proiettile (i poliziotti non furono mai interrogati e le loro generalità restano sconosciute). Infine in uno scatto si vede Helmut Starke, il superiore dell’agente in borghese, a pochi passi dal luogo del delitto nel momento in cui avviene l’omicidio: Starke aveva sempre dichiarato agli inquirenti di non aver visto Kurras durante gli scontri.

BUGIE – La conclusione dell’indagine è inequivocabile – affermano gli investigatori – Le prove suggeriscono che l’omicidio fu causato volontariamente da Kurras. Tuttavia probabilmente le nuove rivelazioni non porteranno alla riapertura del caso. Secondo lo Spiegel l’insabbiamento più meschino fu quello portato a termine dai medici dell’ospedale di Moabit, struttura sanitaria nell’omonimo quartiere di Berlino. Essi non solo rimossero i frammenti del cranio attorno alla ferita provocato dalla pallottola, ma ricucirono anche la pelle in modo che non si vedesse lo squarcio nella testa. Poi stilarono il certificato di morte che afferma in modo generico che lo studente era stato «colpito alla testa da un corpo contundente». Il medico che scrisse il certificato ha confessato che quelle parole «non erano frutto delle sue conclusioni, ma furono rilasciate su ordine del suo capo».

CHOC DEI SESSANTOTTINI – Le nuove prove hanno turbato soprattutto alcuni membri della sinistra tedesca, molti dei quali ex sessantottini che non hanno mai creduto alla versione della polizia: «L’indagine dimostra che la verità è peggiore dei nostri più macabri sospetti – ha dichiarato alla rivista tedesca Hans-Christian Ströbele, parlamentare dei Verdi ed ex avvocato penalista che nei decenni passati ha difeso in tribunale diversi membri della Raf – Ci sono fondati motivi per sospettare che l’omicidio di Benno Ohnesorg fu un atto premeditato con l’intenzione di uccidere».

Tra arabi e israeliani è guerra anche di hacker

gennaio 14, 2012

Rolla Scolari per “il Giornale”

L’attacco a obiettivi israeliani è arri­vato dalla Striscia di Gaza. Ma questa volta non si è trattato di razzi. Ieri mattina, un gruppo di hacker­«The Gaza Hackers» – ha bloccato per diverse ore il sito dei vigili del fuoco israeliani: «Siamo entrati nel vostro sito, e continueremo a farlo finché non soffrirete- era scritto su uno sfondo nero- . Morte a Israele».Sul sito è stata anche pubblicata una foto­grafia del viceministro degli Esteri israeliano, Dan­ny Ayalon, con impronte di piedi sulla faccia. La settimana scorsa, il ministro aveva parlato di «ter­rorismo » riferendosi a un attacco cibernetico por­tato a termine da un hacker saudita e aveva detto che Israele risponderà a simili azioni virtuali nella stessa maniera in cui risponde ad attentati. Due giorni dopo, la pagina web del ministro era stata bloccata.
Nelle scorse settimane, Israele è stato al centro di un confronto cibernetico in cui due hacker (il pri­mo si definisce saudita, il secondo israeliano) han­no­ messo online i dettagli di migliaia di carte di cre­dito prima israeliane poi saudite. Gli ultimi eventi hanno preoccupato l’establishment della sicurez­za israeliano e fatto pensare alla reale possibilità che il futuro del Medio Oriente possa riservare spa­zio a una guerra cibernetica.
Il 3 gennaio, Group-XP, gruppo saudita, ha mes­so online i presunti dettagli di decine di migliaia di carte di credito israeliane- il numero della carta, il nome e l’indirizzo e-mail dei titolari. OxOmar, che ha rivendicato l’atto online, ha suggerito di utiliz­zare i dati per acquisti sul web. Ha poi invitato hac­ker palestinesi a unirsi alla sua battaglia. Da Gaza uno dei portavoci di Hamas, Sami Abu Zuhri, ha lo­dato l’azione definendola «un atto creativo della gioventù araba». «Sarà così divertente vedere 400mila israeliani fare la fila davanti alle banche», ha scritto OxOmar. In realtà, la Banca centrale isra­eliana ha dichiarato che soltanto i dati di 15mila carte di credito sarebbero stati esposti. La maggior parte degli israeliani coinvolti ha trovato il proprio nome online, accanto a un falso numero di carta. Altri hanno invece trovato dettagli esatti di carte però scadute. Le tre maggiori compagnie di carte di credito israeliane hanno bloccato subito le car­te in questione.
Secondo alcuni giornali israeliani, dietro agli at­tacchi cibernetici sauditi ci sarebbe uno studente di 19 anni degli Emirati Arabi residente in Messi­co. La risposta alle sue azioni è arrivata da Israele martedì, quando un hacker israeliano, forse un sol­dato- che per aumentare la confusione si è firmato OxOmer- Omer Cohen, ha messo online per rap­presaglia i dettagli di circa 200 carte di credito sau­dite, minacciando nuove azioni. Almeno due citta­dini sauditi hanno confermato alla France Press che i dati delle proprie carte erano stati esposti.
In Israele, dove il capo di Stato maggiore ha par­lato di «un teatro critico», la preoccupazione per at­tacchi cibernetici a sfondo politico da parte di na­zioni ostili è reale: il timore è che le tensioni regio­nali, con l’Iran nucleare per esempio, possano tra­sformarsi in azioni contro le reti di comunicazioni militari, quelle delle società elettriche, delle com­pagnie di telecomunicazioni.
Le autorità hanno chiesto agli hacker locali di ri­spettare la legge e di lasciare che l’esecutivo faccia fronte all’emergenza. «Così come il governo ha tro­­vato risposte contro il terrorismo, troveremo rispo­ste a questa nuova sfida», ha detto il vice ministro Ayalon. E l’intelligence militare starebbe lavoran­do già da mesi alla creazione di una nuova unità per arginare la minaccia di attacchi cibernetici, re­clutando decine di giovani «smanettoni»informa­tici, ha scritto ilJerusalem Post , che pochi giorni fa aveva anche parlato di un piano iraniano da un mi­liar­do di dollari per la costituzione di una simile di­visione d’intelligence specializzata in offensive e in difesa cibernetiche. 

Informazione Corretta

Arte e innovazione, la creatività abita a Tel Aviv

gennaio 7, 2012

Tel Aviv

A un solo secolo dalla sua fondazione è stata eletta fra le dieci città più creative del pianeta

Elena Loewenthal per “La Stampa

Chissà che cosa direbbe di questo risultato il manipolo di uomini, donne e bambini che in una calda mattina di aprile del 1909 si ritrovò sulle dune a fondare Tel Aviv, sorteggiandosi i lotti di terreno appena acquistati: sabbia a perdita d’occhio verso nord, l’affollata Giaffa con i suoi dedali di vicoli a sud, il mare di fronte a sé. I 60 fondatori di Tel Aviv avevano piena coscienza del momento storico, immortalato da un’eloquente fotografia: non stavano solo posando le fondamenta di un ameno quartiere residenziale, bensì dando vita dopo duemila anni alla prima, vera città ebraica, lasciandosi alle spalle un passato diasporico ingombrante e doloroso.

A poco più di cent’anni, Tel Aviv è entrata nella classifica delle dieci città più creative del mondo stilata dal quotidiano canadese «The Globe and Mail», in compagnia di colossi quali Londra, Shanghai, Sydney. Ma non è tutto, perché la vocazione della metropoli israeliana pare proprio essere quella di collezionare medaglie, ultimamente: l’anno scorso, nientemeno che il National Geographic l’aveva inclusa fra le dieci «top beach cities» del globo. Perché si può dire bene o male di questa città, ma certo i suoi orizzonti sono sempre più vasti, suggeriti dal mare dove il sole tramonta ogni sera senza fretta e dall’umanità che la abita e la visita.

Nata per guardare verso il futuro lasciandosi alle spalle il fardello del passato diasporico, Tel Aviv è diventata negli ultimi anni meta turistica in un Paese dove per un verso le vicissitudini politiche e militari hanno sempre fatto da deterrente alla curiosità, per l’altro, l’unico turismo concepibile pareva quello religioso. Ora, invece, frotte di giovani arrivano da tutto il mondo perché sanno che qui ci si diverte come in pochi altri posti, palati fini hanno pane per i loro denti, intenditori d’arte e design trovano spunti interessanti. Senza contare un clima gentile quando in Europa è inverno pesto. Tel Aviv è davvero la città che non dorme mai, come recita il suo slogan.

E non solo svagandosi, anche lavorando. Se Israele annovera circa 2500 start-up, società fondate da giovani e dalle loro idee innovative, è soprattutto a Tel Aviv che questo spirito prende corpo. Nei settori più disparati: dall’high-tech, ovviamente, dove le avventure strabilianti non sono così rare. Pensiamo a Viber, l’applicazione per telefoni intelligenti che consente di comunicare a costo zero e conta al momento milioni di download in tutto il mondo. O a Shai Agassi, che nel 2003, appena trentenne, ha ideato un modello urbano di infrastrutture per veicoli elettrici, in previsione di quel futuro non troppo remoto in cui il petrolio sarà esaurito.

Ma non c’è solo la tecnologia, a fare di Tel Aviv una città creativa in un modo contagioso: ci sono le arti, la moda, la cucina, l’architettura. Qui convivono in pacifica disarmonia pachidermici centri commerciali e piccole botteghe dove i giovani provano a inventare e «si mettono sul mercato». Magari con il loro bel diploma dell’accademia d’arte Bezalel di Gerusalemme o del Shenkar College of Fashion di Tel Aviv, che ha un suo atelier nei docks del vecchio porto, ora vetrina di ristoranti di tendenza, mostre fotografiche e persino di un pornoshop per una clientela rigorosamente al femminile. Cent’anni di vita, per una città, sono davvero pochi: in fondo Tel Aviv è una città bambina. Nata sull’effimera sabbia e in palese contrapposizione all’eternità di pietra e afflato divino di cui è fatta Gerusalemme, Tel Aviv è stata capacedi crearsi un’identità originale. Ha inseguito per un po’ l’etichetta di città «trasgressiva» tout court, ma se ne è ben presto sbarazzata perché, come tutti i luoghi comuni, in fondo non dice nulla. È una città aperta, piuttosto, in cui idee, esperienze e sensazioni comunicano liberamente. Sarà merito del mare, di una storia ancora tutta da costruire, delle anime che ci vivono e pensano, dei tanti visitatori che vengono qui, respirano quest’aria, e tornano.

Le vie segrete dell´oro nero. L´emiro dietro gli ultrà islamici

gennaio 2, 2012

Al Thani

Francesco Mimmo per “la Repubblica”

Dall´Afghanistan alle banlieue parigine, i petrodollari di Al Thani aiutano i partiti radicali. Un flusso di denaro enorme che parte dal Paese più ricco del mondo e indirizza le rivolte arabe. Dopo i milioni dati ai salafiti in Egitto, a Doha forse aprirà un´ambasciata dei Taliban DOHA. «Scatenate il vostro potenziale». Lo slogan dell´onnipresente Qatar Foundation, longa manus economica e culturale dell´emirato arabo, ti accoglie ovunque nella capitale Doha. Intanto il Qatar ha scatenato il suo, di potenziale. Un flusso di denaro enorme, grazie a petrolio e gas, che rendono i suoi pochi cittadini i più ricchi del mondo. Dal lungomare che chiude la sabbia del Golfo Persico in una «cornice» di grattacieli, Doha guarda alla Primavera araba e all´Occidente con un intreccio di interessi e influenza, che arriva dall´Afghanistan fino alle banlieu parigine. Con un solo obiettivo: diventare una grande potenza nel mondo arabo attraverso finanziamenti massicci agli islamisti (salafiti, Fratelli musulmani, Hamas, persino i Taliban), che hanno raccolto l´eredità dei dittatori caduti. Petrodollari e diplomazia li respiri appena ti avvicini a Education City, il cuore delle attività della Fondazione, che ospita un centro congressi inaugurato a dicembre con due eventi scelti non a caso: il World Petroleum Congress e il Forum dell´alleanza delle civiltà dell´Onu. Con 177mila metri cubi e una facciata di tubi di acciaio tra pietre e prato artificiale, rappresenta un albero sul deserto. E indica quello che il Qatar vuole diventare: un gigante con i piedi ben saldi sulle sue ricchezze e rami protesi in tutto il mondo. L´emiro Al Thani ha cominciato la sua scalata a metà Anni Novanta. Il primo mattone è stato Al Jazeera, oggi influente in tutto il Medio Oriente. Ma nell´ultimo anno con la Primavera araba ha alzato il tiro, approfittando della sonnolenta politica estera saudita, condotta da una leadership ultraottantenne, che deve affrontare anche tensioni interne. Il Qatar ha appoggiato da subito i ribelli in Libia ed Egitto. Anche perché tentavano di scalzare leader «laici» come Gheddafi e Mubarak, mai benvisti in un Paese dove vige la sharia. E che in passato avevano indirizzato attacchi, irriverenti, all´emiro. Gheddafi lo sfotteva per la sua stazza, Mubarak aveva definito il suo Paese «una scatola di fiammiferi». Ma quanti soldi ci sono nella scatola di fiammiferi? Tanti. Riserve per 25 miliardi di barili di greggio. E 77 milioni di tonnellate all´anno di gas liquido, un quarto dei consumi europei. Ricchezze che garantiscono 70 miliardi di avanzo di bilancio. Una bella base per guardare oltre i propri confini. L´emiro ha sistemato i potenziali conflitti interni concedendo un aumento del 60 per cento ai dipendenti statali, e fissando per il 2013 un round di elezioni (tanto il Parlamento ha solo potere consultivo). Poi ha messo nel mirino le rivolte arabe. La Libia innanzitutto. Già a febbraio Gheddafi tuonava contro Al Jazeera. A Doha è stata ospitata una tv dei ribelli. E dopo la guerra mediatica, l´emiro ha portato in Libia la guerra vera. Armi ai ribelli, poi un intervento militare sul campo. Ma le mire del Qatar non si sono fermate alla caduta del raìs. Tanto che l´ambasciatore all´Onu della nuova Libia se n´è apertamente lamentato: «Vogliono dominarci». Poi l´Egitto. Per la ricostruzione del dopo Mubarak, Al Thani ha subito messo sul piatto 500 milioni di dollari e ha promesso dieci miliardi. Ma il Qatar non fa beneficenza e ha un´agenda chiara. All´emiro, sunnita wahabita, viene attribuito il sogno di un panarabismo sotto l´Islam radicale. Da anni ospita attivisti islamici in esilio e sostiene Hamas (irritando l´alleato americano). Ci sono voci, persino sulla stampa qatariota (controllata dall´emiro), dell´imminente apertura di un´ambasciata dei Taliban a Doha. In questo quadro rientrano anche i 20 milioni, almeno, entrati in Egitto per la campagna elettorale dei salafiti. Poi l´Occidente. In Qatar c´è la più grande base militare americana dell´area, proprio di fronte all´Iran. Ma con Teheran i rapporti sono ottimi, cementati anche da un maxi giacimento di gas. Tanto grande che nell´accordo per la base c´è la garanzia che non verrà mai preso di mira dagli aerei americani. E la Francia: investimenti massicci dal calcio fino a 50 milioni di euro per le banlieue di Parigi. Il Qatar vuole un posto al sole e vuole fare affari. «Un primo risultato c´è già – spiega Abdullah Antepli, islamista turco della Duke University, relatore al Forum Onu di metà dicembre – l´equilibrio si è spostato. Nei Paesi della Primavera araba non si guarda più all´Europa ma ai Paesi del Golfo. Gli islamisti puntano sulla lotta alla corruzione. Agli europei viene rinfacciato di aver curato per decenni solo i propri interessi. E il simbolo di tutto questo è stato il baciamano di Berlusconi a Gheddafi. Ma non abbiate paura degli islamisti, sapranno stemperare l´estremismo. Come in Turchia, dove oggi governa chi anni fa voleva la Sharia». Una tendenza alla moderazione, però, che è ancora un´incognita.

Diritti Globali

Tanya sfida gli ortodossi: insieme a loro sul bus

dicembre 19, 2011

Fabio Scuto per “la Repubblica”

La scena si ripete spesso sugli autobus di linea. Urla, insulti, da parte di qualche signore con barba e cappello, poi la donna o scende dal mezzo o si accomoda in fondo al bus. E´ questa la legge imposta dagli ultra-ortodossi sui mezzi pubblici che frequentano, una rigida segregazione sessuale insieme ad altre strette osservanze religiose: gli uomini salgono e scendono dalla porta anteriore, le donne da quella posteriore. Un´imposizione lesiva dell´onore delle donne e in generale di tutti coloro, uomini e donne, che non accettano i codici ultra-ortodossi come regola di vita ma che gli Haredim portano avanti con convinzione anche se una sentenza della Corte Suprema israeliana ha stabilito lo scorso gennaio – dopo anni di polemiche che hanno contrapposto religiosi, scrittori, gruppi di femministe e non solo – che è illegale la segregazione sui mezzi pubblici. Ma con un marchiano compromesso ha stabilito anche che, invece, è possibile “su base volontaria”, cioè se la donna accetta volontariamente di sedersi in fondo al bus. Opporsi non è né semplice né facile. Ma Tanya Rosenbilt l´ha fatto – esattamente come Rosa Parks, la figura-simbolo del movimento per i diritti civili statunitense, che rifiutò nel 1955 di cedere il posto su un autobus ad un bianco – e la ragazza l´ha raccontato sul suo profilo Facebook ricevendo in poche ore migliaia di messaggi di solidarietà, fra cui spicca quello della signora Tzippi Livni, la leader dell´opposizione paladina della “laicità” della società civile.
Gli ebrei ultraortodossi sono i principali fruitori dei mezzi pubblici, riescono ad essere “massa critica” e imporre alle compagnie pubbliche o private il loro diktat. Difficile vedere pubblicità con protagoniste femminili o di prodotti femminili sui bus, alle fermate, lungo i percorsi. Una compagnia pubblica l´anno scorso voleva offrire mini-schermi nei sedili collegati a internet per ingannare le lunghe percorrenze, ne è nata una polemica con minaccia di boicottaggio se i mezzi fossero entrati in servizio: Internet è «contaminato dal sesso». Imposizioni di vario genere contro cui protesta la popolazione “laica” ma che – specie dove la presenza ultraortodossa è significativa – si sta facendo largo, il peso della religione nella società civile è diventato molto significativo e in alcuni casi estremo. Già da tempo si segnalano inoltre sistematici atti di vandalismo da parte degli ultra-ortodossi contro cartelloni e immagini per le strade, che ritraggono donne. Gli Haredim stanno anche cercando di far passare la separazione tra uomini e donne nei ranghi dell´esercito. Anche negli ospedali pubblici ci sono casi di entrate e sale d´attesa separate per sesso. Tutto ciò desta preoccupazione nel futuro soprattutto nella componente laica della società israeliana, anche perché gli ultraortodossi – secondo le proiezioni del Central Bureau of Statistics di Israele – sono in forte crescita demografica.
La Rosa Parks d´Israele in questo 2011 è una ragazza di 28 anni, tranquilla, serena, per nulla scossa dalla disavventura. Non è la prima donna che si oppone alla segregazione sessuale sui mezzi pubblici, ma è la Prima che ha vinto la battaglia: il pullman è ripartito e i contestatori sono scesi. Lo scorso venerdì mattina è salita sul bus 451 a Ashdod – una delle città costiere d´Israele – diretta a Gerusalemme. Ma dopo poche fermate sono saliti due passeggeri ultraortodossi che non appena l´hanno vista seduta sui sedili anteriori hanno cominciato a inveire, urlando a “quella” di spostarsi sul fondo del bus, bloccando la porta del mezzo pubblico. La scena è andata avanti per circa mezzora e quando gli altri passeggeri hanno cominciato a lamentarsi per il ritardo, l´autista ha chiamato la polizia. Tanya ignorando gli epiteti che le fioccavano addosso, ha resistito a tutti i tentativi di costringerla a passare nella parte posteriore, oppure a scendere a terra, mentre l´autobus veniva minacciosamente circondato da dimostranti ortodossi. Negli ultimi anni gli Haredim sono riusciti ad imporre la segregazione per sessi nei pullman che collegano i loro insediamenti, ma in questo caso si trattava invece di un normale autobus di linea.
Sul posto è arrivato un poliziotto, che ha prima chiesto a Tanya se voleva «volontariamente» sedersi dietro, ottenutone un diniego l´agente non ha potuto che constatare l´accaduto. Decisivo l´intervento degli altri passeggeri che a quel punto hanno iniziato a protestare e chiedere che il bus ripartisse per la sua destinazione. Con Tanya seduta sui sedili anteriori dell´autobus, mentre i due passeggeri religiosi sono rimasti sul marciapiede a inveire e maledire. In un tiepido mattino di dicembre Tanya, forse senza saperlo, è diventata il simbolo dei diritti delle donne d´Israele.

Informazione Corretta

Birmania, tornano i demoni dell’oppio

dicembre 18, 2011

Marco Del Corona per “Il Corriere della Sera

Si ricomincia da capo, da una storia mai chiusa. La Birmania tenta di convincere il mondo – con qualche successo – che si sta normalizzando, ed ecco che tra i tetti dorati della capitale Naypyidaw e le giungle torna a proiettarsi l’ombra dell’oppio, di traffici che hanno alimentato patrimoni ed epopee, del legame mortifero tra le periferie dell’Occidente e colline di un’Asia remota. Un rapporto sul Sudest asiatico dell’agenzia Onu sulle droghe e il crimine rivela che nel Paese la coltivazione del papavero da oppio aumenta (43.600 ettari in Birmania, più 14% nell’intera regione) e sale anche la produzione di droga finita (più 5%, per un totale di 670 tonnellate). Soprattutto, i prezzi, in ascesa dal 2002, esplodono: se in Birmania nel 2010 un chilo di oppio valeva 305 dollari, quest’anno siamo a 450, più 48%.

MINORANZE Si torna all’antico. E appaiono insieme i demoni della Birmania: il potere centrale, le minoranze etniche ribelli lungo i confini, la droga. Adesso che il nuovo governo civile annuncia di voler raggiungere una “pace duratura” con le milizie, suonano attuali le parole che uno dei maggiori conoscitori dell’area, Bertil Lintner, scrisse negli anni Novanta: “Nessuna politica anti-droga in Birmania ha alcuna possibilità di successo se non è legata a una reale soluzione politica alla guerra civile e a un significativo processo democratico”. Era il passaggio conclusivo di “Burma in Revolt. Opium and Insurgency since 1948”.

IL KUOMINTANG Il narcotraffico è impastato con la storia della Birmania quasi come le Guerre dell’oppio influenzano ancora i rapporti fra la Cina e l’Occidente. Lo scenario, qui, è la geografia di un Paese con troppi confini e decine di popoli. Aveva provato Aung San, padre della patria e di Suu Kyi, a immaginare un Paese composto di autonomie, ma fu ucciso. Da allora molti dei gruppi irredentisti hanno finanziato la loro lotta con l’oppio. Alle tribù che coltivavano il papavero, dopo il 1949 si aggiunsero i soldati del Kuomintang sconfitti da Mao Zedong: parte dei nazionalisti cinesi, infatti, non seguì Chiang Kai-shek a Taiwan e si riversò in Birmania e Thailandia, gestendo i traffici, alleandosi con certi leader locali e combattendone altri, col sostegno di un’America che tollerava l’eroina in nome della guerra al comunismo.

KHUN SA Per decenni il Triangolo d’Oro ha segnato il cuore di tenebra di un’Asia da romanzo e Hollywood, ad esempio nella sequenza della spedizione asiatica di “American Gangster” di Ridley Scott, è stata forse meno fantasiosa della realtà. Piccoli narco-Stati autoproclamati, raffinerie, signori della guerra sopravvissuti a mezzo secolo di Storia, fossili ideologici come il Partito comunista birmano. E battaglie: una fra tutte, quella del luglio 1967 tra il Kuomintang e gli uomini del famigerato Khun Sa lungo il Mekong, con l’Esercito reale del Laos terzo incomodo. La portata globale di quello che accadeva nei laboratori di Homöng o dalle parti di Thachilek si manifestò infine con l’accusa formale da parte di una corte di federale di Brooklyn, New York, alla fine del 1989 proprio contro Khun Sa.

TRIANGOLO D’ORO Alla fine degli anni Novanta capitava ancora di scorgere anche al confine con la Cina muli carichi d’oppio, guidati da personaggi “in sandali di gomma” e certo “non conversatori entusdiasti”, come si legge in “The River’s Tale”, dell’americano Ed Gargan. E’ poi venuta l’era delle metanfetamine, e le basi per la produzione di “China White” e altri tipi d’eroina si sono riconvertite. Anche le rotte del narcotraffico sono mutate, l’Onu parla del business nel Sudest Asiatico in mano a gang africane e iraniane (136 milioni le pillole sequestrate e 442 centri di produzione scoperti nel 2010). I pericoli intorno al Triangolo d’oro non sono spariti. Cina, Birmania, Thailandia e Laos hanno appena cominciato a pattugliare insieme il Mekong dopo la strage di 13 marinai cinesi. Da queste parti i prezzi da pagare sono sempre alti.

Le super università alla conquista del Golfo

dicembre 7, 2011

Federico Rampini

Federico Rampini per “la Repubblica”

NEW YORK. Education City, non ti aspetti che questo nome appartenga a Doha, la capitale del Qatar. Nell´emirato “progressista” del Golfo persico, quello che finanzia la tv Al Jazeera, sta sorgendo il nuovo esperimento avveniristico: è il primo campus globale, costruito dal nulla importando delle super-università americane. Si chiamano Georgetown, Northwestern, Carnegie Mellon, Weill Cornell Medical College, Texas A&M, Virginia Commonwealth, le “magnifiche sei” che si sono lanciate in quest´avventura. È un progetto che traccia il futuro del sistema universitario. Le migliori del mondo sono ormai delle vere e proprie multinazionali. Come nel Big Business, si muovono secondo strategie globali. Vanno dove il mercato tira, cioè oggi nei paesi emergenti. Non è solo il privato a muoversi così. Perfino più clamorosa è la decisione di Berkeley, un´istituzione di Stato, che appartiene al sistema pubblico delle University of California. Per la prima volta ha trapiantato un pezzo di se stessa in Cina, molto più di una testa di ponte: un proprio “clone” a Shanghai.
Non solo per fare insegnamento, perché la logica non è quella di trasformarsi in diplomifici di massa: UC-Berkeley va a Shanghai per fare ricerca, con un´intera sezione dei propri dipartimenti più avanzati che si dedicheranno all´innovazione pura. Che Cina e India siano dei formidabili giacimenti di talenti e intelligenze, non è una scoperta di oggi. Più sorprendente è quel che sta accadendo nel Golfo. Il vento della contestazione giovanile che un anno fa cominciò a generare i sintomi precursori della “primavera araba”, al Cairo forse ha già lasciato il posto a un “tardo autunno” di restaurazione, militare o islamica. Ma altrove qualcosa di positivo sta nascendo, all´ombra delle petro-monarchie più illuminate. È un cambiamento che germina all´incrocio fra due necessità. Per il mondo arabo c´è l´emergenza-giovani, questa nuova generazione irrequieta e spesso disoccupata, non ha ricevuto finora una formazione adeguata per competere con i migliori cervelli che vengono dall´Estremo Oriente, dagli Stati Uniti, dall´Europa.
Dall´altra parte ci sono le grandi università, soprattutto americane e inglesi, lanciate in una competizione sfrenata per conquistare quote del nuovo business: l´istruzione globale. In mezzo, per fare da raccordo, ci sono i petrodollari che Qatar, Abu Dhabi e Dubai hanno accumulato nei loro fondi sovrani. Una delle prime a intuire le potenzialità di quell´area fu la New York University, che quest´estate ha concluso il primo anno accademico completo nel suo nuovo campus di Abu Dhabi, il più ricco degli emirati arabi. La super-università americana accoglie nella nuova sede sul Golfo persico 150 studenti da 39 paesi, secondo criteri squisitamente meritocratici importati dall´America: nelle stesse aule ci sono figli di emiri multimiliardari, e ragazzi venuti da famiglie poverissime che hanno vinto borse di studio. L´università usa delle squadre apposite di selezionatori esterni, che girano il mondo a caccia dei “cervelli eccellenti”. I meritevoli si vedono offrire il viaggio spesato fino a Abu Dhabi per l´esame di ammissione finale. La selezione è così spietata che l´anno prossimo riusciranno a qualificarsi per l´iscrizione solo 196 studenti sui 5.854 che hanno superato il primo filtro. Con un tasso di creazione del 3,3%, N.Y.U.-Abu Dhabi è più severa di Harvard, che ammette il 6% dei richiedenti. La retta per il campus di Abu Dhabi è alta quanto nelle più esclusive università d´America, 53.000 dollari all´anno, ma «proprio come a Princeton e Harvard, chiunque superi i criteri di ammissione riuscirà a entrare, se non ha i mezzi gli diamo la borsa di studio noi», garantisce il rettore John Sexton che sta già preparando l´inaugurazione di una “succursale” analoga a Shanghai. Il successo di N.Y.U.-Abu Dhabi è il trampolino di lancio per un´operazione ancora più avveniristica, che i suoi dirigenti definiscono «la prima vera università globale». Questa nascerà dalla joint venture con University of the People, un´istituzione non profit che offre nel mondo intero i suoi corsi, esclusivamente online. Finora le superfacoltà tipo Harvard e Berkeley si sono avvicinate ai corsi su Internet con qualche cautela, perché in America il terreno è stato “inquinato” – nel segmento più basso del mercato – da iniziative scadenti e di dubbia fama, come la University of Phoenix. Le università al top delle classifiche mondiali finora hanno preferito sviluppare i corsi online come dei supplementi, delle integrazioni didattiche, mantenendo uno stretto controllo sulla qualità dei corsi e sul rapporto docente-studente. La University of the People, creata due anni fa dall´imprenditore israeliano Shai Reshef, sta abbattendo ogni residua diffidenza. I suoi corsi sono in due settori, Business School e informatica. L´intento egualitario e democratico è decisivo: molti prof sono volontari, il materiale di studio è gratuito, tra gli iscritti (1.000 studenti da 115 nazioni) ci sono anche dei giovani terremotati di Haiti oltre a cinesi, indonesiani, vietnamiti, nigeriani. La University of the People è riuscita a mantenere degli standard di qualità elevati, e adesso la joint venture con N.Y.U.-Abu Dhabi espanderà la sua offerta con una nuova gamma di corsi online.
Il successo di N.Y.U. sul Golfo Persico ha accelerato i tempi della competizione. La rivale Doha ha dietro di sé l´emiro “progressista” del Qatar (odiato da tutti i dittatori dell´area per la sua Al Jazeera che fa da cassa di risonanza delle proteste), che nutre progetti ancora più grandiosi. La sua Education City nasce su una scala dimensionale senza precedenti. Non si era mai visto un polo universitario nato dal nulla e capace di attrarre sei università americane di ottimo livello. È il concetto di “hub”, che gli emirati del Golfo hanno sperimentato prima nel trasporto aereo creando aeroporti trafficatissimi dove gran parte dei passeggeri sono diretti in altre zone del mondo; le stesse città come Doha e Abu Dhabi si sono inventate nuove vocazioni come “hub” della finanza. Ora ci provano nell´istruzione di alto livello. Sapendo che a portata di mano ci sono risorse preziose: le giovani generazioni del mondo arabo sono abbondanti e continuano a crescere; l´infrastruttura di trasporto fa del Golfo un incrocio ideale tra Occidente, Africa, India, Estremo Oriente; infine i capitali non fanno difetto. La creatività è anche urbanistica: la Qatar Foundation ha indetto gare tra i migliori architetti del pianeta per inventare dei campus che devono nascere all´insegna della filosofia dei Grand Designs, letteralmente Progetti Grandiosi. Quel Golfo che finora è stato identificato con la rendita petrolifera, vuole usarla per costruire una Knowledge Economy, un´economia della conoscenza. Northwestern, Carnegie Mellon, Weill Cornell Medical College, Georgetown University, Virginia Commonwealth University e Texas A&M, applicheranno gli stessi programmi dei loro campus americani, stessi criteri di selezione e poi di votazione. A differenza che in altre nazioni islamiche, nessuna segregazione tra i sessi, le classi saranno sempre miste. A capo di Education City ci sarà un´istituzione, la Hamad Bin Khalifa University, che è stata copiata fedelmente sul modello di Oxford e Cambridge a garanzia dell´autonomia d´insegnamento. Questo aspetto è importante in un´area del mondo dove l´indipendenza delle università dal potere politico o religioso non è stata sempre garantita.
Non è solo il mondo universitario angloamericano a espandersi secondo un´aggressiva strategia globale. I francesi hanno deciso di competere con le stesse armi. Una delle più importanti Business School transalpine, la Hec di Parigi, ha inaugurato a febbraio il suo primo campus a Doha: è la quarta succursale di Hec fuori dalla Francia dopo Pechino, Shanghai e San Pietroburgo. Dubai per non farsi distanziare ha due “zone franche” destinate a offrire la massima accoglienza alle università straniere: si chiamano Knowledge Village e Academic City, lì rettori e prof venuti dall´estero possono operare al riparo da qualsiasi interferenza del governo. Tra le 20 università che hanno deciso di approfittare dell´ospitalità ci sono la Manchester Business School, Hult International, London Business School, Cass Business School.
Tra i vantaggi che attirano le super-università mondiali nelle nazioni emergenti, la disponibilità di risorse economiche è davvero consistente. UC-Berkeley, per il suo nuovo campus con istituti di ricerca a Shanghai ha ottenuto le seguenti agevolazioni dal governo cinese: tutte le sedi di insegnamento e ricerca vengono costruite con denaro pubblico, a carico della Repubblica Popolare, e l´università sarà esentata dal pagamento di ogni affitto per i primi cinque anni. Con l´aria che tira in America, dove si parla solo di tagli, queste sono attrattive insperate. Creando questi campus nei paesi emergenti le grandi facoltà americane scoprono che il mercato a cui si rivolgono non è solo quello locale. Sono sempre più numerosi gli studenti americani o europei che considerano un´esperienza di studio in Oriente come un vantaggio nel loro curriculum.

Diritti Globali

La guerra del terzo millennio

dicembre 7, 2011

Alberto Stabile per “la Repubblica”

Beirut. L´immenso altipiano dove regnano miseria e paura, abitato soltanto da pastori nomadi e da contrabbandieri, è avvolto nel silenzio appena incrinato dal lontano ronzio di un motore. Il cielo è un lastra di opaline. Le capre, in cerca di cibo, infilano il muso bianco e nero fra le rocce. Nulla deve essere sembrato più alieno a questo angolo di mondo del grande uccello di metallo grigio che, volteggiando senza direzione sulle sue enormi ali, è andato a schiantarsi, sabato scorso, sulla terra arida del Balucistan, al confine tra l´Iran e l´Afghanistan. Eppure questo è l´ultimo fotogramma di una guerra che coinvolge mezzo continente, grandi potenze militari, eserciti, laboratori, scienziati. Mezzi del secolo scorso, come l´esplosivo, o la polvere da sparo, e congegni avveniristici. Una guerra micidiale e spietata, come tutte le guerre, ma anche silenziosa, chirurgica e mirata come non se ne sono mai viste. Le bombe, il sangue, i morti arriveranno dopo.
È la guerra del terzo millennio quella che ha visto la contraerea iraniana abbattere l´aereo spia americano Rq-170 Sentinel, il gioiello dell´industria aeronautica Lockheed, dalle caratteristiche tuttora segrete, ma da tempo considerato il campione riconosciuto fra gli UAN (Unmanned aereal vehicle), aerei senza pilota, volgarmente detti drone, ma questo, a differenza degli altri, dotato della tecnologia stealth che lo rende invisibile ai radar.
Subito gli Stati Uniti si sono affrettati a far sapere, tramite il comando delle forze Nato in Afghanistan che potrebbe trattarsi di un drone di cui i controllori a terra avevano perso le tracce mentre era impegnato in una missione nei cieli dell´Afghanistan. Ma non è stato precisato di che tipo di aereo si trattava. E in ogni caso, hanno subito ribattuto alcuni esperti occidentali, la Nato non avrebbe bisogno di impiegare un aereo così sofisticato e prezioso contro i Taliban, che non hanno né radar, né aviazione, né contraerea. Conclusione: il velivolo abbattuto, o precipitato per un qualche guasto (la versione ufficiale di Teheran non è suffraga da immagini, né da prove certe) era impegnato in una missione di spionaggio contro l´Iran e, verosimilmente, contro il programma nucleare iraniano.
Perché, fra i tanti conflitti “a bassa intensità”, che si combattono nel mondo, e che vedono impegnate le maggiori potenze, direttamente, o tramite comodi alleati, siano essi regimi clientelari o milizie assoldate alla bisogna, propri agenti catapultati oltre le linee nemiche, o killer professionisti eterodiretti, lo scontro che vede contrapporsi Stati Uniti e Israele, da una parte, e l´Iran dall´altra, è sicuramente il più manifesto, eclatante e gravido di conseguenze, vista la posta in gioco. Ed è, innanzitutto, uno scontro per l´egemonia che il possesso (o non possesso) della bomba atomica da parte dell´Iran può facilitare o allontanare per sempre.
A dimostrazione che in questa guerra sommersa c´è un filo rosso che collega tutto, basti pensare che la storia dell´aereo-spia ha riacceso i fari sulla misteriosa esplosione che il 12 novembre scorso ha praticamente raso al suolo il centro di esperimenti balistici non molto lontano da Teheran, dove, a quanto pare, venivano testati missili a lungo raggio capaci di colpire Israele e non soltanto Israele. Fra le perdite provocate dalla esplosione devastante, il capo del programma, Hassan Teherani Moghaddam, un quadro di alto profilo dei Guardiani della Rivoluzione, vicino alla guida spirituale, Ali Khamenei che, infatti, ha officiato il suo funerale, ed altre 17 persone, fra cui sicuramente tecnici ed esperti non facilmente sostituibili. Quale segreto, ci si è chiesti subito, veniva custodito in quella base? L´analisi delle foto satellitari del sito distrutto hanno spinto alcuni analisti americani ad ipotizzare che lì si stava sperimentato, per la prima volta, un nuovo tipo di carburante solido, per i missili a lungo raggio, la cui tecnologia sarebbe in qualche modo approdata in Iran nonostante l´embargo cui da anni è sottoposto il regime degli Ayatollah.
La caratteristica principale di questo “solid fuel” sarebbe quella di permettere il lancio degli ordigni in tempi enormemente più brevi che se venissero alimentati da carburante liquido. Il che, deducono gli esperti implicherebbe che, in caso di attacco aereo israeliano o americano, o di entrambi, attacco ipoteticamente diretto contro le centrali atomiche, per bloccare il programma nucleare di Teheran, le forze armate iraniane sarebbe in grado di indirizzare la loro risposta missilistica contro gli obbiettivi nemici (oltre a Israele hanno posto nel mirino “gli interessi americani nella regione del Golfo”) prima ancora che l´attacco venga portato a termine. Teheran, grazie alle sue nuove acquisizioni in campo missilistico, non perderebbe quella che viene definita la sua “deterrenza”.
Nella guerra del terzo millennio chi possiede la tecnologia ha un vantaggio di partenza sugli avversari. Di conseguenza è d´importanza strategica impedire che il nemico acquisisca certe tecnologie. Uno dei successi che vengono attribuiti all´ex capo del Mossad israeliano, Meir Dagan, è di essere riuscito a “rallentare il passo” della ricerca iraniana verso la realizzazione dell´atomica. Questi non sono argomenti che le autorità israeliane hanno l´abitudine di commentare. Ma sono le stese autorità iraniane ad attribuire ai servizi segreti israeliani, ed al Mossad in particolare, la moria che ha colpito scienziati nucleari e tecnici iraniani impegnati nella concretizzazione del piano di arricchimento dell´uranio. Almeno cinque negli ultimi due anni, uccisi con metodi diversi. Il più ingegnoso: due killer in motocicletta che si affiancano alla automobile della vittima designata e vi attaccano un ordigno dotato di un magnete, che esploderà da lì a poco. Allo steso fine è stato utilizzato anche il super virus Stuxnet che, attaccando i computer del laboratorio nucleare di Natanz hanno imposto alle turbine iraniane una perdita di potenza del 30 per cento. Anche qui, nessuna rivendicazione esplicita.
Alla fine, a parte le indagini sul terreno, l´arsenale tecnologico è quello che ha permesso agli Stati Uniti la cattura e l´uccisione di Osama Bin Laden. Quello stesso tipo di aereo-spia di cui l´Iran vanta l´abbattimento, l´Rq-170 Sentinel, ha svolto decine di missioni nella zona di Abbottabad, in Pakistan, dove si era rifugiato il fondatore di Al Qaeda. Ed è altamente probabile che le sue potenti telecamere abbiano ripreso l´intera irruzione delle forze speciali americane nel covo, inviando le immagini nel famoso studio della Casa Bianca dove Barack Obama, Hillary Clinton, Biden e gli altri consiglieri hanno potuto seguire tutta l´operazione in diretta. E se lì, nel Waziristan, il drone americano ha smesso di operare, è perché i militari di Islamabad, sentendosi a loro volta spiati dagli alleati americani, hanno protestato, seppure a cose fatte, con Washington.
L´aereo senza pilota della Lockheed andrà presto a far parte dell´arsenale della Corea del Sud nella sua schermaglia infinita contro la Corea del Nord. Finché, inevitabilmente, non sarà rimpiazzato da qualcosa di ancora più invisibile, sofisticato e letale. E chissà che, di questo passo, diventata una corsa capace di scavare fossati incolmabili tra schiere nemiche, la guerra non possa un giorno assegnare la vittoria prima ancora di combattere.

Diritti Globali

Online la “prima bozza della storia”: è fatta da due secoli e mezzo di giornali

dicembre 1, 2011

Garibaldi al Crystal Palace

The British Newspapare Archive, progetto della British Library, raccoglie 200 quotidiani inglesi dal 1700 al 1950 e copre praticamente tutto quello che è accaduto nel mondo in questo lunghissimo lasso di tempo. C’è anche la visita di Garibaldi a Londra e del ricevimento in suo onore al Crystal Palace

Enrico Franceschini per “la Repubblica

Duecentocinquanta anni di giornali in un clic. Giornali in lingua inglese, che è poi la lingua del villaggio globale; così come il clic del mouse, ovvero del topolino dei computer, non ha più confini né nazionalità, è un suono e un mezzo di comunicazione universale. L’idea è della British Library che ha cominciato in questi giorni a mettere sul web 65 milioni di articoli presi da 200 giornali inglesi in un arco di tempo che copre due secoli e mezzo.

Si chiama The British Newspaper Archive 1 e dentro c’è praticamente tutto quanto è avvenuto nel Regno Unito e nel mondo dal 1700 al 1950 (l’epoca più recente non è stata ancora coperta). “Per la prima volta la gente potrà cercare su giornali anche vecchi di secoli notizie sui propri antenati, oppure andare a leggere, per una ricerca scolastica o per semplice curiosità, la cronaca di avvenimenti famosi del passato”, dice Ed King, direttore della venerabile biblioteca londinese, la cui collezione di libri, documenti e giornali è una delle più grandi d’Europa, ma che da alcuni anni sta riversando anche una enorme quantità di materiali sul proprio sito internet. “E’ un’iniziativa di straordinario interesse, dal punto di vista storico e da quello personale”, afferma il direttore.

In questo tesoro di notizie si possono recuperare la cronaca del matrimonio fra la regina Vittoria e il principe Alberto, quella della carica dei seicento, quella dello sbarco in Normandia. Un lettore italiano potrebbe andarsi a leggere il resoconto della visita di Giuseppe Garibaldi a Londra e del “magnifico ricevimento” che fu dato in suo onore al Crystal Palace, pubblicato sulDundee Courier nel 1864. Un appassionato di scieza potrebbe scegliere le prime notizie sulla creazione del fonografo da parte di Thomas Edison, sul North Wales Chronicle, nel 1870.

FOTO Garibaldi al Crystal Palace 2

Il sito si può navigare gratuitamente, ma scaricare copie di un ogni articolo bisogna pagare 6 sterline e 95 pence che danno diritto a un accesso per 48 ore (30 sterline per 30 giorni, 80 sterline per un anno per chi fosse interessato a ricerche prolungate). Non tutti i 65 milioni di articoli sono già online: il progetto sarà completato entro il 2020. Ma già ora contiene una prodigiosa mole di cronache dal nostro passato. “The first rough draft of history” (“la prima approssimativa bozza della Storia”), così gli americani definiscono i giornali quotidiani. Altri dicono che sono buoni solo per poche ore, dopodiché servono soltanto per incartare il pesce. Ma grazie a internet e alla British Library ora quella “prima bozza della Storia” esiste per sempre.

I Mujaheddin del popolo, dissidenti iraniani in pericolo

novembre 17, 2011

Carta di Laura Canali tratta da Limes 4/2010

I Mujaheddin del popolo sono ospitati in Iraq, nel campo di Ashraf. Dal 2009 il clima è cambiato e il premier al Maliki pretende che se ne vadano entro il 31 dicembre. I dissidenti vogliono lo status di rifugiato politico per poi andare in Occidente. L’impegno degli Usa

Luca Attanasio per “Limes

Nel 1985, i vari leader della resistenza antikhomeinista ospitati in Europa furono invitati a lasciare al più presto le capitali che fino a quel momento avevano garantito loro asilo.

La Guida Suprema aveva emesso una sorta di fatwa minacciando di scatenare attentati contro i paesi che avessero continuato ad accogliere Massoud Rajavi, presidente dei Mujaheddin del popolo, Bani Sadr, primo presidente della Repubblica islamica dell’Iran deposto dopo poco più di un anno dal regime, e i loro seguaci.

Rajavi e Sadr, all’epoca a Parigi, assieme a molti altri alloggiati in altre città d’Europa furono quindi costretti a fuggire. Trovare paesi disposti a ricevere nei propri confini dissidenti così “scomodi” non fu impresa semplice. Per quello che potrebbe apparire uno scherzo della geopolitica, l’unico Stato che dichiarò la sua disponibilità a offrire rifugio a Rajavi e un migliaio di Mujaheddin fu quello con cui l’Iran era in guerra da ormai cinque anni: l’Iraq.

A 90 chilometri a nord di Baghdad, e non lontano dal confine iraniano, sorse il Campo Ashraf, una sorta di cittadella destinata a ricevere dissidenti iraniani da tutto il mondo. I 36 chilometri quadrati in pieno deserto in breve si trasformarono in un prodigio dell’architettura, dell’ingegneria e della tecnologia divenendo punto di riferimento per molti oppositori del regime degli ayatollah.

Nel momento di maggior splendore, prima della seconda guerra del Golfo, il campo, perfettamente autonomo dal punto di vista economico, con un territorio intensamente coltivato e micro imprese che permettono commercio con i villaggi vicini, è arrivato a contare fino a seimila abitanti. Per anni ha fornito acqua, elettricità e tecnologia a tutta l’area circostante.

Retto da un originale esperimento di democrazia partecipativa, con un consiglio direttivo eletto ogni due anni attualmente formato interamente da donne, Ashraf vive di leggi scritte e di regole tramandate. Nel periodo di permanenza, che può durare decenni, non ci si sposa, non si fanno figli, si svolgono principalmente attività di opposizione politica e, fino al 2004, militare. Con l’entrata degli americani, infatti, in cambio di un’assicurata protezione gli abitanti furono invitati a consegnare tutte le armi.

Da quando si è cominciato a parlare di “exit strategy”, però, gli ashrafiani hanno cominciato a essere fortemente preoccupati. “Da quel momento in poi” spiega Mahmoud Hakamian, rappresentante della resistenza iraniana in Italia “ci siamo trovati tra due fuochi. Da una parte il nemico di sempre, il governo iraniano, dall’altra il nuovo avversario, Al Maliki, salito al potere anche grazie all’appoggio di Teheran che non vede l’ora di liberarsi di noi”.

Nel luglio del 2009 sono cominciati i raid dell’esercito iracheno all’interno del campo. L’ultimo, l’8 aprile 2011, ha fatto 37 morti e 350 feriti. “I soldati delle forze di sicurezza irachene, circa 2.500, alcuni dei quali – riprende Hakamian – parlavano in farsi, sono entrati incontrastati con carri armati e ruspe. Le ultime armi le abbiamo consegnate agli americani nel 2004. Abbiamo capito che l’esperienza di Ashraf sta per finire, ma chiediamo almeno che i 3.800 abitanti non vengano gettati in pasto al regime”.

Per evitare di essere rimandati in Iran o in luoghi dove la vulnerabilità sarebbe massima, i residenti hanno elaborato una proposta: chiedono di venire riconosciuti rifugiati politici dall’Onu e di ottenere il permesso di raggiungere l’Europa o l’America. Le Nazioni unite sono pronte ad accogliere le istanze degli abitanti di Ashraf ma il governo iracheno, che considera il campo un’occupazione abusiva di suolo e non ne riconosce la legittimità, vuole che le operazioni di riconoscimento si svolgano a Baghdad.

“Per noi è una trappola” dichiara ancora Hakamian. “Una volta fuori dal campo, le garanzie cesserebbero. La soluzione migliore sarebbe istituire una zona extraterritoriale a ridosso del campo dove i funzionari dell’Onu possano venire a svolgere le pratiche di asilo per i residenti”.

Il tempo stringe. Al Maliki pretende lo sgombero del campo entro il 31 dicembre prossimo. “Per trovare una soluzione ci resta poco più di un mese. Se non vorranno accettare le nostre proposte, sappiano che piuttosto che farci ammazzare in Iran resisteremo fino all’ultimo residente”. È il grido di Hassan, un giovane gravemente ferito durante il raid dell’8 aprile, ora in Italia per la riabilitazione.

La speranza degli abitanti di Ashraf risiede tutta nelle parole del segretario di Stato americano Hillary Clinton, pronunciate nel corso di un’audizione al Congresso lo scorso 27 ottobre: “Siamo estremamente preoccupati per gli sviluppi della situazione del Campo Ashraf. Stiamo facendo ogni sforzo affinché nessuno dei residenti venga trasferito in luoghi dove la propria vita sarebbe in pericolo e per permettere all’Onu di svolgere il proprio lavoro”.

Iran, la guerra del Mossad è già iniziata

novembre 15, 2011

Omicidi mirati e sabotaggi per fermare i test atomici. “Israele dietro l´attacco ai pasdaran”.  Dal 2007 a oggi uccisi scienziati e messi fuori uso i sistemi informatici dei siti nucleari

Fabio Scuto per “la Repubblica”

Sanzioni economiche, crediti internazionali bloccati ma anche sabotaggi, attentati, omicidi, mirati, virus informatici. Quando si dice che tutte le opzioni per fermare la proliferazione nucleare iraniana restano sul tavolo si parla di questo. Se un esercito di diplomatici è al lavoro per mettere la comunità internazionale unita di fronte alla minaccia atomica degli ayatollah – con la Russia e la Cina sempre contrarie a ogni misura di contenimento – un esercito “di ombre” è in attività per rallentare in ogni modo i progressi nell´arricchimento dell´uranio ormai chiaramente orientato verso l´uso militare e impedire che l´Iran si doti anche di missili balistici in grado “di trasportare” la bomba verso obiettivi lontani come Riad o Tel Aviv.
Ieri i Paesi europei si dicono pronti a rafforzare le loro sanzioni contro l´Iran – ieri una decisione di Bruxelles in merito è slittata al 1 dicembre – ma restano però divisi sulla opportunità di un´azione militare. Se la Francia giudica un intervento militare «un danno irreparabile», la Gran Bretagna – per mantenere forte la pressione internazionale – sostiene che «tutte le opzioni sul tavolo», posizione condivisa anche dagli Stati Uniti. In Israele, dove la minaccia nucleare iraniana è particolarmente avvertita, la leadership è convinta che solo l´opzione militare possa fermare, o rallentare, quel programma nucleare. Siamo più vicini a un punto di non ritorno «di quanto la gente non pensi», l´ultimo monito attribuito al premier Benjamin Netanyahu. Per questo la “macchina della guerra” israeliana è pronta e i piani di un attacco aereo e missilistico vengono aggiornati ogni 36 ore.
Ma intanto l´intelligence, il “mondo delle ombre”, non sta con le mani in mano. Ci sarebbe la mano del Mossad, il servizio segreto israeliano, dietro l´esplosione di sabato nella base missilistica iraniana che ha provocato 17 morti. Nell´impianto di Bigdaneh c´erano i missili Shahab, quelli su cui potrebbe essere montata una testata nucleare. Un attacco al “cuore del nemico” nel quale è stato ucciso fra gli altri il “padre” del sistema balistico iraniano, un colpo perfetto, che solo un alto livello di penetrazione nel territorio nemico può dare. Nell´esplosione è morto il generale di divisione Hassan Moghadam, fondatore dell´artiglieria e delle forze balistiche iraniane. Una figura di primo piano del “programma”, alle sue esequie ieri a Teheran c´era anche la Guida suprema della Rivoluzione Ali Khamenei.
«Non bisogna credere agli iraniani che dicono sia stato un incidente, c´è Israele dietro l´attacco di sabato», afferma una fonte confidenziale di un servizio di intelligence occidentale del settimanale Time, aggiungendo che «questo non sarà certo l´ultimo atto di sabotaggio per impedire agli iraniani di dotarsi di armi nucleari». «Ci sono altre pallottole di riserva», il virus informatico Stuxnet, che quest´anno è riuscito a bloccare per mesi i computer degli impianti nucleari iraniani, per esempio è il frutto di una collaborazione fra Mossad e Cia.
Interpellato ieri su un coinvolgimento israeliano nell´attentato alla base iraniana, il ministro della Difesa Ehud Barak ha replicato con un sorriso enigmatico e una sola frase: «Certo ce ne vorrebbero di più». In ogni caso incidenti, attentati, uccisioni di scienziati si sono moltiplicati negli ultimi quattro anni. Il primo caso nel novembre del 2007 con una esplosione in una base missilistica a sud di Teheran con decine di morti. L´ultimo nel giugno di quest´anno: un aereo che trasportava i tecnici russi alla centrale atomica di Busher si è schiantato al suolo, fra le vittime 6 importanti scienziati. Fatalità? Un caso? A gennaio dell´anno scorso a Teheran con una moto-bomba è stato assassinato Massud Ali-Mohammad – fisico nucleare di grande importanza – lo scorso novembre è toccato a Majid Shahriari e in luglio a Daryush Rezaei, altri due scienziati impegnati nel programma atomico. Tre conferme che “un esercito di ombre” è al lavoro per fermare con ogni mezzo la corsa iraniana, forse in maniera più efficace di quanto sarebbe un attacco aereo e missilistico contro le basi iraniane che sconvolgerebbe completamente la regione. Perché l´unica certezza che abbiamo è che non appena la prima bomba colpirà l´Iran, il Medio Oriente che abbiamo conosciuto finora si dissolverà.

Diritti Globali

Donne segregate, l´apartheid sul bus divide Brooklyn

novembre 8, 2011

Federico Rampini

Sulla linea B110 del rione popolato dagli ebrei hassidici solo gli uomini possono sedere nei posti davanti. Ma una passeggera non si è voluta piegare. Un caso delicato, a cui neanche il sindaco ha trovato rimedio. Bloomberg: “La segregazione sessuale nella nostra città non è consentita”

Federico Rampini per “la Repubblica”

Il profumo del pane appena sfornato e ancora caldo lo si avverte appena saliti sull´autobus: è uno dei segni che è stata celebrata la festa ebraica di Shemini Atzeret. Ma il pane è invisibile, lo portano le donne laggiù in fondo all´autobus: quella zona è proibita a un maschio, anche se giornalista. Così funziona la linea B110 di Brooklyn, che porta da Williamsburg al Borough Park. Un viaggio nello spazio e anche nel tempo. Per molti turisti avventurarsi in questa zona di New York significa scoprire paesaggi e atmosfere che evocano la Mitteleuropa dei ghetti ebraici nel primo Novecento, ai tempi di Franz Kafka. Stessi vestiti, stessi panorami in bianco e nero. (more…)

HAPPY BIRTHDAY AL JAZEERA!

novembre 3, 2011

Robert Fisk per “Il Fatto Quotidiano” (© The Independent. Traduzione di Carlo Antonio Biscotto), da “Dagospia

La famiglia Mubarak è tuttora convinta che è stata tutta colpa di al Jazeera. Non ci fosse stata, nel gennaio e nel febbraio scorsi, la diretta non-stop da piazza Tahrir a opera dell’emittente satellitare con sede in Qatar, l’imperatore Hosni si troverebbe ancora sul trono dell’Egitto con i suoi bei capelli tinti, con i satrapi ancora impegnati a tessere le lodi della sua saggezza, con il suo regime ancora intento a produrre notizie false e a sfornare falsi ministeri ed elezioni truffaldine. Per non parlare della sorte di Ben Alì.

Quando l’equipaggio del volo che aveva condotto l’imperatore tunisino in Arabia Saudita vide il notiziario in arabo di al Jazeera nella sala d’aspetto vip dell’aeroporto di Riyadh e capì cosa stava succedendo, decise di fare immediatamente rotta verso Tunisi lasciando a terra l’illustre passeggero. D’altro canto non possiamo dimenticare che George W. Bush voleva bombardare la sede di al Jazeera a Doha, ad appena venti miglia dalla più grande base aerea americana in Medio Oriente.

Oggi il bersaglio è il presidente siriano Bashar al-Assad. “Sono tutte menzogne. Al Jazeera vuole distruggere la Siria”, mi ha detto a Damasco la settimana scorsa un giovane funzionario pubblico siriano. “Prendono le immagini false da Youtube e tentano di distruggerci”.

Il quindicesimo anniversario dell’emittente è stato festeggiato in un clima dimesso. Wadar Khanfar, il coraggioso e fantasioso amministratore delegato, ha rassegnato le dimissioni poco più di un mese fa, dopo che alcuni documenti diplomatici americani pubblicati da Wikileaks avevano rivelato che si era accordato con l’ambasciata americana per insabbiare notizie che avrebbero potuto infastidire gli Usa.

In Iraq, dove gli americani avevano bombardato l’ufficio di al Jazeera uccidendo un giornalista durante l’invasione del 2003 – deliberatamente, a parere mio, se si considera che il Qatar aveva consegnato all’ambasciata americana a Doha la mappa precisa della sede dell’emittente a Baghdad -, Khanfar fu oggetto di continue critiche da parte delle autorità americane. Feci un controllo e verificai che tutti i reportage di al Jazeera – con l’eccezione di un errore commesso in buona fede – erano impeccabili ed esenti da qualsivoglia critica sotto il profilo della deontologia professionale.

Khanfar ha detto che aveva intenzione di andare in pensione e che le rivelazioni di Wikileaks non avevano influito sulla sua decisione. Vorrei poterci credere. (more…)

L’Ucraina dei paradossi

novembre 3, 2011

Yulia Tymoshenko

Se il presidente Yanukovich continua a dire che la priorità di Kiev è l’Unione Europea e non la Russia, da Bruxelles aspettano la soluzione del caso Tymoshenko. L’ex premier in carcere è a favore della firma dell’accordo di associazione

Stefano Grazioli per “Limes

Il paradosso ucraino non è solo quello delle attiviste di Femen che protestano a seno nudo in mezza Europa contro la mercificazione del corpo femminile. Il presidente Victor Yanukovich è riuscito con il processo a Yulia Tymoshenko a irritare contemporaneamente l’Unione Europea e la Russia, con il risultato di aver eliminato dall’arena politica la sua avversaria di sempre, ma rischiando di andare a sbattere contro il muro di Bruxelles (niente firma sull’accordo di associazione) e contro quello del Cremlino (niente sconti sul gas).

La strategia scelta dal capo dello Stato e dall’élite ora al potere sembra orientata al successo sul breve periodo sul lato interno e soffre di una pericolosa miopia (da qualunque parte la si guardi) sul lato esterno. Le voci di una nuova inchiesta contro l’ex eroina della rivoluzione arancione non fanno altro che confermare che l’obiettivo principale è quello di sbarazzarsi dell’opposizione in qualsiasi maniera.

Se la Tymoshenko dovesse uscire di prigione per la questione del gas, potrebbe infatti ritornare dietro le sbarre per un’altra storia. In carcere, già condannata a sette anni per abuso d’ufficio, la pasionaria del 2004 potrebbe essere ancora indagata, questa volta per il suo presunto coinvolgimento nell’omicidio di un deputato avvenuto quindici anni fa. (more…)

Colombia, dove scompare la cocaina

novembre 1, 2011

Secondo gli Usa il Perù produce più cocaina della Colombia, ma nel mondo circola soprattuto droga colombiana. Dietro la droga scomparsa, gli interessi economici di Washington

Lorenzo Bagnoli per “Peacereporter

In dieci anni, non era mai accaduto che la Colombia fosse seconda nella classifica dei Paesi produttori di cocaina. Né il Perù, né la Bolivia, gli altri due Stati dove esistono piantagioni di foglie di coca, hanno mai avuto numeri anche solo paragonabili all’industria della polvere bianca di Bogotà. Invece, dai dati di quest’anno diffusi dalla Drug enforcement administration (Dea), l’agenzia antidroga statunitense, sembra che sia avvenuto l’inaspettato sorpasso: il Paese andino immette nel mercato 325 tonnellate di coca all’anno, 50 in più di quanto non faccia la Colombia. Ma se si leggono le cifre dei sequestri mondiali, emerge una realtà molto diversa, dove la supremazia della Colombia continua a non avere rivali.

Alessandro Donati è il responsabile scientifico di Narcoleaks, l’osservatorio sui sequestri di cocaina nel mondo, nato dalla collaborazione con l’agenzia di stampa Redattore sociale. Dal primo gennaio al 28 ottobre, il contatore di Narcoleaks è salito fino a toccare quota 658,1 tonnellate (dato aggiornato al 30 ottobre): il peso di una barca a vela a due alberi, lunga 64 metri. Per la metà dei carichi, è possibile risalire al Paese di provenienza della droga. E nell’82 percento di questi ultimi casi (320 tonnellate), si tratta proprio della Colombia. In mano alle forze dell’ordine di tutto il mondo, quindi, cadrebbe più cocaina colombiana di quanta, secondo gli Usa e secondo l’Onu, ne viene prodotta ogni anno. Di fronte a questo assurdo Donati osserva: “La logica conseguenza dei dati del Dipartimento di Stato americano sarebbe una limitata circolazione di cocaina colombiana. Ma questa possibilità è smentita dalle loro stesse statistiche, secondo cui il 90 percento della droga circolante negli Stati Uniti (il maggior consumatore mondiale di cocaina, ndr), è di origine colombiana”. I numeri di Washington, prosegue il ricercatore, sono largamente contraffatti e la produzione colombiana è almeno sei volte di più di quello che affermano le cifre ufficiali: “È una menzogna che serve a far passare in secondo piano la reale situazione della Colombia e provocare un dibattito nel Perù, in modo da spingerlo ad affidarsi agli Usa per adottare le stesse politiche antidroga colombiane”. Fumigazioni e basi militari: Colombia, un giorno qualsiasi dal 2000 ad oggi.

Un aereo sorvola una zona ricca di vegetazione: secondo il governo, sono coltivazioni di foglie di coca. Il velivolo, gradualmente, s’abbassa fino quasi a sfiorare le fronde degli arbusti e, d’improvviso, sprigiona da sotto le sue ali una sostanza biancastra che si deposita sulle piante: è glifosato, un gas che le rende improduttive. Questo processo si chiama fumigazione ed è uno dei punti chiave del documento che da 11 anni è la Bibbia della lotta alla droga a Bogotà: il Plan Colombia, un accordo bilaterale con cui Washington s’impegna a fornire addestramento, soldi e materiale bellico per sconfiggere le diverse bande armate che gestiscono il mercato criminale colombiano. In 11 anni, sono più di 1 milione e 400 mila gli ettari di piantagioni che hanno subito questo trattamento, mai praticato negli altri due Paesi produttori, Bolivia e Perù. I due Stati andini, infatti, si sono sempre rifiutati di utilizzare il metodo proposto da Washington e anzi, il presidente boliviano Evo Morales tre anni fa ha cacciato dal Paese i funzionari della Dea accusandoli di essere narcotrafficanti. “Nel 2001 – scrive Uri Friedman, giornalista del bimestrale Foreign Policy, magazine spesso accomodante con le posizioni dell’amministrazione americana – l’Organizzazione delle popolazioni indigene dell’Amazzonia colombiana riteneva che il glifosato causasse grossi problemi all’ambiente e alla salute, ma non è riuscita a persuadere il giudice a fermare le operazioni”. Ma, conclude Friedman, “da allora le critiche non si sono ancora dissipate”.

Gli Stati Uniti, continuano a descrivere una decrescita dell’industria della droga in Colombia, dovuta proprio alle misure contenute nel Plan Colombia. Da George W. Bush fino a Barack Obama, il Congresso ha investito nel progetto 7 miliardi di dollari. “Tra Usa e Colombia esiste una compenetrazione profonda: – dice Alessandro Donati- gi agenti americani sono presenti ovunque, mentre i graduati colombiani si addestrano nelle basi militari del Texas. Gli Usa hanno in Colombia centinaia di uomini della Dea e della Cia e stanno impiantando nel Paese nuove basi militari”.

Un problema di metodo Dimostrare, numeri alla mano, la riduzione del mercato della cocaina colombiana, per gli Stati Uniti significa accreditare a livello internazionale il loro modello dipolitica antidroga. Per questo, sostiene Alessandro Donati, il sistema di monitoraggio in uso al Dipartimento di Stato americano e all’Unodc, l’agenzia anticrimine delle Nazioni Unite, l’altra fonte dei report ufficiali sull’industria della droga, è concepito in modo che sia facile giocare con i numeri.

Essi adottano metodi che si poggiano sui rivelamenti satellitari dei campi dove si coltivano le foglie di coca. Moltiplicando la superficie per la loro diversa redditività si arriva alla stima della produzione. “Il metodo – osserva Donati – ha numerose pecche. La prima è che le rilevazioni sono concentrate in pochi giorni e che alcune zone della Colombia, coperte di nuvole, sono impossibili da osservare. L’altro punto debole è che dopo la fumigazione aerea le piante si deteriorano sia per forma che per colore e non vengono più riconosciute dai satelliti. Un altro problema, anche se di minore incidenza, è causato dal profilo orografico del Paese: esistono pendici di altipiani la cui superficie in forte pendenza risulta falsata vista dal satellite”.

L’ex direttore del dipartimento antidroga delle Nazione Unite Antonio Maria Costa è stato l’ultimo a rispondere alle critiche di Donati. “Quello che noi facciamo – ha spiegato Costa in una conferenza stampa del luglio 2009 – è misurare le coltivazioni di foglie di coca e di oppio attraverso una ripresa satellitare con mezzi che riescono ad individuare oggetti in uno spazio di 4 metri per 4 e la solidità di queste rilevazioni è certa“. Nella sua spiegazione non c’è, però, alcun accenno al problema della nuvolosità e dei deterioramenti indotti dalle fumigazioni, ribatte Donati: “La loro stima della superficie coltivata colombiana è talmente incongrua da costringere a ritenere che sia inventata a tavolino”.

A riprova dell’anomalia colombiana, ci sono poi i riscontri provenienti da Bolivia e in Perù: “In questi due Paesi – afferma Donati – la produzione reale non si discosta di molto da quella stimata dall’Onu e dal Dipartimento di Stato americano”.

Il buco nero colombiano Puerto Gàitan , dipartimento di Meta, lo scorso 14 ottobre: la Policia nacional de Colombia annuncia il sequestro di sei tonnellate di polvere bianca. La notizia diventa un’involontaria e clamorosa smentita dei numeri diffusi dagli Usa sulla produzione di cocaina nel Paese. Infatti, nel luogo della confisca, un gruppo di 34 abitazioni in stile rustico, si nasconde un “maxi cristalizadero” , così si chiama la struttura dove si confeziona la sostanza stupefacente, che sforna tra i 500 e gli 800 chili di cocaina raffinata ogni giorno. Il laboratorio è in grado da solo di raggiungere la produzione annua colombiana stimata dal dipartimento americano, 270 tonnellate.

La vicenda si chiude con l’arresto di quaranta miliziani dell‘Ejército Revolucionario Popular Antisubversivo de Colombia (Erpac), una dei gruppi meno importanti del Paese, e le celebrazioni della stampa locale. A nessuno è venuto in mente di domandarsi quanti possono essere i laboratori come questo sparsi in tutta la Colombia. La risposta, forse, farebbe tornare il Paese al posto che gli spetta: nettamente in cima alla classifica mondiale dei produttori di cocaina. Con buona pace della Dea.

La lunga mano del Pakistan dietro al ricatto del terrore

ottobre 30, 2011

Guido Olimpio per “Il Corriere della Sera”

Sono tenaci. Capaci di adattare le loro tattiche. Picchiano come fabbri, poi lasciano intravedere spiragli di negoziati. E godono delle simpatie interessate dei pachistani. La loro strategia è semplice: tenere il più possibile, visto che alla fine la Nato se ne dovrà andare. La strage di Kabul sintetizza i dieci anni della guerra più lunga. Un’autobomba impressionante — quasi 700 chili di esplosivo —, un veicolo blindato che nulla può contro il kamikaze, un attacco nella capitale, perdite pesanti. L’ultimo rapporto uscito dal Pentagono, pur sottolineando i successi registrati in alcuni parti dell’Afghanistan, avverte che la situazione rimane instabile anche per colpa delle trame pachistane e della debolezza del governo Karzai. Le forze locali appaiono incapaci di affrontare la sfida: su 218 battaglioni di polizia neppure uno può agire da solo; su 204 battaglioni dell’esercito afghano solo uno è in grado di operare in modo autonomo. Gli sforzi degli alleati — Italia compresa — nell’addestramento dei reparti afghani non ha ancora colmato il divario. È ovvio che non dipende dagli istruttori ma dalla volontà dei locali. Lo rivela un dato. Soltanto a giugno hanno disertato 5 mila soldati afghani. Fughe che accompagnano un altro fenomeno in crescita, quello dei militari che sparano sui soldati Nato: ieri sono stati uccisi tre australiani. Tutti si chiedono — conoscendo già la risposta — cosa accadrà man mano che le province passeranno sotto il controllo delle autorità afghane.
Il quadro precario favorisce i talebani e i gruppi affini. Dimostrando grande pragmatismo, gli insorti si sono adeguati al momento. Sul piano strettamente militare hanno continuato a evitare lo scontro diretto. Non potrebbero sostenerlo, vista la disparità di volume di fuoco. E allora si sono affidati alla loro arma migliore. Gli esplosivi. Il 90 per cento delle perdite Nato (e dei civili) è da attribuire agli ordigni improvvisati, in gergo Ied. Ancora un numero: da giugno ad agosto sono state scoperte o individuate 5.088 bombe. (more…)

Il grande equivoco dell’esercito afghano

ottobre 29, 2011

La guerriglia perde terreno, ma guadagna visibilità. Senza sicurezza non c’è transizione. Le Forze di sicurezza fanno passi avanti, ma resta l’incognita pakistana

Fabrizio Maronta per “Limes

Il 13 settembre scorso, una serie di attacchi coordinati getta Kabul nel panico: a un tratto, sembra di essere tornati all’inizio degli anni Novanta, prima dell’arrivo dei taliban, quando nella martoriata capitale afghana imperversavano i signori della guerra. Da un edificio in costruzione a ridosso del quartier generale Isaf, nell’iperprotetta Zona verde, un gruppo di guerriglieri spara razzi e granate sul compound militare, mentre poco distante l’ambasciata statunitense è presa di mira da un altro commando. Ci vorranno 20 ore di controffensiva per riportare l’ordine. Bilancio: 19 morti, di cui 8 attentatori.

Una settimana dopo, il 20 settembre, un attentatore suicida si introduce nella casa di Burhanuddin Rabbani, ex presidente dell’Afghanistan e capo del Consiglio di pace, l’organismo governativo incaricato di portare avanti i colloqui con i taliban. Nessuno, ai numerosi controlli di sicurezza (la casa è a due passi dall’ambasciata americana), nota alcuna anomalia nel tradizionale turbante che cinge il capo dell’individuo: eppure, esso cela una bomba che uccide sul colpo Rabbani e ferisce gravemente il suo vice, Masum Stanikzai, che ora lotta tra la vita e la morte in un ospedale indiano.

Questi episodi restituiscono l’immagine di un paese nel caos, in cui nemmeno il massiccio dispiegamento di truppe occidentali (130 mila uomini) riesce ad avere la meglio su una guerriglia incoercibile, che arriva a minacciare il cuore delle istituzioni locali e della presenza militare internazionale. Ma le cose stanno esattamente così?

Negli ultimi due anni, la martellante controffensiva della Nato ha sensibilmente ridotto il potenziale della guerriglia, ricacciata nel sud del paese e resa incapace di condurre campagne su vasta scala, data l’incolmabile inferiorità rispetto alle forze della coalizione. La Nato stima oggi in circa 5 mila i taliban fanatici, cuore dell’insorgenza, che combattono guidati solo o soprattutto da un forte movente ideologico. A questi si aggiungono altri 8-10 mila “salariati della guerra”, per lo più giovani uomini disoccupati che imbracciano le armi per sfuggire alla fame e dar da mangiare alla famiglia. Numeri non trascurabili, ma pur sempre residuali rispetto a quelli di Isaf e delle Forze armate afghane. (more…)

Il governo olandese vuole mettere la marijuana troppo forte fuori legge

ottobre 27, 2011

L’idea del ministro della Giustizia è di trattare la skunk, la cannabis con un forte quantitativo di principio attivo, al pari di eroina e cocaina in modo da vietarne la vendita. Insorgono gli imprenditori del settore: “Provvedimento demenziale, basato su presupposti scientifici inesistenti

Massimiliano Sfregola per “Il Fatto

La guerra alla droga che contrappone governo olandese da una parte e il mondo attorno al commercio della marijuana (che in Olanda è semi-legale) dall’altra, si arricchisce di un nuovo capitolo.

Nel corso di una recente conferenza stampa, il ministro della Giustizia, Ivo Opstelten ha annunciato che dal 2012 la cannabis venduta nei coffee-shop, i bar dove dal 1976 è tollerata la vendita di piccoli quantitativi di erba e hascisc, non potrà più superare il 15 per cento di thc, il tetraidrocannabinolo, uno dei principi attivi responsabili dell’effetto di quelle sostanze. L’erba più forte, la cosiddetta skunk, sarà quindi trattata, secondo i piani del governo, al pari delle droghe pesanti e inserita nella tabella delle ‘hard drugs’, insieme aderoina e cocaina, la cui vendita al dettaglio è vietata.

La decisione, come aveva suggerito lo scorso giugno una commissione governativa incaricata di redigere una proposta di riforma dell’attuale legislazione sugli stupefacenti, arriva proprio in concomitanza con il parziale abbandono del progetto di chiusura dei coffee-shop ai turisti a causa della ferma opposizione di gran parte dei sindaci del paese. Nell’annunciare il provvedimento, il ministro della Giustizia ha sottolineato coma la responsabilità del mancato monitoraggio sarà totalmente a carico dei negozi, nonostante a questi ultimi sia consentita solo la vendita al dettaglio.

Questa nuova offensiva del governo, si muoverebbe sulla linea di evidenze scientifiche, che dimostrerebbero quanto siano rischiose per la salute alte percentuali di Thc. E gli imprenditori della cannabis, cosa ne pensano? (more…)

Nella guerra tra Russia e Georgia cambiano le armi

ottobre 25, 2011

Carta di Laura Canali

Mosca e Tbilisi non si sparano ma cercano ancora di annientarsi, usando questa volta l’economia per piegare l’avversario. Putin ci prova con l’Unione eurasiatica e Saakashvili risponde col suo veto al Wto

Cecilia Tosi per “Limes

È di nuovo guerra tra Russia e Georgia. Non volano proiettili, ma solo perché non vanno più di moda. L’arma più efficace, oggi, è quella economica ed entrambi pensano di poterla usare a loro vantaggio.

La Russia, come al solito, ci va giù pesante. Approfitta delle sue dimensioni, geografiche e politiche, per cercare di strozzare la Georgia, unico ex satellite di Mosca che si ostina a rivendicare una totale indipendenza. (more…)

Gli attacchi del PKK in Turchia: perché adesso?

ottobre 20, 2011

Original Version: Timing of the PKK attacks 

L’attacco del PKK è avvenuto in coincidenza con l’inizio dei lavori parlamentari per la stesura della nuova Costituzione che dovrebbe dare soluzione al problema curdo – scrive il giornalista turco Murat Yetkin

da “Medarabnews

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La tempistica dell’attacco da parte del fuorilegge Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK), che mercoledì ha ucciso almeno 24 soldati in incursioni sincronizzate contro postazioni militari turche nell’area di Hakkari al confine iracheno, la dice lunga sul futuro della politica in Turchia e in Medio Oriente.

La stampa turca ha subito fatto riferimento al secondo anniversario dell’ingresso di otto membri del PKK al confine di Habur, che ebbe luogo come parte della strategia di “apertura curda” del governo.

Ma la reale dimensione dell’attacco e la sua tempistica sembrano andare al di là di ciò.

Il giorno prima dell’attacco, tutte le notizie in Turchia come nel resto del mondo, erano concentrate sullo scambio del soldato israeliano Gilad Shalit con un totale di 1.027 detenuti palestinesi, 11 dei quali sono stati trasferiti dall’Egitto alla Turchia, come parte dell’accordo.

Oltre ai sospetti di alto livello – in parte sollevati dal primo ministro Recep Tayyip Erdogan ieri, secondo cui il PKK starebbe “agendo come subappaltatore” di alcuni attori più importanti nella politica internazionale – si può dire che al PKK non piaccia che l’attenzione dell’opinione pubblica sia distolta dalla sua agenda curda. Si può ricordare che il PKK aveva colpito un’unità militare vicino alla base mediterranea turca di Iskenderun, nella notte in cui si consumò la tragedia della flottiglia della Mavi Marmara (in cui nove turchi furono uccisi dai soldati israeliani), il 31 maggio 2010.

L’accaduto si può leggere anche in un’altra prospettiva, alla luce della visita del presidente Abdullah Gul alle unità militari al confine, nella stessa provincia di Hakkari. Egli si è recato laggiù insieme al Capo di Stato Maggiore, generale Necdet Ozel, rilasciando ai media immagini ufficiali che lo mostravano per la prima volta in mimetica militare. E ’stato un richiamo, rivolto a coloro a cui potrebbe interessare, che Gül è il comandante in capo dell’esercito, secondo la Costituzione turca. Ieri, egli ha reagito molto duramente promettendo vendetta.

Sono apparse anche notizie, nei media turchi e curdi iracheni, secondo cui alcuni villaggi nelle montagne Kandil in Iraq, che ospitano il quartier generale del PKK, sarebbero stati evacuati. Potrebbe certamente essersi trattato di una precauzione della leadership curda irachena, la quale non voleva che venissero colpiti i civili qualora l’esercito turco avesse attaccato i campi.

Ma uno scenario più importante e rilevante riguardo alla tempistica dell’attacco del PKK dovrebbe essere incentrato sul lavoro parlamentare per una nuova Costituzione turca, che doveva essere avviato ieri.

Tutti i partiti che ora dispongono di un gruppo nel parlamento turco, compreso il partito “Pace e Democrazia” (BDP), che riconosce di condividere la stessa base elettorale del PKK, avevano promesso ai loro elettori una nuova Costituzione al fine di rafforzare il livello di democrazia in Turchia.

Ci si aspetta che la nuova Costituzione dia soluzione ai seri problemi della democrazia turca, come la questione curda e la necessità di esercitare un maggior controllo politico sulle forze armate.

Ecco perché il presidente del parlamento Cemil Cicek ha legato l’attacco di ieri del PKK al lavoro costituzionale. E questo potrebbe essere il motivo per cui Erdoğan ha detto che la Turchia non cadrà nella trappola di questa “provocazione”, pur promettendo di colpire in risposta; nel frattempo il generale Özel era già alla frontiera e le truppe turche avevano già attraversato il confine con l’Iraq.

Gli eventi dei prossimi giorni potrebbero influenzare le dinamiche politiche di tutto il vicinato turco.

Murat Yetkin è un giornalista turco; è caporedattore del quotidiano Hurriyet Daily News

(Traduzione di Roberto Iannuzzi)

Truppe keniote in Somalia. Caccia ai militanti islamici

ottobre 18, 2011

Gli Shabab: ritiratevi o colpiremo le vostre città

Massimo A. Alberizzi per “Il Corriere della Sera”

Per dare la caccia agli Shabab, i fondamentalisti islamici legati ad Al Qaeda che controllano gran parte dell’ex colonia italiana, truppe keniote hanno invaso la Somalia. La reazione del gruppo è stata immediata, anche se per ora solo verbale: «Se non vi ritirate subito organizzeremo attentati nelle vostre città». Il braccio di ferro è cominciato domenica, quando una quarantina di blindati portatruppe e alcuni carri armati hanno passato il confine tra Kenya e Somalia, tra Dhobley e Birta Dher, e hanno proseguito verso Tabta, dove c’è una base militare che l’esercito del Governo Federale di Transizione somalo (Tfg) e il gruppo Ras Chiamboni avevano sottratto venerdì agli Shabab. La colonna è poi entrata nel villaggio di Qoqani, che era stato bombardato dall’aviazione keniota ed era stato evacuato dai miliziani fondamentalisti. Durante l’operazione un elicottero si è schiantato al suolo e i cinque militari a bordo sono morti.

«Il Kenya ha diritto di difendersi dai somali che fanno irruzione sul nostro territorio per sequestrare stranieri. Quindi abbiamo autorizzato le nostre truppe a varcare il confine e inseguire i rapitori», così il portavoce del governo di Nairobi, Alfred Mutua, ha annunciato l’invasione della Somalia. Gli ha risposto il portavoce degli Shabab, Ali Mohamud Rage: «I kenioti non conoscono la guerra, noi sì. La porteremo nelle loro città. Faremo saltare i loro grattacieli».

La decisione di attaccare gli Shabab dentro la Somalia è giunta due giorni dopo il rapimento, nel campo profughi di Dadaab, di Montserrat Serra Ridao e Blanca Thiebaut, due operatrici umanitarie spagnole che lavoravano con Medici senza frontiere. A Dadaab vivono quasi 500 mila rifugiati, in gran parte arrivati negli ultimi mesi per la carestia che sta sconvolgendo la Somalia. Gli ostaggi stranieri catturati dai somali in Kenya (a parte gli equipaggi delle navi sequestrate dai pirati) sono in questo momento quattro, tutte donne. (more…)

Anche all’Onu Erdoğan ha attaccato Israele

ottobre 15, 2011

Carta di Laura Canali

Federico De Renzi per “Limes

Settembre 2011 sarà molto probabilmente ricordato come il mese in cui la Turchia ha espresso al mondo la volontà politica di perseguire apertamente il suo interesse nazionale. Sia negli affari esteri sia in quelli interni.

Nel suo discorso all’Assemblea Generale del 22 settembre, Erdogăn ha esordito denunciando la situazione di crisi umanitaria in Somalia, e ha sottolineato l’impegno del suo governo nell’aiutare attivamente il paese, ricordando la sua recente visita. Ankara ha infatti avviato una campagna di aiuti per Mogadiscio, consentendo a oltre 500 studenti somali di giungere in Turchia per formarsi. L’importo degli aiuti ha finora superato i 30 milioni di dollari.

Continuando nel suo discorso, il primo ministro è passato a criticare apertamente Israele, approfondendo la spaccatura tra i due paesi e le Nazioni Unite e affermando che lo Stato ebraico dovrebbe rimuovere il blocco di Gaza, nuovo elemento da aggiungere alla lista delle condizioni per la normalizzazione delle relazioni turco-israeliane.

Erdogăn ha quindi biasimato l’Onu, asserendo che dovrebbe rivedere la sua idea di diritti umani piuttosto che proteggere solo i diritti di alcuni paesi, e accusandola di non aver interessato di tale problema Israele, che ignora l’autorità delle Nazioni Unite e che oltre a non aver messo in atto 89 risoluzioni vincolanti del Consiglio di Sicurezza, ne ha ignorate altre centinaia.

“Perchè il Consiglio di Sicurezza non si esprime su Israele, mentre cerca soluzioni per il Sudan?”, ha domandato. “Questo è un duro colpo per il senso di giustizia internazionale”. Oltre ad usare armi al fosforo, “Israele è l’unica ad avere la bomba atomica, dove sono i permessi?”. (more…)

Turchia, non è un paese per giornalisti

ottobre 8, 2011

di Marco Cesario, da “Micromega

La Turchia non è un paese per giornalisti. Non si tratta di un’affermazione allarmistica ma di un dato di fatto di cui poco si parla sui giornali. Presi nella rete dell’offensiva diplomatica di Erdogan nei paesi della primavera araba ed accecati dall’idea di indicare la Turchia come ago della bilancia del Mediterraneo e paese musulmano moderato da prendere ad esempio, analisti, giornalisti ed esperti di politica internazionale dimenticano che in questo paese la libertà di stampa soffre come o più che in Tunisia o Egitto.

Attualmente ci sono almeno 60 giornalisti in prigione. Oltre 4.000 sono sotto processo. Numeri che fanno rabbrividire per un paese che dovrebbe essere candidato ad entrare nell’UE.

Gli amici di Ahmet e Nedim

Nel silenzio generale dei media, alcune settimane fa nella centrale piazza Taksim di Istanbul oltre 1.500 persone, in gran parte giornalisti, si sono riunite per manifestare in favore della libertà di espressione. Tra di essi, membri della Piattaforma per la Libertà dei Giornalisti (GÖP) e soprattutto il gruppo di giornalisti «Amici di Ahmet e Nedim» – promotori della manifestazione – che hanno chiesto la liberazione dei loro colleghi Ahmet Şik e Nedim Şener, da 200 giorni in prigione nell’ambito dell’inchiesta Ergenekon. La bozza del libro sulle infiltrazioni del movimento facente capo all’imam Fetullah Gülen all’interno delle forze di polizia turche che Ahmet Şik stava cercando di pubblicare è stato confiscato e tutte le sue copie sono state spedite al macero.

L’esercito dell’imam: uno stato nello stato turco

Il 3 Marzo 2011 undici persone vengono arrestate ad Istanbul ed Ankara nell’ambito dell’inchiesta Ergenekon, un’organizzazione ultranazionalista clandestina a cui apparterrebbero esponenti dei servizi segreti, dell’esercito, della polizia, oltre che intellettuali, avvocati e uomini d’affari. Altri giornalisti vengono arrestati tre giorni dopo con l’accusa di far parte dell’organizzazione terrorista. Il 23 Marzo, la Corte Penale d’Istanbul confisca e distrugge le bozze del libro di Ahmet Şik, İmamın Ordusu, « L’esercito dell’Imam », di imminente pubblicazione. Il libro parla della storia di una setta islamica ufficialmente moderata che dalla Pennsylvania (il leader, Fetullah Gülen, è infatti scappato negli Usa) ha infiltrato polizia, servizi segreti, esercito, politica. Probabilmente creata all’epoca della guerra fredda e sulla falsariga del progetto Gladio per contrastare l’avanzata dei partiti socialisti e comunisti e dei sindacati in Turchia è diventata oramai il deus ex machina della politica turca. (more…)

Il generale Giáp e la “sortita fallita” dei francesi in Vietnam

ottobre 6, 2011

Võ Nguyên Giáp

Nel 1953 la Francia cercava il controllo sull’Indocina, sottovalutando però l’afficacia dell’esercito vietnamita e del suo generale, Võ Nguyên Giáp. La vittoria degli asiatici arrivò in meno di tre mesi. Una debole colonia per la prima volta sconfiggeva una grande potenza

Salvatore Santangelo per “Limes

Non c’è accordo unanime sulla sua data di nascita (secondo la biografia ufficiale sarebbe il 25 agosto 1911, per altri il 1 settembre del 1910, anno del cane, secondo altri ancora sarebbe nato nel 1912), certo è che il centenario generale Võ Nguyên Giáp è una leggenda vivente. Un simbolo. Un’icona. Fondatore e capo di un esercito che ha sfidato e sconfitto, nell’ordine: i giapponesi, i francesi, gli americani, i sudvietnamiti, per non parlare dei cambogiani di Pol Pot e dei cinesi. Il suo nome evoca le giungle, gli altopiani montuosi dell’Asia sud-orientale.  (more…)

Telefoni oscurati e siti web, la guerra hi-tech dei Taliban

ottobre 6, 2011

mullah Omar

Alissa J. Rubin, da “la Repubblica”

LASHKAR GAH – Puntualmente, alle 8 di sera, ogni sera, il segnale del cellulare in questa città capoluogo di provincia scompare. Sotto la minaccia dei Taliban, i principali operatori spengono i loro ripetitori, tagliando di fatto i collegamenti con il resto del mondo. È quello che succede ormai in oltre la metà delle province afgane ed è un esempio dei nuovi e più sottili metodi impiegati dai Taliban, a dieci anni dall´inizio della guerra, per far sentire la loro presenza, nonostante i generali della Nato parlino di una guerriglia indebolita, che fatica a mantenere il controllo del territorio. È solo un esempio di un cambiamento più generale nella strategia del movimento integralista, che ora punta maggiormente su intimidazioni, omicidi mirati e attentati limitati ma eclatanti. I Taliban e i loro alleati della rete Haqqani di solito evitano di affrontare le forze della Nato in battaglie campali, ma sono riusciti a far saltare i colloqui di pace con il presidente del governo Karzai e cercano di preparare il terreno a un loro graduale ritorno al potere, man mano che la coalizione militare guidata dagli Stati Uniti riduce le operazioni militari nel Paese.
La provincia di Wardak, che confina con Kabul, è uno dei posti a rischio. È anche un posto dove i cellulari cessano di funzionare, in gran parte del territorio, per 13 ore al giorno. I Taliban vedono queste interruzioni del segnale come una linea di difesa, secondo i comandanti e i portavoce del movimento: se i telefoni sono spenti, gli informatori non possono chiamare gli americani per dare segnalazioni utili a eventuali raid e gli americani non possono usare strumenti di intercettazione per individuare la posizione dei guerriglieri. «Il nostro principale obbiettivo è rendere più difficile al nemico scovare i nostri mujaheddin», dice Zabiullah Mujahid, il portavoce dei Taliban per le zone orientali e settentrionali dell´Afghanistan. (more…)

La via della droga va dal Messico agli Usa

ottobre 5, 2011

Carta di Laura Canali

Il confine fra i due Stati è da secoli teatro di illegalità. Oggi, stupefacenti di ogni genere sono la merce principale dei traffici che interessano l’asse sud-nord, e il cui controllo è causa da cinque anni di sanguinosi conflitti

Fabrizio Maronta per “Limes

Quella delle attività illegali al confine tra Messico e Stati Uniti è una storia vecchia quanto il confine stesso. I primi contatti tra coloni americani e residenti messicani (in quello che oggi è il Sud statunitense, strappato al Messico con la guerra del 1845-48 e con il Louisiana Purchase del 1853) risalgono al Settecento, ben prima dell’indipendenza dal Regno Unito, quando i venditori di pellicce di castoro del nord varcavano illegalmente il confine meridionale per vendere la loro preziosa merce. Nei decenni successivi seguirono venditori e imbonitori di ogni tipo, in un curioso gioco a parti rovesciate in cui a sconfinare erano i gringos e a reprimere i messicani, al contrario di quanto avviene oggi.

Nel Novecento, tuttavia, il contrabbando è divenuto sempre più appannaggio delle organizzazioni criminali messicane, benché in stretto contatto con le loro controparti settentrionali. Al crescere del divario economico tra Messico e Stati Uniti, i secondi sono divenuti il mercato di sbocco dei traffici illegali (droga, immigrati clandestini e, durante il proibizionismo, alcol), il cui flusso si è via via consolidato sulla direttrice sud-nord.

Volume e guadagni di queste attività sono cresciuti esponenzialmente tra gli anni Ottanta e Novanta, quando il sensibile miglioramento della sorveglianza aerea e marittima nell’area caraibica ha spostato le tradizionali rotte della cocaina a nord, verso il Messico. È in questo periodo che la città di Guadalajara assume rilevanza come hub del crimine organizzato messicano: la sua collocazione geografica – nella parte centro-occidentale del Messico, vicino al porto di Manzanillo (il più grande del paese) e ben collegata da autostrada e ferrovia – ne ha fatto il cuore logistico dei potenti cartelli della droga messicani.

Se i campi di battaglia sono Tijuana e Ciudad Juarez, a ridosso del confine, dove le “famiglie” combattono fra loro e con il governo messicano una guerra senza quartiere per il controllo dei traffici, grazie anche al fiume di armi acquistate negli Usa con i proventi del crimine, la loro base logistica è Guadalajara, la cui (relativa) pace è presupposto fondamentale della fluidità dei traffici. Fino alla metà degli anni Ottanta, la città è stata saldamente in mano a un cartello composto da nomi “storici” della scena criminale messicana: Rafael Caro, Ernesto Fonseca, Miguel Angel Felix (cui è liberamente ispirata la figura del boss della droga nel film Collateral) furono i primi a intuire e intercettare le opportunità schiuse dalla diversione della rotta caraibica.

Nel 1985 un’offensiva governativa prese di petto il “cartello di Guadalajara”, dal cui smantellamento sorse una galassia di organizzazioni minori in seguito federatesi nel cartello di Tijuana, in quello di Juarez, in quello del Golfo e nella Federazione di Sinaloa, la quale assunse il controllo della piazza di Guadalajara. Il monopolio mafioso era finito, ma nei successivi vent’anni si andò consolidando un equilibrio infranto, nel 2008, dalla rottura della Federazione, la cui costola scissionista (l’organizzazione Beltran Levya) si è alleata agli spietati Los Zetas, attaccando l’infrastruttura dei Sinaloa sulla costa pacifica. (more…)

Nigeria, anniversario blindato

ottobre 1, 2011

È schierato da nord a sud, contro formazioni islamiste, gang di rapitori e miliziani del Mend: il gigante africano è di nuovo nelle mani del suo esercito

Alberto Tundo per “Peacereporter

Nella prova di forza c’è tutta l’ammissione di una preoccupante debolezza. La Nigeria arriva alle celebrazoni per il cinquantunesimo anniversario dell’indipendenza, che cade il primo ottobre, senza essersi minimamente rifatta il trucco. Anzi, sembra un paese in guerra. Raccontano di un conflitto non più strisciante i posti di blocco e i veicoli militari schierati quasi ovunque. L’esercito ha di fatto preso il posto della polizia nel mantenimento della sicurezza interna. Lo stato, specialmente il nord musulmano, è militarizzato. Colpa soprattutto, ma non solo, della minaccia Boko Haram, la setta radicale islamica che solo un paio d’anni fa sembrava un lontano ricordo e invece è tornata ad essere un incubo reale che ha fatto centinaia di morti. Un nemico che ha progressivamente cambiato forma e alzato il tiro, ampiando la tipologia degli obiettivi – non più solo poliziotti e soldati – e il raggio d’azione. Anche tenendo presente l’ultimo attacco eclatantequello alla sede delle Nazioni Unite di Abuja, la capitale federale, le autorità hanno rafforzato i controlli in previsione di nuovi attentati. Un report che i capi delle agenzie di sicurezza si stanno passando in questi giorni menziona una serie diobiettivi giudicati ad alto rischio: la sede della Banca centrale nigeriana, quella del ministero delle Finanze, la Corte Suprema, il parlamento – che un paio di settimane fa è stato sgombrato per un allarme bomba – il quartier generale dell’esercito, della polizia – già attaccato – e della Nncp, il colosso nazionale che gestisce la ricchezza petrolifera del Paese, per citarne solo alcuni.

Ai piani alti si respira un nervosismo contagioso. La presidenza ha chiesto a tutte le agenzie di farle avere i documenti relativi a Boko Haram, sia per quanto riguarda le azioni della setta che la risposta di polizia e intelligence. Una sfiducia che filtra all’estero e che spiega il perché ad Abuja siano operativi da settimane anche agenti dell’Fbi, ai quali è stata affidata la sicurezza della sede Onu, dopo il siluramento del responsabile e del suo vice, un francese e un kenyano. Ma con quali forze si possa vigilare sulle celebrazioni resta un mistero.  (more…)

Il Sudan in crisi economica spera nell’Iran

settembre 30, 2011

Carta di Laura Canali

La situazione a Khartoum, dopo la secessione del Sud Sudan, è peggiorata drasticamente anche a causa della perdita degli introiti petroliferi. Si aggravano le tensioni sociali. Ahmadinejad propone al presidente Bashir affari e l’introduzione del nucleare. [Fonte fotostrillo: irdiplomacy.ir]

Antonella Napoli per “Limes

Una nuova ondata di proteste contro il rincaro dei prezzi e la disoccupazione in Sudan è stata repressa brutalmente a Khartoum. Il paese, in bilico tra crisi economica e violenti conflitti in Sud Kordofan e Nilo Azzurro, sta attraversando una profonda fase di recessione. Il costo dei generi alimentari nel 2011 è aumentato del 25%, e secondo i rappresentanti dei più importanti mercati della capitale, il prezzo delle carni bovine da inizio anno ad oggi è raddoppiato, con conseguente calo della domanda.

Nelle ultime settimane si sono susseguite diverse dimostrazioni e centinaia di persone, tra cui alcuni minori, sono rimaste ferite negli scontri con le forze dell’ordine.

La contestazione popolare ha visto il suo apice nel quartiere di el Burri, ad est di Khartoum, dove i contestatori hanno bloccato il traffico, dato alle fiamme pneumatici e lanciato sassi contro i poliziotti, i quali hanno disperso la folla con gas lacrimogeni e arrestato la maggior parte dei manifestanti.

Agenti dell’intelligence nazionale e dei servizi di sicurezza hanno inoltre fatto irruzione nella redazione del quotidiano indipendente Al-Jaridah, sospendendone la pubblicazione e confiscando il patrimonio della testata senza fornire alcuna motivazione. (more…)

Una nuova guerra del gas tra Russia e Ucraina?

settembre 29, 2011

carta di Laura Canali

Kiev e Mosca non hanno ancora trovato un accordo sulla revisione dei contratti siglati nel 2009 tra Yulia Tymoshenko e Vladimir Putin. A impedire una soluzione c’è anche il processo all’ex eroina della rivoluzione arancione, sul quale vigila l’Unione Europea

Stefano Grazioli per “Limes

L’ultimo incontro è avvenuto sabato scorso in Russia nel giorno dell’annuncio della staffetta tra Dmitri Medevedev e Vladimir Putin. Il presidente ucraino Victor Yanukovich è andato al Cremlino per trovare una soluzione alla trattativa aperta tra Kiev e Mosca sul prezzo del gas, ma ne è uscito con l’ennesimo pugno di mosche. (more…)

Grosso guaio ad al-Jazeera

settembre 29, 2011

Christian Elia per “Peacereporter

Quando le dimissioni di Wadah Khanfar, ormai ex direttore di al-Jazeera per otto anni ed ex inviato di guerra per la televisione araba, sono diventate di dominio pubblico il 20 settembre scorso, una miriade di voci incontrollate hanno iniziato a circolare negli ambienti del giornalismo, della diplomazia e della politica internazionali.

“Ho già informato il presidente della mia volontà di lasciare le funzioni amministrative al termine di otto anni, e lui e’ stato comprensivo”, ha scritto nel suo messaggio Khanfar. “Durante i miei otto anni ad al-Jazeera, il mio obiettivo era quello di portare il network da una dimensione locale ad un livello globale. Questo target è stato raggiunto ed ora l’organizzazione gode di una robusta e solida posizione”, ha spiegato. Non fa una grinza, solo che non è andata proprio così.

Khanfar, infatti, è stato costretto a dare le dimissioni per avere modificato la copertura della guerra in Iraq nel 2005 su pressione degli Stati Uniti. A rivelarlo un documento riservato pubblicato da Wikileaks. Si tratta di un dispaccio, datato ottobre 2005, firmato dall’ambasciatore Usa in Qatar dell’epoca, Chase Untermeyer descriveva nei dettagli l’incontro con Khanfar a cui consegnò la copia di un rapporto della DIA (United States Defense Intelligence Agency) sulla copertura di al-Jazeera della guerra in Iraq. Il direttore rispose che aveva già ricevuto un’anticipazione del rapporto dal governo del Qatar e suggerì di fissare un incontro che coinvolgesse tutte e tre le parti. Chiese anche esplicitamente a Untermeyer di mantenere la massima riservatezza sulla sua collaborazione. (more…)

Sinai, attaccato il gasdotto che collega l’Egitto con Israele

settembre 29, 2011

L’infrastruttura, che rappresenta la principale fonte di energia per lo Stato ebraico, è stata attaccata sei volte dalla caduta di Mubarak. Si indaga sulle cellule jihadiste con base a Gaza. Ma sono sempre di più quelli che pensano che i responsabili di questi gesti siano i lealisti dell’ex Rais

Joseph Zarlingo per “Il Fatto Quotidiano

Di nuovo, un’immensa fiammata ha illuminato la notte del deserto del Sinai. Il gasdotto che attraversa il nord della penisola per rifornire di gasIsraele e Giordania è saltato in aria, non lontano da Al-Arish, il capoluogo del governatorato del Nord Sinai, a una cinquantina di chilometri dal confine israeliano, e snodo dell’Arab Gas Pipeline, che inizia in Libia. L’attacco è avvenuto a circa 25 chilometri ad ovest della città.

Secondo al Jazeera, la polizia egiziana ha ricostruito che sei uomini armati hanno abbattuto le recinzioni di filo spinato che proteggono l’impianto e hanno piazzato una bomba vicino ai tubi prima di allontanarsi su un’auto che li stava aspettando. Due persone sono rimaste ferite dall’esplosione che ha danneggiato anche delle coltivazioni attorno al gasdotto. La fornitura di gas è stata interrotta, mentre i pompieri cercavano di bloccare l’incendio, lottando con fiamme alte anche quindici metri. (more…)

L’Irlanda rivede il verde speranza

settembre 29, 2011

Leonardo Maisano per “Il Sole 24 Ore

Si sono venduti anche i purosangue, finiti nei mattatoi nazionali con la stessa rapidità che vedeva i conti correnti degli aspiranti allevatori sprofondare nell’abisso della crisi. La carne equina “tira” sui mercati continentali, mentre le corse nelle contee piegate dai debiti non sono più battute come un tempo. E così, da mesi, la congiuntura si risolve nel tragico contributo di fattrici e stalloni all’exit strategy dalla depressione.

Schegge della gloria di queste ore spettano, dunque, anche ai cavalli di razza, tolti dalla stalle, ammazzati a migliaia, impacchettati, infine spediti, come mai prima, nelle macellerie dell’Unione. Voce microscopica, ma simbolica dell’export che si conferma energia vitale per ridare all’Irlanda lampi di luce nel buio pesto calato con il crollo dell’immobiliare maturato con il credit crunch. Due lampi, per la precisione: il primo e il secondo trimestre dell’anno si sono chiusi con un +1,9 e +1,6 % del Prodotto interno lordo, ben oltre le più rosee aspettative. Trend eccentrico rispetto al resto dell’Unione Europea, sconosciuto a quei Pigs (Portogallo, Irlanda, Grecia, Spagna) a cui anche l’Italia è ormai associata. A meno di un anno dall’arrivo della missione Ue-Fmi che decise misure di salvataggio per 67,5 miliardi di euro, Dublino si scuote con le esportazioni in crescita del 3,1% nel primo trimestre, per poi frenare a un più 1% nel secondo trimestre. Non solo.

Anche la domanda interna tende a espandersi con gli investimenti in netta progressione (2,4% nei primi tre mesi, 6,4% nel periodo aprile-giugno). Il risultato è che l’Irlanda centrerà gli obiettivi programmati con gli elettori, con le istituzioni internazionali e forse farà anche meglio del previsto. «Sono convinto – spiega John Fitzgerald dell’Economic and social research institute – che il passo della crescita economica rallenterà nella seconda metà dell’anno, perché quanto accade nel resto d’Europa e del mondo comincia già ad avere conseguenze anche da noi. Ed è inevitabile. Credo, invece, che le banche potrebbero non aver bisogno di tutto quanto è stato fino ad ora stanziato per loro. In ogni caso raggiungeremo il deficit previsto nel 2012 pari all’8,6% del Pil». (more…)

DOUBLE PAKISTAN! – I RAPPORTI TRA GLI USA E L’AMBIGUO ALLEATO SONO IN CRISI MA L’AMERICA FA FINTA DI NON VEDERE – ISLAMABAD DIETRO UN’IMBOSCATA DEL 2007 IN CUI MORÌ UN MAGGIORE SATUNITENSE. FERITI 3 UFFICIALI – I PAKISTANI APRIRONO IL FUOCO A TRADIMENTO AL TERMINE DI UN MEETING – WASHINGTON NON HA MAI VOLUTO FARE CHIAREZZA DAVVERO: MEGLIO UN PAKISTAN AMICO INAFFIDABILE CHE NEMICO…

settembre 27, 2011

Dagoreport da “The New York Times” – http://nyti.ms/qrxRxX 

Nuove rivelazioni gettano luce sugli ambigui rapporti tenuti dal Pakistan con gli Stati Uniti. Il “New York Times” di oggi racconta il retroscena di un’imboscata avvenuta a Teri Mangal, sul confine afgano, il 14 maggio del 2007. Un maggiore americano morì e tre ufficiali rimasero feriti. Dietro quell’attacco c’era proprio l’inaffidabile alleato.

Si trattò di una vera e propria trappola, scattata al termine di un incontro tra l’esercito Usa e alcuni ufficiali afgani, con degli ufficiali pakistani. Gli ufficiali pakistani erano ospiti. Il meeting si tenne all’interno di un edificio scolastico a ridosso del confine. L’imboscata era stata organizzata accuratamente. I pakistani aprirono il fuoco sugli americani non appena terminata la riunione. I soldati Usa risposero al fuoco, prima di riuscire a fuggire in elicottero. (more…)

Zambia, il Cobra sale al trono

settembre 27, 2011

Il paese africano cambia governo dopo vent’anni. La presidenza tocca a Michael Sata, carismatico leader che ha denunciato lo strapotere di Pechino. Sarà cambiamento vero?

Giulio Morello per “Peacereporter

L’ultima volta che lo incontrai, l’allora leader dell’opposizione zambiana Michael Sata mi disse che il suo partito era pronto alle elezioni, anche se queste si fossero tenute il giorno dopo. (more…)

Riprende la repressione in Yemen. A Sana’a 40 morti negli scontri

settembre 25, 2011

Nonostante le promesse di tregua, con il rientro in patria di Saleh sono riprese le operazioni contro i manifestanti che chiedono la fine del regime yemenita. I governativi hanno usato anche artiglieria e aviazione contro i ribelli

Joseph Zarlingo per “Il Fatto

Aveva promesso un cessate il fuoco e negoziati politici, Ali Abdullah Saleh, da 33 anni presidente dello Yemen, tornato venerdì a sorpresa nel suo paese dopo tre mesi di convalescenza forzata in Arabia Saudita per le ferite riportate nell’attentato subito all’inizio di giugno. Aveva promesso una tregua, ma l’effetto immediato del suo ritorno è stato un attacco lanciato dalle truppe della Guardia repubblicana – comandata da uno dei figli di Saleh – contro le posizioni della Prima brigata, guidata dal generale dissidente Ali Mohsen al-Ahmar. Bilancio, del tutto provvisorio, del sabato di sangue è di almeno 40 morti nella sola capitale Sana’a.

Epicentro dei combattimenti Piazza del Cambiamento, dove da otto mesi sono accampati i manifestanti che chiedono la fine del regime di Saleh. Già negli ultimi sei giorni nella Capitale come in altre zone del Paese (Aden, Taiz e la provincia di Sadaa) le truppe passate con i manifestanti hanno fronteggiato i reparti rimasti fedeli al presidente. A Sana’a, mercoledì, i governativi hanno usato anche l’artiglieria pesante e l’aviazione per bombardare il quartier generale delle truppe ribelli, non lontano da Piazza del Cambiamento.

Il generale al-Ahmar, un tempo stretto collaboratore di Saleh, ha scelto di unirsi ai manifestanti dopo il massacro del 21 marzo scorso, quando a Sana’a le truppe governative hanno aperto il fuoco contro una manifestazione anti-regime uccidendo almeno 45 persone. Gli ospedali della Capitale hanno lanciato un appello perché mancano medicinali ed equipaggiamenti chirurgici per i feriti, che sono molte decine. (more…)

In Burundi si avvicina una nuova guerra civile

settembre 24, 2011

Carta di Laura Canali

Un attacco in Burundi rivendicato dall’Fnl ha coinvolto, uccidendole, trentasei persone. Una nuova escalation di violenza che potrebbe significare l’inizio di una nuova guerra civile, in un Burundi già piegato dalla politica di malgoverno di Nkurunziza

Roberto Colella per “Limes

Trentasei persone sono state uccise in un attacco contro un bar di Gatumba, nei pressi di Bujumbura, in Burundi. Una nuova escalation di violenza segno di una guerra civile già tendenzialmente in atto. Il presidente Pierre Nkurunziza ha dichiarato tre giorni di lutto nazionale.

I responsabili dell’attacco sono ancora una volta i membri dell’Fnl, guidato da Agathon Rwasa, tornato in clandestinità a partire dal 2010. E pensare che proprio nel 2008 l’ultimo gruppo ribelle, appunto l’Fnl, si era arreso e dopo diversi tentativi era entrato a far parte del governo, deponendo le armi solo nel 2009.

In precedenza, dopo le elezioni del 2010 boicottate dai partiti d’opposizione che avevano riconfermato la leadership di Nkurunziza, una escalation di crimini politici aveva lanciato un avvertimento.

Uno degli ultimi attacchi era avvenuto nella provincia (nord-ovest) di Cibitokequando otto uomini armati vestiti da poliziotti avevano preso d’assalto un minibus nel Buganda (60 chilometri a nord di Bujumbura). (more…)

Il Qatar delega ai sauditi il processo contro al Qaida

settembre 22, 2011

Carta di Laura Canali

I jihadisti che progettavano un attacco contro le basi militari americane Al Udeid e As Sailiyah in Qatar sono stati trasferiti in Arabia Saudita. L’Emirato preferisce che sia Riyad a occuparsi dei terroristi, e si propone come Stato western friendlydella regione

Alma Safira per “Limes

In Arabia Saudita sono sotto processo i membri di Al Qaida che progettavano un attacco contro le basi militari americane Al Udeid e As Sailiyah in Qatar, utilizzate per attaccare l’Afghanistan nel 2011 e l’Iraq nel 2003. La cellula era composta da 41 membri di cui 38 sauditi, uno qatarino, uno afghano e uno yemenita, e aveva legami con gruppi terroristici in Iraq e in Siria; progettava attentati anche in Kuwait.

Il Qatar si sta esponendo sempre di più come una piattaforma western friendly in mezzo al Golfo. La partecipazione attiva all’intervento in Libia, la costruzione di una base politica dei talebani in territorio qatarino su esplicita richiesta degli Stati Uniti, la mediazione sulla questione del Darfur, sono solo alcune delle recenti iniziative strategiche di Doha che hanno esposto e innalzato l’Emirato nella politica internazionale riscuotendo sorrisi occidentali e critiche da parte della frangia più radicale dell’Islam. (more…)

Attacco hacker ai fornitori delle forze armate giapponesi. E il sospetto cade sulla Cina

settembre 21, 2011

La Mistubishi Heavy Industries ha reso noto che 80 dei suoi server e computer sono stati infettati con almeno nove tipi diversi di virus. Il governo non indica possibili responsabili, ma la stampa giapponese dice che gli investigatori avrebbero trovato alcune righe di codice connesso agli attacchi che farebbero pensare a un’azione di hacker della superpotenza

Joseph Zarlingo per “Il Fatto

Un attacco preciso, coordinato, su almeno 80 obiettivi diversi, durato diverse ore. Senza sparare un colpo. È il bollettino con cui la Mistubishi Heavy Industries, ramo militare della multinazionale giapponese e principale fornitore delle forze armate nipponiche, ha reso noto che 80 dei suoi server e computer sono stati infettati con almeno nove tipi diversi di virus. L’attacco è avvenuto un mese fa, ma solo oggi la stampa del Sol Levante ne ha avuto notizia da fonti interne al colosso industriale. I vertici dell’azienda si sono affrettati a dire che non sono state rubate informazioni segrete, specialmente quelle sui missili e sui sottomarini, apparentemente il principale obiettivo degli hackers. Il governo di Tokyo, però, non ha gradito la reticenza della Mhi: «Non è compito della Mitsubishi stabilire quali informazioni sono importanti – ha detto alla stampa un portavoce del ministero della difesa – Questo è compito del ministero. La Mitsubishi avrebbe dovuto informare il governo tempestivamente e avviare un’accurata indagine interna». (more…)

La polizia di Londra vuole che il Guardian riveli le fonti

settembre 17, 2011

Scotland Yard usa una legge controversa per sapere chi ha fornito al giornale informazioni sul caso di Milly Dowler e del News of the World

da “ilpost

La polizia di Londra ha detto ieri sera che chiederà a un tribunale di costringere due giornalisti del quotidiano britannico Guardian a rivelare le loro fonti utilizzate in alcuni articoli sul caso delle intercettazioni illegali fatte del News of the World. L’udienza davanti al giudice di Londra che dovrà decidere se emettere l’ordinanza si terrà il prossimo 23 settembre. Il Guardian e il sindacato britannico dei giornalisti hanno reagito molto duramente all’annuncio, dicendo che si tratta di “un attacco senza precedenti alle fonti giornalistiche”. (more…)

Khartoum avalla l’opzione militare nel Nilo Azzuro

settembre 17, 2011

Carta di Laura Canali

Dopo i violenti scontri di settembre tra Splm e Forze armate sudanesi, l’Assemblea nazionale ha imposto lo stato d’emergenza nella regione del Blue Nile. Il governatore della regione Malik Agar, rimosso da Bashir, è stato dichiarato latitante dai servizi segreti. Tentativo disperato degli Usa di scongiurare una nuova guerra

Antonella Napoli per “Limes

Con il sì unanime dell’Assemblea nazionale della Repubblica del Sudan al decreto con cui il presidente Omar Hassan al-Bashir ha imposto lo stato d’emergenza nella regione del Nilo Azzurro, dai primi di settembre teatro di violenti scontri tra Forze armate sudanesi e Sudan people’s liberation army (esercito del sud), la situazione nel paese sta precipitando inesorabilmente. (more…)

Prosegue la transizione in Corea del Nord

settembre 14, 2011

Carta di Laura Canali

Gli ultimi sviluppi della diplomazia nordcoreana sono funzionali alla transizione politica interna. Intanto prosegue l’affermazione pubblica del figlio di Kim Jong-il, funzionale al futuro “passaggio di consegne”. I viaggi del Caro leader in Cina e Russia

Stefano Felician per “Limes

L’estate del 2011 è stata particolarmente densa di eventi in Estremo Oriente.L’attenzione dei mass media si è concentrata sul Mar Cinese Meridionale e sulle tensioni fra i vari Stati rivieraschi, allontanandosi dall’ormai tradizionale confronto fra le due Coree.

Il 2010 è stato un anno disastroso per le già tese relazioni bilaterali fra i due paesi. Il 2011 si è aperto con diverse esercitazioni militari sudcoreane che hanno provocato molta irritazione a Pyongyang e a Pechino, ma in definitiva le critiche non si sono discostate dal piano verbale.

Si poteva presupporre che il decorso dei mesi potesse lentamente far dimenticare gli eccessi dello scorso anno. I due incidenti del 2010, l’affondamento di una nave sudcoreana ed il bombardamento dell’isola di Yeonpyong, nel Sud, avevano portato la penisola sull’orlo di un confronto militare.

L’apparente calma fra le due Coree, sempre molto attente a quanto succede “dall’altra parte” del confine, si è riaccesa di colpo verso i primi di agosto, con una serie di scambi di colpi d’artiglieria che però, rispetto agli eventi dell’anno scorso, rientrano fra il normale gioco delle parti che avviene qui. Gli scontri di frontiera, che consistono di norma nello scambio di una limitata serie di colpi d’artiglieria, sono avvenuti spesso dalla fine del conflitto coreano nel 1953. (more…)

Benetton nunca mas. A Buenos Aires è guerra al latifondo

settembre 13, 2011

Filippo Fiorini per “il Manifesto

«Contadini mandati alla guerra in frontiera, per dar la terra nuova ai gringos forestieri; e noi che siam qui da prima della bandiera, di nutrirci di rape dovremmo anche esser fieri». Lo diceva più di cent’anni fa il gaucho Martin Fierro, se si ammette la parafrasi piuttosto libera del poema epico argentino che porta il suo nome, ma ora il governo di Cristina Kirchner sembra deciso ad ascoltarne la rima: in parlamento c’è una legge che vieta agli stranieri la possibilità di acquistare grandi appezzamenti di terreno.
Una norma non retroattiva, che permetterà ai grandi gruppi italiani di restare, anche se per farlo saranno probabilmente obbligati a riconoscere più diritti ai dipendenti e rispettare le comunità indigene, perchè l’Argentina del nuovo millennio cammina sola nella crisi e ha uno scudo ideologico contro parole come neocolonialismo e imperialismo. (more…)

L’India scopre il terrorismo fatto in casa

settembre 12, 2011

Carta di Laura Canali

L’attentato al palazzo dell’Alta Corte di Delhi è solo l’ultimo di una serie di attacchi rivendicati da gruppi terroristi nati in Pakistan che hanno fatto proseliti in India. La strategia dell’Isi in Balucistan

Francesca Marino per “Limes

L’attentato al palazzo dell’Alta Corte di Delhi – il secondo in poco più di un mese in territorio indiano – riporta all’attenzione della più grande democrazia del mondo, di recente occupata soltanto dai problemi di corruzione della classe politica e dai digiuni dell’attivista gandhiano Anna Hazare, la minaccia piùo meno costante del terrorismo. Con una variante, però, rispetto al copione seguito negli ultimi anni.

L’attentato è stato rivendicato dall’Harkat-ul Jihadi al-Islami (HuJi), gruppo di matrice pakistana, attivo prima in Kashmir e poi in tutta l’India negli anni scorsi, legato ad Al Qaida e al fantomatico gruppo degli Indian Mujahidin, sigla di una delle organizzazioni-fantasma della Lashkar-i-Toiba. La mail che ha rivendicato l’attentato sarebbe stata inviata da un cyber-cafè di Srinagar, nel Kashmir indiano. E questo è, in realtà, il nocciolo della questione. (more…)

In Sudan Bashir è pronto a una nuova guerra

settembre 8, 2011

Lo scontro tra il governo del Sudan, l’Esercito popolare di liberazione del Sud e i vari gruppi etnici si è riacceso mietendo, nelle ultime settimane, migliaia di vittime. Le violenze nella regione del Nilo Azzurro. WikiLeaks svela un complotto, fallito, contro il presidente

Antonella Napoli per “Limes

Il riacutizzarsi del conflitto tra il governo del Sudan, l’Esercito popolare di liberazione del sud (Spla/m) e vari gruppi etnici disseminati sul vastissimo e complesso terreno sudanese ha causato in poche settimane migliaia di vittime. L’ultimo fronte caldo in ordine di tempo è la regione del Nilo Azzurro. I violenti scontri armati nella città di Damazin, epicentro dei combattimenti, hanno provocato lo spostamento forzato di centinaia di migliaia di persone e la morte di almeno duemila civili. L’area si presenta ormai quasi disabitata. Stessa situazione nel Sud Kordofan e nella provincia petrolifera di Abyei, attualmente a statuto speciale e contesa tra Nord e Sud Sudan. (more…)