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Redenzione ebraica nella Gerusalemme russa

gennaio 15, 2012

Oddone Camerana per “L’Osservatore Romano

La traduzione del titolo di un’opera è un tema che ha fatto discutere più di una volta. Ricordo il caso del romanzo di Harper Lee il cui titolo To Kill the Mocking Bird (1960) è diventato in italiano Il buio oltre la siepe, versione preferita onde evitare il rischio di essere incompresi se si fosse restati fedeli al richiamo della mimesi contenuto nel titolo originale.

Più famoso fu il caso di The Catcher in the Rye (1951) quando, invece di adottare la traduzione suggerita da Calvino Il terzino nella grappa, fu scelta la formula Il giovane Holden. Più sfumato il caso di Wutherings Heights di Emily Bronte (1847) tradottoCime tempestose, sebbene le alture citate fossero poco più che delle colline. Stesso discorso per A Passage to India (1924) di Edward Morgan Forster tradotto Passaggio in India quando sarebbe stata più aderente alla realtà la soluzione Una via per le Indie.

Non si è discusso invece della traduzione del titolo del celebre romanzo di Bernard Malamud, autore ebreo americano. Grande successo a partire dagli anni Sessanta, detto romanzo venne pubblicato in Italia nel 1968 col titolo L’uomo di Kiev mentre quello originale The Fixer — termine ricavato dal verboto fix — poneva l’accento sull’azione di aggiustare e riparare. Da cui la qualifica generica di “tuttofare” con cui viene indicato il protagonista del libro, ma nella traduzione italiana con l’iniziale minuscola.

Ammesso che la scelta di titoli come Il riparatore oL’aggiustatore, letterariamente più fedeli all’originale, avrebbe creato dei problemi di ordine commerciale e che il titolo L’uomo di Kiev è geograficamente più evocativo, resta il fatto che con la scelta laica adottata si è evitata l’allusione evangelica contenuta nel titolo originale e presente nella tragica vicenda cui va incontro il protagonista. Una vera “passione” che si inserisce nel filone dei capri espiatori e dei pogrom medioevali e successivi di cui è ricca la letteratura dell’Europa orientale.

Proveniente da uno dei tanti villaggi ebraici o shtetl dell’Ucraina, l’ebreo Yakov approda a Kiev dove trova lavoro in una fabbrica di mattoni di proprietà di un ricco industriale del posto da cui viene assunto come ispettore in segno di gratitudine per l’aiuto prestatogli in una notte tempestosa. Abbandonato il villaggio e familiarizzatosi con il nuovo lavoro, Yakov sembra sorridere alla vita quando un giorno viene accusato della morte di un ragazzo il cui cadavere viene trovato in una grotta dissanguato a scopo rituale. Arrestato e incolpato del tremendo crimine, Yakov finisce in carcere dove patisce sofferenze atroci fino all’esito risolutivo che lo vede trascinato su un carro alla volta del probabile patibolo.

Va notato a questo punto come per quanto diversi (per ambiente, contesto storico, geografico e religioso) il capro espiatorio e il pogrom, entrambi evocati dalla vicenda di Yakov, abbiano qualcosa in comune e che questo qualcosa risieda nel meccanismo che rende le due “istituzioni” sacrificali in grado di risolvere situazioni conflittuali trasferendo la presunta colpa del conflitto stesso all’esterno.

Stando all’ipotesi sopra ventilata secondo la quale il titolo originale The Fixer nasconderebbe un’allusione cristologica alla riparazione/redenzione di Cristo, va fatto notare come l’incarcerazione inspiegabilmente prolungata di Yakov, il ritardo oltre ogni limite logico dell’atto di accusa che non arriva mai, la ripetizione ossessiva degli interrogatori e poi la mole eccessivamente dilatata delle false prove raccolte contro di lui, come l’insistita richiesta di una confessione di colpa e infine il diradarsi fino all’ultima pagina della violenza risolutiva, non siano particolari d’autore inseriti ad arte allo scopo di ottenere più suspense. Va fatto notare, invece, come siano i particolari che rappresentano la conseguenza e la prova dell’incepparsi dei meccanismi ormai logori del capro espiatorio e del pogrom per effetto della rivelazione di Gesù. Che cosa sono mai, infatti, i meccanismi del capro espiatorio e del pogrom quando si scoprono incapaci di muoversi secondo la furia della folla divinizzata o della tempesta o della bufera o di un incendio? Sono meccanismi spompati che per sopravvivere hanno bisogno di un rilancio.

Senonché questo si presenta come ogni vota più difficile stando alla presenza di Dio nella storia nella persona del Figlio, il Cristo riparatore in grado di aggiustare, smontare e rimontare i componenti del meccanismo, ma nella direzione giusta senza per questo violare la libertà del singolo. La verità e il bene vengono dopo il falso e il male. «Voi soffrite per tutti noi» dice a un certo punto del libro l’avvocato difensore di Yakov ormai allo stremo delle sofferenze.

Per L’uomo di Kiev non si tratta pertanto di una delle tante vicende che riprendono il tema del capro espiatorio nel contesto dei pogrom antigiudaici dell’epoca zarista, bensì di una vicenda che sullo sfondo di un massacro annunciato e imminente ripropone il richiamo a una redenzione possibile. In quel caso questa si manifesta nella Gerusalemme russa, come veniva chiamata la città di Kiev, sede del cristianesimo ortodosso russo e grazie alla passione a cui si sottopone l’ebreo Yakov.

Se quanto detto è plausibile, si può dire che la traduzione del titolo The Fixer in L’uomo di Kiev, invece che con un termine che indichi l’azione di riparare, per quanto comprensibile, rappresenta un’occasione mancata: quella di un’allusione a un’intesa profonda tra giudaismo e cristianesimo.