La costellazione Israele

imagesSono trascorsi circa vent’anni da quando David Grossman, poco più che trentenne, appariva sugli schermi televisivi italiani. La sua fisionomia delicata e imodi garbati contrastavano con quelli del soldato israeliano macho, armato e spavaldo, che puntualmente popolava la stampa e i mezzi di comunicazione. Leggendo il suo primo romanzo Vedi alla voce: amore (Mondadori 1988) si percepiva qualcosa di nuovo, di inusitato. La società israeliana veniva vagliata attraverso lo sguardo innocente di un fanciullo che si interroga sul passato taciuto dei genitori: la Sho’ah. Tra le pagine, affiorava dunque il dramma dei sopravvissuti all’Olocausto e la fragilità emotiva della «seconda generazione » di superstiti. L’accoglienza entusiasta del libro, che per settimane si aggiudicava la vetta dei best sellers sui più quotati quotidiani nazionali, suscitava un interesse inatteso verso la letteratura israeliana. Lo stesso anno, la simpatia del pubblico per Grossman si confermò con il saggio Il vento giallo (Mondadori 1988), in cui – con stile asciutto – l’autore israeliano forniva un resoconto sul percorso esistenziale della popolazione araba nei territori occupati, mettendo a nudo le loro tragiche vicende e facendo affiorare il dibattito politico presente in Israele, con le complesse posizioni di una società democratica di fronte a un dramma che rischiava di comprometterne l’esistenza.

La Generazione dello Stato Il successo del giovane Grossman spianò l’ingresso ad altri scrittori, primo tra tutti Abraham B. Yehoshua, che aveva esordito nel 1977 con L’amante (Einaudi 1990);meno di un decennio dopo arrivava al nostro pubblico anche il nome di AmosOz, il cui intricato percorso biografico è leggibile in Una storia d’amore e di tenebra (Feltrinelli 2003). Quasi parallelamente al rivelarsi della produzione artistica israeliana in ambito italiano, nuove tendenze e rinnovate forme narrative si manifestavano nello Stato ebraico. I primi segnali si colsero già alla fine degli anni ’70 e raggiunsero il culmine negli anni ’90: dunque, sebbene ancora all’ombra dei due grandi, Abraham B. Yehoshua e Amos Oz, che inmodi diversi tra loro riflettono tuttavia la cosiddetta «Generazione dello Stato», nuove voci si facevano sentire, comunicando sensibilità ed esperienze eterogenee. Non c’è nulla di casuale, ovviamente, nella denominazione «Generazione dello Stato», applicata a quegli intellettuali la cui formazione culturale era avvenuta all’ombra della nascita della nazione ebraica. Il ricollegarsi a questo evento acquistava una doppia valenza ideologica e politica: da una parte portava testimonianza di una riflessione sulla realtà socio- culturale che l’aveva determinata, dall’altra parlava della ricerca di una identità personale, capace di trascendere gli ideali collettivi. Fu all’epoca delle elezioni del 1977 – data che segna la caduta del governo laburista tra le cui file militavano i «padri fondatori» della nazione – e l’ascesa del partito Likud che si determinarono altri significativi cambiamenti in campo artistico e letterario. Mehamen Begin, un avvocato di origine polacca, salì al potere con l’appoggio dei cittadini israeliani di origine «orientale», gli ebrei profughi dai paesi arabi. All’inflessibile esponente della destra sionista sarebbe spettato il merito dell’accordo di pace con l’Egitto nel marzo del ‘79: questo il paesaggio al tempo stesso bizzarro e traboccante di tensioni drammatiche che fa da sfondo a una produzione narrativa via via più intensa. L’ambito sociale si costituisce in un mosaico policromo di etnie diverse, provenienti dall’Europa, dall’Asia e dall’Africa: culture remote e contrapposte accomunate dai nuovi ideali e dalla tradizione millenaria rinnovata. In questo crogiolo di genti, la lingua ebraica di biblica memoria, integrata da neologismi, si dimostra uno strumento agile per l’uso quotidiano e un mezzo espressivo duttile per la scrittura, che in Israele si rende attenta alle correnti letterarie, anche d’avanguardia, presenti in ambito occidentale. Il nesso che fino alla caduta del governo laburista aveva legato potere e intellighenzia cominciava a infrangersi e l’assenza di una cultura egemone generava, per contrasto, nuove energie letterarie, che facevano emergere protagonisti di gruppi minoritari; al tempo stesso, gli scrittori acclamati della Generazione dello Stato rinnovano il loro registro di scrittura. In questo groviglio di tendenze si andavano definendo alcune correnti principali, che tuttavia si intersecano e confluiscono in altre ingarbugliando la matassa. La letteratura «tribale esistenziale » – sia quella askenazita che quella sefardita – richiama con nuovi registri espressivi il passato, l’esistenza ebraica in terre lontane, tralasciando la narrazione «sionista». I figli dei superstiti della Shoah, tendono a infrangere il silenzio, che ha contrassegnato i loro genitori, per interrogandosi su Quel Paese Là. Anche il gruppo minoritario palestinese che ricorre alla lingua ebraica, mira a dare concretezza al proprio contesto: il presente, elevato a metafora, prende corpo in una scrittura dove dominano il bizzarro, il fantasioso e il grottesco. Inoltre, negli anni ’80, sulla scia della vasta partecipazione femminile alla sfera culturale del paese, in ciascuna di queste correnti il contributo delle narratrici si fa determinante: particolarmente originali i mezzi espressivi di Dorit Rabinyan, autrice di Spose persiane (Neri Pozza 2000) e Le figlie del pescatore persiano (Piemme 2002). La sua scrittura, che si inserisce anch’essa nella corrente «tribale esistenziale », schiude dinnanzi al lettore il passato reale o fittizio delle «madri» vissute in Iran. Anche ShifraHorn, contrappone alla narrativa nazionale quella della comunità sefardita di Gerusalemme, in romanzi che le hanno assicurato notorietà in ambito internazionale: Quattro madri ( Fazi 2000), La più bella tra le donne (Fazi 2001) e il recente libro Gatti (Fazi 2007). E tra le autrici che si compiacciono di riallacciarsi al peculiare ambito askenazita è da ricordare Gabriela Avigur Rotem, che in Mozart non era ebreo (La Tartaruga 1997, Baldini & Castoldi 1999) delinea una saga familiare dell’Europa orientale emigrata in Argentina, mentre nel romanzo L’amore è un sole infuocato ( La Tartaruga 2004) innesta sul filone «etnico», ampliandolo, la comprensione della Shoah. Emigrati di antica data Chiari riferimenti al passato della terra d’origine, l’Iraq, scorrono tra le pagine di un grande scrittore nato a Baghdad, Sami Michael, che in chiave quasi autobiografica fa affiorare l’esistenza ebraica della antichissima comunità dalla quale proviene in Victoria (La Giuntina 2007), il cui intreccio ruota attorno alla coraggiosa figura della madre. Su questo stesso registro, che ricorre al passato dell’esistenza ebraica nella Diaspora per metterlo in relazione con il presente, sono molti i nomi da ricordare: uno su tutti quello di Eli Amir, originario di Baghdad, che emigrò con la sua famiglia in Israele nel 1950, e che in uno tra i suoi primi romanzi, Tarnegol Kaparot (tradotto in inglese Scape goat (Capro espiatorio), narra in chiave quasi autobiografica le esperienze di un giovane emigrato in Israele. In campo askenazita autori quali Yoel Hoffman e Arie Eckstein attingono nel loro immaginario al mondo oramai estinto dei padri. L’esigenza di richiamare il passato diventa un imperativo in quella corrente di scrittori rivolti a fare riaffiorare l’esperienza rimossa dei genitori, che non hanno voluto o potuto narrare le loro tragiche vicende all’ombra dell’Olocausto: un nutrito gruppo di autori nati dopo la II Guerra mondiale e dopo la costituzione dello Stato inaugura la corrente denominata «Seconda generazione della Shoah»: sono circa una ventina, e alcuni di loro hanno un legame biografico diretto con i sopravvissuti. Del tutto a sè, invece, è la figura di Aharon Appelfeld, nato in Bucovina nel 1932, superstite della Shoah ed emigrato giovane in Israele, la cui prosa non si ferma a narrare la contingenza della tragedia ma ciò che l’ha preceduta o seguita; riserverà i suoi racconti personali a Storia di una vita, pubblicato in Israele nel 1999 (La Giuntina 2001, Guanda 2007), tra le cui pagine si fa luce il suo percorso esistenziale: campi di lavoro, fuga nei boschi attanagliato dal freddo e dalla fame, fino all’approdo nella Terra promessa nel 1946. Per quanto riguarda la narrazione femminile e femminista, essa si configura – come dovunque – nei termini di un tentativo di rompere gli stereotipi legati all’ambito famigliare e al percorso esistenziale riservato a una donna. Tra i nomi più noti quello di Zeruya Shalev, considerata una voce originale e innovativa sia nel suo paese che all’estero, i cui romanzi – Una relazione intima (Frassinelli 2000), da cui è stato tratto un film, Una storia coniugale ( Frassinelli 2001, 2003) e Dopo l’abbandono ( Frassinelli 2007) – puntualizzano inmaniera vivace intricate situazioni familiari, confrontandosi con l’istituzione del matrimonio, del divorzio e della maternità, e non tralasciando ardite scene erotiche. Figura di rilievo in Israele, meno conosciuta in Italia è Orly Castel Bloom, che si cimenta nella corrente narrativa in cui dominano il fantastico e il grottesco. I suoi personaggi spesso incongruenti si aggirano per le strade di Tel Aviv, descritta come una metropoli dalla concretezza piatta. Scritto durante l’Intifada, il suo romanzo Parti umane (e/o 2003), racconta fatti banali e gesti quotidiani scanditi dall’irrazionalità. L’ultima generazione Quanto alle generazione dei quarantenni, il cui denominatore comune è la precarietà, Etgar Keret ne è uno trai rappresentati più significativi, con i suoi racconti costruiti in chiave surreale, e colmi di una ironia benevola. Tra le pagine dei suoi libri si stagliano personaggi che vivono ai margini della società e lottano per restare al di là del nulla, popolando intrecci che hanno riscosso grande successo in tutte le librerie delle grandi capitali europee, Italia compresa: Pizzeria kamikaze (e/o 2003), Io sono lui (e/o 2004), Gaza blues ( e/o 2005) scritto in collaborazione con Sami El-Youssef e molti altri. Il film Meduse diretto dall’autore e dalla moglie Shira Geffen ha ottenuto la «Camera d’oro» per la migliore opera prima al sessantesimo festival del cinema di Cannes. E, ancora: gli affanni nazionali si intrecciano fondendosi con quelli della comunità palestinese cittadina d’Israele nei due romanzi di Sayyed Kashua, Arabi danzanti (Guanda 2002, 2003) e E fu mattina (Guanda 2005). Mentre il giovane giornalista Ron Leshem, nel suo Tredici soldati. Libano 2000: un assedio disperato (Rizzoli 2007) schiude dinnanzi al lettore un’immagine particolarmente drammatica di Israele e dei suoi conflitti, così compiutamente espressi da avere ispirato anche un film Beaufort, vincitore dell’Orso d’argento al cinquantasettesimo Festival di Berlino. Se è vero ciò che nota la più autorevole critica israeliana, ossia che la cultura del paese si trova ad un bivio tra l’interiorizzazione delle forme letterarie precedenti e la ricerca di nuove e rivoluzionarie espressioni, è vero soprattutto che si intravede la resurrezione di un centro letterario capace di riflettere l’identità dei mille volti d’Israele. Ed è per l’appunto il romanzo proposto quest’anno al salone del libro di Francoforte, opera prima di un giovane etiope Omri Tag Amlak Avera, Asterai, a confermare che la lingua millenaria di Israele è particolarmente idonea a valorizzare quel che culture diverse tra loro hanno tuttavia in comune.

Gabriella Steindler Moscati per “Il Manifesto”

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