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In Libano tutti cattivi tranne i soldati italiani

marzo 25, 2010

Il grande inviato di guerra Fisk racconta la storia del Paese mediorientale, diviso all’interno e occupato dagli stranieri. E salva il nostro eroico contingente

Sembra che in questi ultimi tre anni il Libano abbia preso a crescere, economicamente parlando, a un ritmo frenetico. Beirut è tornata a essere una capitale del piacere e degli affari, il suo porto commerciale è pieno, quello turistico vede ormeggiate le barche più lussuose, le pubblicità invitano a godersi la vita al massimo e a ogni istante. Ancora nel 2006 lì piovevano le bombe israeliane dell’operazione Grappoli d’ira e la capitale ripiombava in quella che nell’ultimo trentennio è stata la sua condizione naturale: sangue e distruzione. È un popolo ostinato il popolo libanese, eroico nella tenacia con cui si piega e sopporta l’insopportabile. Il martirio di una nazione (il Saggiatore, pagg. 848, euro 35) è il saggio che Robert Fisk le ha dedicato e che esce ora in edizione italiana, libro complesso nel suo essere storia e cronaca, analisi geopolitica, riflessione sul mestiere giornalistico e sul mestiere delle armi, scritto da quello che per il New York Times è «il più famoso inviato di guerra del mondo».
Ancora oggi negli alberghi, nei salotti borghesi, nelle baracche dei campi profughi ritrovi sotto forma di stampe gli acquerelli che nella prima metà dell’Ottocento l’artista inglese David Roberts dedicò a Tiro e ai templi di Baalbek, a Sidone e alle montagne dello Shuf. Rappresentano la visione idilliaca di un mondo violento dove l’impero ottomano esercitava ancora il suo dominio, ma le potenze europee già andavano erodendolo anno dopo anno, fino a ridisegnarne i confini all’indomani della Grande guerra. Il Libano che geograficamente conosciamo nacque allora, ritagliato dai francesi su una minoranza cristiano-maronita che era insieme garante e sovrana della maggioranza drusa musulmana. Nel secondo dopoguerra, il protettorato francese lasciò il posto a una nazione indipendente in cui la condivisione del potere fra le due comunità poggiava dunque su un compromesso, sino ad allora tutelato da una potenza militare straniera e ora elevato a dottrina di Stato: come tale, fragile. (more…)