Archive for the ‘cultura’ Category

“Itinerari Diversi” | Galleria 2000eNOVECENTO (RE)

novembre 30, 2012

ITINERARI DIVERSI

1° dicembre  2012 – 1° febbraio  2013

Itinerari diversi è una mostra che si pone come obbiettivo quello di tracciare una panoramica dell’arte contemporanea nelle sue varie espressioni con la partecipazione di artisti di respiro nazionale ed internazionale. Artisti, assai differenti tra loro per modalità espressive e scelte tematiche, sono stati riuniti in questa ‘collettiva’ in cui vi è un dialogo, un autentico scambio, dove le opere presenti, sebbene diverse tra loro per forma, dimensione e tecnica utilizzata suggeriscono una riflessione su un evidente cambio di atteggiamento di sensibilità degli artisti nei confronti dell’espressione artistica attraverso la quale rappresentano il loro tempo e la propria identità creativa.
Salvo, Bandiera, 1972tecnica mista su tela, cm. 59x87

Salvo, Bandiera, 1972
tecnica mista su tela, cm. 59×87

Victor Vasarey – fondatore del movimento artistico dell’Op art, sviluppatosi negli anni ’60 e ’70 – è presente con un olio su tavola del 1966/1972. Il suo linguaggio cinetico è basato sulla disposizione e la riproduzione in serie di figure geometriche con colori complementari diversi, in cui il principio dell’unità plastica è ottenuto attraverso l’inserimento di forme una dentro l’altra con colori e sfumature diverse, come per dare un senso di movimento unilaterale alla figura.
In mostra anche una rara Bandiera tricolore di Salvo del 1972 in cui l’artista, come scrisse Danilo Eccher nel volume che accompagnava l’antologica dell’artista alla GAM di Torino: “… sceglie di far coincidere il proprio nome con l’immagine dell’opera, sostenendolo cromaticamente con il tricolore della bandiera italiana e rappresenta l’emblema di un procedere artistico costantemente in bilico fra il sé e l’altro da sé”. 
Due le opere di Alighiero Boetti: un arazzo del 1989 in cui le lettere disposte in quadrato compongono la frase “le infinite possibilità di esistere” ed una grande tecnica mista su carta intelata del 1988.
Alighiero Boetti, Le infinite possibilità di esistere, 1989, ricamo su tessuto, cm. 26,5x26,5

Alighiero Boetti, Le infinite possibilità di esistere, 1989, ricamo su tessuto, cm. 26,5×26,5

In esposizione anche un Paesaggio TV del 1972 di Mario Schifano. Scene sfocate, incastonate in schermi che le rendono fermo-immagine senza tempo incollati a televisori dai contrasti mal regolati, frammenti immortalati con una delle sue inseparabili macchine fotografiche, decontestualizzati, e reinseriti in una nuova dimensione, quella pittorica, senza però renderli totalmente avulsi dalla loro natura d’immagine mediatica.
In mostra saranno presenti anche opere di: Capogrossi, Centenari, Dadamaino, O.Galliani, Gastini, Guttuso, Kaoru, Leblanc, Ligabue, Manfredi, Mattioli, Morlotti, Nunzio, Poli, Spagnulo, W.Valentini.Itinerari diversi
Reggio Emilia, Galleria d’Arte 2000 & NOVECENTO
1° dicembre  2012 – 1° febbraio 2013
Orari: 10 – 12,30 | 16 – 19,30 (Chiuso la mattina giovedì – Aperto domenica e festivi)Per informazioni: 2000 & NOVECENTO Galleria d’Arte
Via Emilia San Pietro n°21 – 42121 Reggio Emilia | Tel. 0522 580143 | Fax 0522 496582
E-mail: duemilanovecento@tin.it  |  Web: www.duemilanovecento.it

Marco Gastini, Norwegen, 1985, tecnica mista su legno, carta e collage, cm. 68x170

Marco Gastini, Norwegen, 1985, tecnica mista su legno, carta e collage, cm. 68×170

Il museo delle opere perdute: qui rivive ciò che non c’è più

agosto 23, 2012

Vincenzo Trione per “Il Corriere della Sera

Il tempo. È il «nostro coinquilino essenziale», ha scritto Tabucchi. Lo interroghiamo senza ricevere risposte. Non sappiamo se lo stiamo attraversando o se è lui ad attraversarci. Per secoli, gli artisti hanno provato a sconfiggere questa divinità. Per loro, infatti, dipingere un quadro o scolpire una scultura è innanzitutto un modo per edificare un monumentum aere perennius: per sottrarsi all’inesorabile destino terreno. A orientare le loro opzioni è l’idea secondo cui il creatore rimane un «errore biologico» rispetto alla creazione. «Ars longa, vita brevis».

Poi, è accaduto qualcosa. Ed è qualcosa che viene documentato in un affascinante progetto, curato da Jennifer Mundy, disegnato dallo studio ISO, per iniziativa della Tate Modern di Londra e di Channel4, con il supporto dell’Arts & Humanities Research Council. È un ghost museum. Non ha nulla in comune con i consueti siti dei musei, che si limitano a esibire il loro patrimonio. È un archivio immaginario, impossibile. E, insieme, un catalogo in divenire, che, settimanalmente, verrà arricchito. Si chiamaGallery of Lost Art, e vive solo nella Rete. Seleziona significativi momenti dell’«arte fantasma» del XX secolo. Vi scopriamo opere che tutti conosciamo, ma che non si possono più vedere, per varie ragioni. Sono opere che «esistono» solo nelle fotografie o grazie a racconti e testimonianze. In filigrana, si possono intuire gli echi di un’epica segreta: ogni «tassello» di questo museo virtuale suggerisce spy stories, stimolando narrazioni e affabulazioni.

Basta collegarsi al sito http://www.galleryoflostart.com, per assistere alla riproposizione della scenografia del film Dogville di Lars Von Trier. Lì gli attori si destreggiavano in una piccola città dove i quartieri erano demarcati da linee bianche. Il medesimo artificio ritorna nella Gallery of Lost Art. Dapprima, possiamo guardare dall’alto un lungo tavolo, simile a quelli che si trovano nei laboratori di restauro. Possiamo andare in ogni direzione, senza preoccuparci di cronologie e di gerarchie. Sul tavolo, tanteminiature. Poi, ci avviciniamo. È allora che la prospettiva cambia. E, grazie a zoomate, possiamo scegliere una delle opere custodite nel museo dell’Arte perduta. Ciascuna «figurina» è accompagnata da puntuali testi critici. In un’ideale flânerie, incontriamo, tra gli altri, Braque e Duchamp, Tatlin e Schwitters, Miró e de Kooning, Beuys e Bacon, Freud e Baldessari, Haring e Buren, la Emin e la Withread.

La Gallery of Lost Art raccoglie quel che nessun museo del mondo potrà mai esporre: dipinti perduti, distrutti o rubati, sculture di cui si è persa ogni traccia, installazioni andate a fuoco, lavori censurati, creazioni disperse durante le guerre. E, soprattutto, opere pensate per non essere «tramandate».

Dinanzi a questo materiale, siamo invitati a riflettere sul diverso rapporto intrattenuto dagli artisti del Novecento con il tempo. Che viene inteso non più come dimensione da superare, vincere, o addirittura cancellare. Ma come geografia da abitare. Per curvarsi su quella imprendibile divinità che è Chronos, molti sperimentatori del XX secolo spesso si affidano a gesti tesi a varcare la soglia classica della cornice e a violare la specificità dei generi artistici. Sorretti da un profondo cupio dissolvi, si sottraggono alla fascinazione del «respiro lungo». Concepiscono le loro architetture immaginarie come territori sensibili all’irruzione del vissuto, plasmate da quello che, con Foucault, potremmo chiamare il «pensiero del fuori»: recinti dove si determina la convergenza tra l’anima e le forme, tra il linguaggio e la vita, tra il metodo e il caos.

Nel rimandare a questi passaggi, la Gallery of Lost Art si fa specchio di un secolo che ha sospeso parole d’ordine «definitive» come progresso, trascendenza, verità e assoluto, per offrirsi come non-sistema, governato da indeterminazione, provvisorietà, parzialità, desiderio di istantaneità. Un secolo che, nella storia dell’arte, è stato costellato di alcune permanenze, e anche di tante dimenticanze. Da un lato, sculture e quadri che, in linea con la tradizione, vogliono «rimanere» ed essere ammirate dalle generazioni future. Dall’altro lato, installazioni, performance e multipli che — feticci moderni — scelgono di «svanire».

La Gallery of Lost Art è proprio questo: un défilé di feticci moderni. Innanzitutto, ci imbattiamo in prototipi ormai leggendari: opere fondate sulla centralità dell’atto ideativo-concettuale, di cui esistono solo repliche (in molti casi, si sono smarriti i modelli originali). Si pensi a Fountain di Duchamp,matrice di tutti i «concettualismi». Un igienico capovolto, trasformato in fontana o, per dirla con Apollinaire, in un «Buddha della stanza da bagno»: un ready made esposto nel 1917 e mai più ritrovato. Poi, ammiriamo alcune sculture «irreperibili»: come la fragile Paper sculpture construction di Braque (del 1914) e il Monumento alla Terza Internazionale di Tatlin (del 1919). E ancora: installazioni site specific, andate distrutte: come il Merzbau di Schwitters. Un ambiente in cui sono accatastate reliquie private. Una scultura incompiuta, non-finita, fatta di cascami accumulati dall’artista nella sua casa di Hannover, tra il 1924 e il 1932: un’opera aperta, interrotta, distrutta e ricostruita per tre volte (ad Hannover, in Norvegia e nel Westmoreland).

Poi, in un’immaginaria sala, sono radunati i quadri «irrintracciabili»: un dipinto di de Kooning (1950), l’omaggio di Freud a Bacon (1952), il collage Creation Project di Baldessari (1970). Siamo all’epilogo: i lavori spariti in seguito a eventi improvvisi, come la tenda di Tracey Emin, distrutta nel 2004 dopo l’incendio del deposito dove era conservata parte della collezione Saatchi. La lista potrebbe estendersi ulteriormente, accogliendo le provocazioni «effimere» dei protagonisti di movimenti come fluxus, happening, azionismo, graffitismo; gli esercizi sonori di John Cage; i wall drawings di Sol LeWitt, progettati per essere imbiancati subito dopo la chiusura delle mostre. Ad accomunare molte tra queste voci d’avanguardia è una necessità: realizzare creazioni destinate a «sfumare» nel nulla.

La Gallery of Lost Art dunque mette insieme opere che si sottraggono alla «lunga durata» (per un gioco del caso o per decisione dei loro autori), ma sceglie anche di non farsi ingabbiare nella «lunga durata»: nel 2013 il sito chiuderà. Forse, proprio per assecondare il bisogno sotteso a molte costruzioni contemporanee: non lasciare tracce. Per restare solo come meravigliosi simulacri. Miti di un secolo di mitologie declinanti.

A Miami un museo dedicato al sesso

giugno 17, 2012
Damiano Laterza per “Il Sole 24 Ore
  • A South Beach il sesso è ovunque: corpi eccentrici in bella mostra dentro club e alberghi eleganti, eventi vistosi e una scena fiorente di baccanali ben assortita. A prima vista non c’era molto bisogno di una singola attrazione che comprendesse tutta questa allegra decadenza – l’essenza stessa della vita di un porto di mare col clima sempre mite, dove l’efficienza nordamericana incontra la lascivia del sud – in un unico pacchetto.

Eppure l’apertura – avvenuta quasi in sordina, nel 2006 – del World Erotic Art Museum (WEAM) si è pian piano rivelata un potente moltiplicatore dei fatturati della locale industria turistica e della qualità dell’offerta di attrazioni bizzarre (come il costume americano richiede). Su TripAdvisor, il celebre sito in cui i turisti recensiscono (spesso in maniera ipercritica) le mete dei propri tour, molti viaggiatori (soprattutto europei) arrivano a scrivere che una visita al WEAM «vale da sola il viaggio negli USA».
Il World Erotic Art Museum non attira soltanto hipsters ma anche artisti e turisti di massa; pensionati e studiosi.
Cosa rende questo museo di 12 mila metri quadri e 4 mila manufatti in esposizione permanente il più insolito e indiscreto.
Semplicemente, un nome: Naomi Wilzig. Che è la fondatrice/proprietaria/curatrice della piccante pinacoteca ed è una nonnetta di quasi ottant’anni, di origini ebree ortodosse, vedova di un magnate di Wall Street sopravvissuto ad Auschwitz, già accreditatasi, in passato come la massima collezionista di belle arti erotiche d’America.

 Naomi dimostra una vera e propria vocazione, ha trascorso la vita a viaggiare e a raccogliere oggetti che esprimessero la storia dei costumi sessuali attraverso i secoli e i popoli. A un certo punto si è resa conto che la sua dimora, per quanto imponente, non era più in grado di contenere neanche uno spillo e dunque ha deciso che era il momento di mettere ordine al tutto, rendendolo per l’occasione fruibile al grande pubblico.

Situato al secondo piano di Palazzo Kress, questo spazio – che una volta era lo studio di registrazione del rapper dai testi a luci rosse Luther Campbell – oggi è un vivace luogo di ritrovo esoterico dove la musica ambient, i nerboruti agenti della sicurezza, i pregevoli e secolari dipinti, le fusioni in bronzo, gli arazzi, gli acquerelli, i manifesti, le sculture, i cimeli dello spettacolo e persino i prodotti dell’arte erotica giudaica creano un’esperienza davvero insolita. La dimostrazione lampante che l’XXX fa parte della cultura umana. Una serie di saloni a tema (le collezioni sono divise per provenienza geografica ma ci sono anche sale dedicate ai movimenti artistici più influenti) conducono i visitatori al conseguimento di una laurea in delizie pruriginose, poiché il tutto è farcito da un sistema di illuminazione riposante che restituisce i toni sommessi di una biblioteca universitaria. Gli orari d’apertura generosi garantiscono una folla conviviale fino a tarda sera e offrono ai turisti un tempo più che sufficiente per soffermarsi sulla monumentale raccolta, pensata per essere la più vasta ed esaustiva del suo genere. Accanto ad ogni pezzo, poi, una targa riporta ricche informazioni per esaudire ogni tipo di curiosità. Le gente si sofferma a leggere con attenzione.

Tuttavia la vera chicca è incontrare la Wilzig in carne e ossa. Lei ama quello che sta facendo e si vede. In genere la trovate al museo quasi tutti i giorni, che si mette ad accompagnare personalmente i gruppi o anche qualche coppietta in luna di miele.
La mostra include veri e propri cult come il set di ceramiche falliche utilizzate da S. Kubrick in “Arancia meccanica” o un acquerello rarissimo degli anni ’30 riproducente Josephine Baker con un gonnellino fatto di banane. E, ancora: statuette d’avorio cinese, un vecchio letto tedesco “per gay” (non vi diremo com’è fatto), cimeli di Roma antica, gingilli vittoriani, statuette della fertilità africane, i manifesti originali del libro scandalo “Sex” di Madonna.
Nel novembre del 2011 il museo si è consacrato definitivamente agli occhi della critica e del pubblico più esigente con un’eccezionale esposizione delle incisioni erotiche di Rembrandt (1609-1669), per la prima volta raccolte tutte assieme – si tratta di 20 acqueforti conosciute da secoli dai collezionisti, ma raramente viste dal pubblico. Rembrandt inscena incontri sessuali in modo suggestivo, ma senza ambiguità.

World Erotic Art Museum 
1205 Washington Avenue
Miami Beach, FL 33139 (USA)
Monday – Thursday: 11AM – 10PM
Friday – Sunday: 11AM – Midnight
(Under 18 years old not admitted)
www.weam.com

Le 5 pagine della letteratura sui cocktail

giugno 4, 2012

Ernest Hemingway and F. Scott Fitzgerald

Francesco Longo per “Il Corriere della Sera

Lucidi banconi di bar in penombra, camerieri riservati, party indimenticabili. Nelle pagine di alcuni grandi scrittori non si fa altro che ordinare e sorseggiare drink. A volte, è sufficiente sapere in che modo urtano i bicchieri di un brindisi per intuire se una storia d’amore sta nascendo o se sta tramontando. Le coppe piene di bollicine producono un bel suono, oppure si sfiorano in modo impercettibile. La letteratura ha celebrato i cocktail e gli scrittori ne hanno fatto largo uso, sia nella vita che nelle loro pagine.

Le bottiglie di whisky e di scotch si collezionano, quelle di champagne si versano, quelle di birra cinese si ordinano due alla volta. Alcuni personaggi letterari sono rimasti nella storia a forza di scolare bourbon con ghiaccio, Calvados, o Mojito, e nelle frivole chiacchiere delle feste esclusive non è raro che si discuta della ricetta perfetta per preparare un Martini o un Daiquiri.

Si sono sbronzate tutte le vecchie e le nuove generazioni perdute. Hanno mandato giù alcol tutti i grandi corteggiatori tenebrosi, si sono ubriacati tutti i detective malinconici — per alleviare la solitudine — e si è brindato all’infinito, con leggerezza, magari accennando a qualche passo di swing, per onorare epoche scintillanti e sempre sul punto di svanire. Dolci come un Bellini, secche, o molto secche, le trame dei romanzi hanno trovato a volte la stessa inafferrabile alchimia di un cocktail eccellente: proporzioni dosate con saggezza, cura degli ambienti, temperatura giusta.

Ernest Hemingway,
Di là dal fiume e tra gli alberi
«”Fammi un Martini molto secco”, disse il colonnello».

Tutto ha inizio con Ernest Hemingway. O forse con Francis Scott Fitzgerald. Più probabilmente però, tutto deflagra quando i due si incontrarono a Parigi, e Zelda, la moglie di Fitzgerald, ha sempre postumi di sbornie da smaltire; mentre i due scrittori mandavano giù un whisky al limone dopo l’altro, e parlavano di romanzi letti e di quelli da inventare.

Tutta la narrativa di Hemingway è innaffiata di alcol. Così come la storia dei cocktail deve molto all’immaginario costruito nei suoi romanzi.

Nei suoi libri si beve sempre. In Di là dal fiume e tra gli alberi si esagera spesso: «Bevevano un negroni, un miscuglio di due vermouth dolci con selz». Si beve controvoglia: «Il colonnello prese il bicchiere che Arnaldo, il cameriere dall’occhio di vetro, gli aveva preparato. Non ne aveva voglia e sapeva che gli faceva male». Ma si beve soprattutto Martini: «Ragazzo, come ti chiami? Giorgio? Un altro Martini. Secco, molto secco e doppio». In una Venezia grigia, col Canal Grande ancora più grigio dei palazzi spettrali, in una luce invernale buona solo per ammuffire, non resta che sognare la caccia alle anatre, e bere: «”Vuoi anche tu unMartini secco?”. “Sì” disse. “Volentieri”. “Due Martini molto secchi” disse il colonnello. “Montgomery. Quindici a uno”. Il cameriere, che era stato nel deserto, sorrise e scomparve».

Francis Scott Fitzgerald,
Belli e dannati
Belli e dannati, belli e innamorati, belli e ubriachi. Per condurre uno stile di vita elegante e inimitabile bisogna sempre avere a portata di mano — giorno e notte — un cocktail adatto. È questa le regola ferrea di Francis Scott Fitzgerald e delle sue storie. In Belli e dannati bere è sinonimo di frivolezza e divertimento. Non c’è niente di meglio di un cocktail per scaldare le serate e sciogliere le ragazze: «Salirono a casa sua e Anthony fece scorrere il tavolino a scomparsa degli alcolici, scegliendo vermouth, gin e assenzio come stimolante perfetto all’occasione». Geraldine si accoccola sul divano. «”Ma ogni giorno bevi qualcosa e hai solo venticinque anni. Non hai ambizioni? Non ti chiedi come sarai a quarant’anni?”. “Spero francamente di non vivere tanto a lungo”. Lei schioccò la lingua. “Che maa-atto!”, gli disse mentre lui preparava un altro cocktail».

L’educazione sentimentale è a base di alcol: «Lui che non aveva mai bevuto più di un paio di cocktail o mezzo litro di vino per serata, imparò a bere da autodidatta come avrebbe potuto imparare il greco». Le ragazze divine, raffinate, coi loro cappellini e i guanti, stelle del fox-trot, sono creature affascinanti e disilluse e non sanno quasi mai resistere. I risultati infatti non mancano: «Dopo il quinto cocktail lui la baciò, e tra risate e giocose carezze e un accesso di passione mezzo soffocato, passarono insieme un’ora».

Graham Greene,
Il nostro agente all’Avana
Fuori, la luce del sole scende perpendicolare e le onde dell’Atlantico spruzzano di nebbiolina i parabrezza delle auto. Dentro, nei locali, c’è sempre una semioscurità che contrasta il caldo di Cuba. Nei locali dai nomi evocativi, il Wonder Bar, il Seville-Biltmore, il Cha Cha Club o il Tropicana (con palme e ballerine sensuali) si mandano giù numerosissimi e zuccherosi daiquiri.

Il nostro agente all’Avana di Graham Greene, uscito nel 1958, è un omaggio al cocktail a base di rum: il daiquiri. Il rappresentante di aspirapolvere, Jim Wormold, si ritrova a far parte dei Servizi segreti inglesi. L’alcol scandisce il tempo, i capitoli si aprono così: «Era l’ora del daiquiri, e nel Wonder Bar il dottor Hasselbacher si stava gustando il suo secondo scotch». Il daiquiri è «rilassante», è «gelido», sana e nuoce: «Mandò giù il daiquiri troppo in fretta e quando uscì dall’Habana aveva gli occhi che gli dolevano».

In una Cuba afosa, coi gabbiani che rigano i tramonti, e notti umide, Jim Wormold finisce nel paradiso di ogni bevitore: «All’Habana Club tutte le bevande a base di rum sono gratis». Attenzione però. Quando in scena ci sono spie, nei bicchieri si possono nascondere dei veleni.

Charles Bukowski, Pulp
E il lato riflessivo e amaro delle bevute letterarie? Lo incarna Charles Bukowski. Niente calici in aria, niente party. Nel romanzo Pulp l’alcol serve per addolcire l’asprezza della vita. L’investigatore protagonista del romanzo si infila nei locali, si siede sugli sgabelli alti, manda giù bicchieri. «”Be’ Eddie, smettila di pensare e vedi se riesci a prepararmi una vodka doppia con acqua e qualche goccia di limetta”. “Non abbiamo limette.” “Sì che le avete, ne vedo una da qui”. “Quella limetta non è per lei”. “Ah, sì? Per chi è? Per Elizabeth Taylor? Senti se stanotte vuoi dormire nel tuo letto mi dai quella limetta. Nel mio drink. Subito”. “Ah sì. Che cosa hai intenzione di fare? Di chiamare l’esercito?”. “Un’altra parola, ragazzo, e avrai qualche problema di respirazione”. Mi guardò per decidere se vedere le mie carte oppure no. Batté le palpebre, poi, ragionevolmente, si allontanò e si mise a prepararmi il drink. Lo osservai attentamente. Niente trucchi. Me lo portò. “Stavo scherzando, signore, non accetta uno scherzo?”. “Dipende da come viene detto”. Eddie si allontanò di nuovo, si fermò all’estremità opposta del banco. Alzai il bicchiere, lo scolai. Poi tirai fuori una banconota, presi la limetta e gliela spremetti sopra».

Come tutti i grandi detective di Los Angeles, nelle attese tra i pedinamenti, tra sigari, matrimoni falliti e insegne a neon, non resta che bere. Qui con nostalgica ironia: «Ho avuto un’infanzia infelice. Due bottiglie alla volta riempiono un vuoto che ha bisogno di essere colmato. Forse. Non ne sono certo».

Bret Easton Ellis, Glamorama
«Con una tale quantità di Xanax in corpo è molto facile concentrarsi unicamente sulla preparazione di un Cosmopolitan. Non pensi ad altro mentre versi succo di mirtillo, Cointreau e vodka al limone in uno shaker pieno di ghiaccio che hai tritato personalmente poi prendi un lime e lo affetti, spremi il succo dentro lo shaker e usi un colino per versare il cocktail dentro un enorme bicchiere da martini».

Più le società si fanno complesse più l’angoscia dilaga. L’alcol non basta più, meglio mandare giù, con lo champagne, anche una pasticca di Xanax. Lo scrittore che ha raccontato meglio l’abisso della società americana è Bret Easton Ellis. Il serial killer di American Psycho ordinava J&B e beveva trenta litri d’acqua al giorno: placava la follia e teneva in forma il fisico.

In Glamorama, ambientato nel mondo della moda, bere drink pone il problema di essere trendy. «”Cosa stai bevendo?” Chiede Jamie, togliendole il bicchiere di mano. “Posso assaggiare?” “Rum, tonica e succo di lime”, dice Tammy. “Abbiamo sentito dire che è il nuovo drink del decennio”. “Il nuovo drink del decennio?” mugola Bentley. “Che schifo. Quale disgustoso individuo può aver detto una cosa simile di questo meschino cocktail da due soldi?” “Stella McCartney” dice Tammy. “Oh, Stella è stupenda”, dice Bentley, raddrizzandosi. “Adoro Stella — ooh, fammelo assaggiare”. Poi schiocca le labbra. “Oddio — Stella ha ragione. Questo tesorino è il nuovo drink del decennio. Jamie — allerta i media. Qualcuno acchiappi al volo un pubblicitario”».

La nuova arte degli anni 10, Israele reinventa se stesso

giugno 1, 2012

Gianluigi Colin per “Il Corriere della Sera

Una grande opera di Kapoor a forma di clessidra accoglie il visitatore del nuovo Israel Museum di Gerusalemme. L’acciaio, lucidato a specchio, riflette il paesaggio capovolto delle dolci colline della Giudea dove, nel Billy Rose Art Garden, tra il profumo di rosmarino, si affacciano come epifanie le bellissime sculture di Rodin, Oldenburg, Calder, Picasso, Moore… Quasi una metafora di questa terra dove il tempo appare sospeso: da una parte ancorato ai richiami della tradizione e al tempo stesso proiettato con determinazione verso modernità e innovazione. E questo museo (che tra l’altro ospita l’importante collezione Dada di Arturo Schwarz e che da due anni ha completato un imponente ampliamento) ne è forse la sintesi più profonda e spettacolare.

Il 2012 in Israele è l’anno dell’arte. L’occasione è il rinnovo in contemporanea dei tre «templi» della cultura di Tel Aviv: la Cinématheque, il Teatro Nazionale Habima, il Museo d’arte. In più è sorto il nuovissimo Museo del design di Holon. Le celebrazioni sono iniziate a marzo: visite gratuite ai musei, performance in tutta la città, concerti, proiezioni, balletti, spettacoli teatrali. Giorno e notte. D’altra parte, Tel Aviv, «la città che non dorme mai», deve difendere la sua fama. Ogni giovedì le gallerie d’arte restano aperte fino a tarda notte e da poco si è conclusa la quinta edizione della Fresh Paint la popolare e affollatissima fiera mercato di arte contemporanea. Infine, c’è il progetto più ambizioso: «Tel Aviv Global City». L’idea di una città internazionale, capitale di energie aggregate, di nuove economie, di esperienze trasversali.

Insomma, in questo paese complesso e tormentato, in cui convivono contraddittorie identità (esasperate ortodossie e totali libertà sessuali) è davvero stupefacente osservare la forza con la quale si sta affermando un laboratorio culturale in grado di confrontarsi con le grandi capitali del mondo.

Menashe Kadishman è il grande padre dell’arte israeliana. Nella sua casa atelier densa di sculture, quadri, giornali, c’è tutto il suo universo: le piccole tele con le pecore e le teste di ferro arrugginite, le stesse che compongono l’installazione al museo della Shoah di Berlino: «La situazione sociale in Israele, tra la guerra e la pace, ha influenzato l’arte. Ma l’arte non può cambiare il mondo, come invece può fare la politica. L’arte può attenuare i dolori». Kadisman parla sottovoce, è provato, stanco, ma sorride, sereno. Porta una camicia con i bottoni rovesciati: «Solo quando ci sarà davvero la pace li metterò dalla parte giusta». E aggiunge: «Nel mondo globalizzato non è importante dove l’artista vive. Ma vivere in Israele, come israeliano, significa vivere con un virus di identità esistenziale, senza la possibilità di liberarsene. Perché Israele è il risultato della storia ebraica».

E se Kadishman è il padre dell’arte israeliana, sicuramente Adi Nes, è oggi la voce più giovane e affermata della fotografia d’arte: «In Israele la realtà ti conduce a mille suggestioni. È densa di riferimenti storici, è un luogo che concentra mille problematiche, dalle minoranze alla guerra. Normalmente gli altri artisti devono cercare questi temi fuori dallo loro esistenza. Per chi vive in Israele è paradossalmente semplice: tutto è parte della vita di tutti i giorni».

Adi Nes è l’autore di un’immagine che ha creato molte polemiche: ha fotografato un gruppo di soldati disposti come nell’Ultima cena di Leonardo. E al centro, uno di loro con la sigaretta, destinato a morire. Adi Nes rappresenta uno dei simboli della Nouvelle Vague dell’arte israeliana (e con lui un altro fotografo come Pavel Wolber o il giovane scrittore Etgar Keret). Adi Nes racconta le identità di un popolo attraverso immagini ricche di valenze simboliche con pathos e una certa dose di provocazione. In questi giorni una sua mostra nella galleria Sommer di Tel Aviv: The Village, il presente attraverso citazioni bibliche. I personaggi delle sue foto sono stati scelti su Facebook: «Qui, come nelle mie opere c’è insieme il passato, il presente e anche il futuro». In fondo, lo spirito di Israele.

Già, il futuro: la cultura cambia la percezione della realtà: a Tel Aviv, patrimonio mondiale dell’Unesco per le sue architetture Bauhaus, l’artista di strada Rami Meiri viene invitato a dipingere sui muri di quartieri degradati e da riqualificare. Un esempio preciso dell’energia e della vivacità diffusa nella «Città Bianca », come viene abitualmente chiamata Tel Aviv. Come dire: anche qui, come a New York, Berlino o Milano, l’universo dell’arte aiuta a ricostruire la città.

La città non si ferma mai e continua a crescere come una factory infinita. E lo conferma, ad esempio, anche la scelta di Ermanno Tedeschi di aprire (dopo Torino, Milano e Roma) una nuova galleria proprio nel quartiere più trend di Tel Aviv: «C’è qui una energia davvero speciale, una autentica voglia di scoprire e di conoscere. Il mio progetto è semplice: costruire un ponte su culture diverse».

Tanto per dare l’idea di com’è il rapporto con il mondo dell’arte, qui le gallerie vengono chiamate pitriot, ovvero «funghi» in ebraico, per sottolineare la velocità con cui si moltiplicano in città. Ma non solo gallerie. Destinato a diventare il tempio della fotografia in Israele, lo Shpilman Institute for Photography, creazione del grande collezionista Shalom Shpilman, ha aperto i battenti in questi giorni al sud di Tel Aviv, e inaugurato una prima mostra internazionale titolata Luma.

E infine, a pochi passi dal deserto appena fuori Tel Aviv, nella cittadina di Holon, è appena sorto un tecnologico Museo del design: una specie di astronave rossa con grandi fasce circolari (realizzate da acciaierie di Bergamo). Un museo che solo nella sua veste racconta che il futuro è qui, a portata di mano. Tra esperienze del design israeliano (con un avveniristico laboratorio di ricerca sui tessuti) e mostre dedicate a grandi designer e stilisti internazionali (la prossima sarà del giapponese Yohji Yamamoto), il museo rappresenta l’esperienza più significativa del rapporto cultura, economia e qualità della vita di una città: questa zona era il regno pericoloso di giovani gang, ora la gente vuole venire a vivere qui. E se alcuni personaggi famosi la sanno lunga sulle tendenze del costume, non è un caso che Madonna (e altri protagonisti dello star system) abbiano acquistato casa a Tel Aviv nel quartiere di Neve Tzedek, oggi diventato uno dei piu costosi al mondo: 20 mila euro al metro quadro. Dieci anni fa ne costava solo mille.

L’intreccio tra architettura, design, arte e trasformazione della percezione di una città sta racchiuso nel nuovo museo d’arte di Tel Aviv, inaugurato nel novembre dello scorso anno, come ampliamento di quello del 2004: «Fino a poco tempo fa all’estero Tel Aviv era vissuta come un luogo pericoloso. Oggi non è più così, e una città viva, dinamica, una vera capitale della cultura. Lo dimostrano le nostre collezioni e le nostre mostre: abbiamo il dovere di farlo sapere», dice Shuli Kilev, direttrice operativa del museo. La «Città Bianca», con i suoi ragazzi con il surf sottobraccio, con le sue innovazioni, col suo spirito libero, laico, edonista sta dunque cambiando ancora pelle? La forza dell’arte sta facendo un miracolo? Forse la risposta sta nelle parole di Amos Oz che ricorda un vecchio detto ebraico: «Se non credi nei miracoli, significa che non sei abbastanza realista».
(Ha collaborato Ariela Piattelli)

SE FOSSE PIENO DI BUCHI COME UN FORMAGGIO SVIZZERO

Maggio 31, 2012

albert einstein

John D. Barrow per “la Repubblica”

Negli anni Quaranta lo studio degli universi subì una brusca battuta d´arresto. In clima di guerra mondiale, fisici e matematici furono dirottati verso campi come la messa a punto di nuove armi, la meteorologia, l´aeronautica e la crittografia. Le università non accettavano nuovi studenti e i contatti internazionali erano limitati soltanto ai più stretti alleati. Einstein si trovava negli Stati Uniti e molti altri scienziati tedeschi fuggirono in Gran Bretagna e America. L´universo non era mai parso più piccolo.
Nel 1944, Einstein scelse un nuovo assistente a Princeton. I suoi assistenti erano sempre giovani matematici di talento capaci di compensare quella che lui stesso riconosceva essere una sua debolezza in quel campo. Ernst Straus era una sorta di genio matematico. Già a cinque anni aveva cominciato a trovare interessanti scorciatoie per calcolare sequenze numeriche, escogitando un sistema che gli consentiva di sommare i primi cento numeri mentalmente in pochi secondi. Era nato a Monaco nel 1922, ma quando i nazisti andarono al potere, nel 1933, fuggì con la famiglia in Palestina, dove poi frequentò il liceo e l´Università ebraica di Gerusalemme. Non conseguì la laurea di primo grado a Gerusalemme, tuttavia nel 1941, a diciannove anni, si trasferì alla Columbia University di New York e iniziò lo stesso un corso di specializzazione.
Nel 1944 fu assunto come nuovo assistente alla ricerca di Einstein all´Institute for Advanced Studies di Princeton. Il giovane Straus non aveva una solida preparazione in fisica e, quanto alla matematica, era orientato verso la teoria dei numeri e gli argomenti di matematica “pura”, ma non impiegò molto a riempire il vuoto lasciato dalla partenza di Nathan Rosen (1935-1945) e Leopold Infeld (1936-1938). Nella primavera del 1945, professore e assistente trovarono un nuovo tipo di possibile universo usando le equazioni di Einstein. L´universo era molto simile a uno dei semplici universi in espansione di Friedmann e Lemaître: conteneva materia (come galassie) che non esercitava alcuna pressione, ma presentava regioni sferiche vuote, come buchi in un formaggio svizzero.
Ciascun buco vuoto aveva poi al suo centro una massa, di grandezza pari a quella che era stata scavata per creare il buco. Era un passo verso un universo più realistico in cui la materia non fosse diffusa in maniera omogenea con la stessa densità dappertutto, ma formasse grumi, come le galassie, distribuiti nello spazio vuoto.
Ciascun “buco” era sferico e questo nuovo universo formaggio svizzero era accolto nell´universo non uniforme di Tolman grazie a una scelta adeguata di condizioni iniziali. Come sempre, la scoperta di una soluzione esatta a una serie di equazioni complesse e difficili come quelle di Einstein significava con tutta probabilità una cosa: nella soluzione vi era qualche caratteristica semplificatrice che rendeva le equazioni trattabili. Però questo ricordava la famosa battuta di Groucho Marx, «Non desidero far parte di un club che accetta fra i soci uno come me»: qualunque soluzione delle equazioni di Einstein sia abbastanza semplice da trovare, conterrà immancabilmente una caratteristica speciale che potrebbe renderla atipica o poco interessante.
La soluzione di Einstein e Straus era semplice perché prevedeva un universo sferico e così, diversamente da quanto accadeva con l´universo cilindrico di Einstein-Rosen, escludeva la possibilità che fossero presenti onde gravitazionali. Questo indusse qualcuno a chiedersi che cosa sarebbe accaduto se si fosse riusciti in qualche modo a combinare simultaneamente tutti i vari tipi di irregolarità. La presenza di tutte quelle caratteristiche irregolari avrebbe naturalmente fatto sfumare qualsiasi speranza di risolvere le equazioni di Einstein. Tuttavia c´era un modo per dare un´occhiata a un simile universo.

Diritti Globali

“Cara Maria”, “Pier Paolo mio”: Pasolini-Callas

Maggio 27, 2012

Paolo Mauri per “la Repubblica”

Quando Maria Callas incontrò Pier Paolo Pasolini per girare Medea era una diva secondo alcuni ormai sul viale del tramonto, ma ancora in primissimo piano come personaggio da rotocalco. L´armatore greco Onassis, con cui aveva vissuto per nove anni, l´aveva lasciata per sposare la vedova Kennedy con uno sciame di pettegolezzi praticamente infinito. «Nove anni di sacrifici inutili», aveva commentato lei. L´incontro con Pasolini era stato propiziato da Franco Rossellini che con Marina Cicogna avrebbe prodotto il film: la Callas poteva essere un´ottima Medea e naturalmente un formidabile aiuto per un successo internazionale. Pasolini non era mai stato un frequentatore di teatri d´opera. Aveva visto un Trovatore a Bologna, quando aveva diciotto anni e non si era entusiasmato. Molti anni dopo, un Rigoletto visto a Caracalla con Ninetto Davoli gli era piaciuto, ma questo non cambiava niente. Nico Naldini dice che confondeva Cherubini con Boccherini.
Gli piaceva la musica classica che ascoltava in casa sua o da Elsa Morante che aveva una discoteca molto ben scelta, ma molto meno l´opera. Comunque della Callas voleva tutto meno la cantante o la diva: gli era piaciuto il viso, che rimandava a una realtà contadina primigenia, un viso addolcito dai trascorsi borghesi, ma molto intenso e vero. Pasolini disse a un certo punto che la Callas aveva la stessa verità di un Franco Citti preso dalla strada, come se dalla strada e non dal palcoscenico venisse anche lei. L´avrebbe ripresa con dei lunghi primi piani, mentre lei, che aveva avuto come regista anche Visconti, era abituata a stare in scena con il pubblico a una certa distanza. Le avrebbe spiegato la differenza tra il cinema e il teatro nella lettera ritrovata ed esposta in questa mostra in casa Testori a Novate, una lettera scritta dopo una giornata di lavoro insieme sul set, quando aveva notato in lei il turbamento per non essere stata pienamente padrona di sé e del suo corpo. «Questo stringimento al cuore lo proverai spesso, durante la nostra opera: e lo sentirò anch´io, con te. È terribile essere adoperati, ma anche adoperare».
Il cinema, le spiega ancora nelle righe successive, è fatto così: una frantumazione della realtà che poi viene ricomposta «nella sua verità sintetica assoluta». Medea fu un film faticoso: le riprese in Cappadocia, che figurava come l´antica Colchide, poi a Grado dove il Centauro ammaestra il giovane Giasone e infine a Pisa nella Piazza dei Miracoli dove, ad onta di ogni plausibilità cronologica, Pasolini aveva posto la Ragione in omaggio a Galileo: la razionale Corinto che si opponeva a Medea. La Callas aveva avuto dalla produzione una cameriera, Bruna, oltre alla sua assistente Nadia Stancioff. Non lasciava mai i suoi due cagnolini. Il rapporto con Pier Paolo divenne intenso: fu più di un´amicizia e a un certo punto, complice una foto scattata in aeroporto dove si vedono i due scambiarsi un bacio sulle labbra, si parlò addirittura di amore. Ne parlarono cioè i rotocalchi e i giornalisti più inclini al gossip e la storia fu ripresa diverse volte. Uno scrittore spagnolo, Terence Moix, la rielaborò e voleva anche farne uno spettacolo.
In realtà si trattava di un amore impossibile, anche se tra i due c´era affetto e profonda confidenza. Pasolini era disperato perché Ninetto Davoli lo stava lasciando per una ragazza. Nell´agosto del ´71 aveva scritto a Paolo Volponi: «Sono quasi pazzo di dolore. Ninetto è finito. Dopo quasi nove anni Ninetto non c´è più. Ho perso il senso della vita. Penso soltanto a morire o cose simili. Tutto mi è crollato intorno: Ninetto con la sua ragazza disposto a tutto, anche a tornare a fare il falegname (senza battere ciglio) pur di stare con lei; e io incapace di accettare questa orrenda realtà, che non solo mi rovina il presente, ma getta una luce di dolore anche in tutti questi anni che io ho creduto di gioia».
La Callas fu messa a parte della tragedia e gli scrisse: «Sono infelice per te, ma contenta che ti sei confidato in me. Caro amico – sono infelice che non posso essere vicina in questi momenti difficili per te – come lo sei stato tu spesso con me. Tu sai bene in fondo che sarebbe andata così. Ti ricordi a Grado in macchina si parlava e con Ninetto di amore e che so io – dentro in me – le mie antenne tu dici – me lo dicevano quando Ninetto diceva che non si innamorerebbe mai – sapevo che diceva delle cose che era troppo giovane per capire. E tu in fondo uomo tanto intelligente – lo dovevi sapere. Invece ti attaccavi anche tu a un sogno – fatto da te solo – perché è così anche se ti addoloro con questa predicuccia piccola…».
Non è la prima volta che la Callas, che si firma «Maria (fanciullina)», si incarica di dire a Pier Paolo cose magari spiacevoli. In una lettera scritta «dalle nuvole» e cioè da un aereo della Olympic Airways in volo per New York, arriva a dirgli che l´amicizia di Alberto Moravia (con il quale lei e Pier Paolo insieme a Dacia Maraini avevano condiviso un viaggio in Africa) non l´ha mai del tutto persuasa. «Sai, caro amico, di veri amici – o veri e basta, pochi ne ho trovati, per non dire nessuno… E ci tengo alla tua verità e sincerità. Siamo assai legati psichicamente – oso dire come raro si fa in vita». Un italiano dalla sintassi bizzarra, chiosa Nico Naldini nella sua Breve vita di Pasolini, «forse appreso nei corridoi dei teatri».
«Assai legati psichicamente»: Maria Callas coglie la profondità di un rapporto che non è semplice amicizia. Per Maria Pasolini riprende a dipingere in modo oserei dire carnale, usando elementi naturali, come il succo dei fiori, per Maria si adatta a fare una crociera con il panfilo di Onassis e a passare una vacanza nella sua isola, per Maria scrive poesie che Enzo Siciliano ha interpretato con finezza nella sua Vita di Pasolini. «La donna è per Pier Paolo “riapparizione ctonia” – riapparizione da un viaggio compiuto in luoghi mai percorsi. La donna torna con una notizia, la notizia del “vuoto nel cosmo” […] In Maria, Pier Paolo – una sera a Parigi (“Parigi calca dietro alle tue spalle un cielo basso/con la trama dei rami neri”) lesse una richiesta d´amore: amore fra donna e uomo. Vi lesse la consueta, antica, donnesca richiesta che l´uomo sia “padre”. Pier Paolo, a quella richiesta, non poteva dare risposta».
Le poesie per Maria figurano in una delle raccolte più problematiche di Pasolini: Trasumanar e organizzar uscita per la prima volta nel 1971. La precedente raccolta, Poesia in forma di rosa risaliva al 1964, dunque Trasumanar è un ritorno alla poesia dopo un lungo silenzio, con la volontà di tracciare alcune linee guida per il proprio scrivere versi. Trasumanar è, come si sa, un verbo dantesco e viene dal primo canto del Paradiso. Trasumanar è andare oltre l´umano, cui segue, nella Commedia, «significar per verba», cioè dare senso attraverso le parole. Pasolini gioca con il dettato dantesco, fino alla parodia («Manifestar significar per verba non si poria») e detta all´Ansa, per gioco, la propria scelta stilistica: «Smetto di essere poeta originale, che costa mancanza/ di libertà: un sistema stilistico è troppo esclusivo./Adotto schemi letterari collaudati per essere più libero./Naturalmente per ragioni pratiche». Andrea Zanzotto colse bene la difficoltà dell´insieme. I critici non si mossero per questa raccolta e Pasolini, provocatorio, si recensì da solo sul Giorno. Ma la poesia più luminosa non è tra quelle per Maria Callas: è una poesia per Ninetto, datata 2 settembre 1969. Si conclude così: «Della nostra vita sono insaziabile/ perché una cosa unica al mondo non può essere mai esaurita».

Diritti Globali

Pier Paolo Pasolini, da “la Repubblica”

Cara Maria, stasera, appena finito di lavorare, su quel sentiero di polvere rosa, ho sentito con le mie antenne in te la stessa angoscia che ieri tu con le tue antenne hai sentito in me. Un´angoscia leggera leggera, non più che un´ombra, eppure invincibile. Ieri in me si trattava di un po´ di nevrosi: ma oggi in te c´era una ragione precisa (precisa fino a un certo punto, naturalmente) ad opprimerti, col sole che se ne andava. Era il sentimento di non essere stata del tutto padrona di te, del tuo corpo, della tua realtà: di essere stata “adoperata” (e per di più con la fatale brutalità tecnica che il cinema implica) e quindi di aver perduto in parte la tua totale libertà. Questo stringimento al cuore lo proverai spesso, durante la nostra opera: e lo sentirò anch´io con te. È terribile essere adoperati, ma anche adoperare.
Ma il cinema è fatto così: bisogna spezzare e frantumare una realtà “intera” per ricostruirla nella sua verità sintetica e assoluta, che la rende poi più “intera” ancora. Tu sei come una pietra preziosa che viene violentemente frantumata in mille schegge per poter essere ricostruita di un materiale più duraturo di quello della vita, cioè il materiale della poesia. È appunto terribile sentirsi spezzati, sentire che in un certo momento, in una certa ora, in un certo giorno, non si è più tutti se stessi, ma una piccola scheggia di se stessi: e questo umilia, lo so.
Io oggi ho colto un attimo del tuo fulgore, e tu avresti voluto darmelo tutto. Ma non è possibile. Ogni giorno un barbaglio, e alla fine si avrà l´intera, intatta luminosità. C´è poi anche il fatto che io parlo poco, oppure mi esprimo in termini un po´ incomprensibili. Ma a questo ci vuol poco a mettere rimedio: sono un po´ in trance, ho una visione o meglio delle visioni, le “Visioni della Medea”: in queste condizioni di emergenza, devi avere un po´ di pazienza con me, e cavarmi un po´ le parole con la forza. Ti abbraccio.

Diritti Globali

STEVE MCQUEEN INEDITO

Maggio 26, 2012

Satisfiction.me

Il 9 agosto del 1969, quattro membri della famiglia Manson uccisero l’attrice Sharon Tate e quattro suoi amici. Tre mesi più tardi fu scoperto che Steve McQueen – un amico delle vittime che, dopo gli omicidi, iniziò a tenere la pistola persino a letto – figurava nella lista di Manson, nota come ‘Lista della morte’, accanto a celebrità come Frank Sinatra, Elisabeth Taylor e Tom Jones.
Steve McQueen, icona dell’uomo senza paura, il simbolo del machismo e della vita spericolata, nell’ottobre del 1970 scrisse una lettera preoccupatissima al suo avvocato, Edward Rubin. Questa lettera viene oggi pubblicata in Italia per la prima volta da Satisfiction.

Gian Paolo Serino

Caro Eddie,

Come sai, sono stato inserito nella lista del Manson come persona da mandare a morte, insieme con Elizabeth Taylor, Frank Sinatra e Tom Jones. In un certo senso lo trovo divertente, e per altri versi spaventosamente tragico. Potrebbe non trattarsi di nulla, ma devo tenere in considerazione che possa essere qualcosa di serio e di dover proteggere sia me stesso che la mia famiglia.

Non appena possibile, ti chiederei se tu potessi controllare e scoprire ufficiosamente da uno dei pezzi grossi della polizia se, anche questo ufficiosamente, tutti i componenti della Famiglia Manson sono stati messi sotto controllo e/o loro pensino che noi possiamo essere in qualche modo in pericolo.

In secondo luogo, ti volevo chiedere se potevi chiamare Palm Springs e far rinnovare il mio porto d’armi, l’ho avuto solo per un anno, e mi piacerebbe rinnovarlo per più a lungo dato che è l’unica cosa che possa far sentire me e la mia famiglia al sicuro, e credo di averne delle buone ragioni.

Ti prego di non lasciare passare troppo tempo prima di fare queste cose, e mi aspetto una tua risposta immediata.

Con i miei migliori auguri,

Steve McQueen

Dove passa Leone Magno non cresce più Attila

Maggio 26, 2012

Papa Leone Magno sul cavallo bianco di fronte a Attila, nell’anno 452, nell’affresco di Raffaello nella Stanze Vaticane

Nella rilettura del card. Ravasi, la leggenda del Papa che nel 452 sbarrò la strada agli Unni. Ma tre anni dopo non riuscì a ripetersi con i Vandali di Genserico

Gianfranco Ravasi, da “La Stampa

Un incubo notturno attraversa l’anima di Attila: sulla via che lo porterà a Roma si erge un vecchio ieratico che gli sbarra il passo. Egli, però, cerca di esorcizzare questa visione angosciosa e si prepara all’attacco. Ma ecco, si leva un inno e un corteo avanza: ad aprirlo è proprio quel vecchio del sogno, il papa Leone Magno, e dietro a lui si profilano due giganti, gli apostoli Pietro e Paolo, che scortano il pontefice e i cristiani. Il «Flagello di Dio» atterrito si prostra nella polvere davanti a quel vecchio, lasciando attoniti gli Unni. Questa scena, come è noto, suggella il primo atto dell’ Attila verdiano, e idealmente evoca l’impressionante affresco che Raffaello ha dipinto nelle Stanze Vaticane: Leone su un destriero bianco sfida Attila sullo sfondo della Roma imperiale, sotto un cielo tempestoso squarciato da folgori e dall’epifania maestosa dei santi Pietro e Paolo. […]

In realtà, l’evento fu meno «epifanico», ma non per questo meno rilevante. Il biografo contemporaneo di Leone, Prospero di Aquitania, nel suo Chronicon presenta così quell’incontro: «Leone intraprese quella missione confidando nell’aiuto di Dio, sapendo che egli non viene mai meno nelle difficoltà dei suoi fedeli. La sua fede non fu smentita. Attila ricevette la legazione con grande dignità e si rallegrò talmente della presenza del Sommo Pontefice da decidersi a rinunciare alla guerra e a ritirarsi al di là del Danubio, dopo aver promesso la pace».

Era l’anno 452. Gli Unni, pastori trasformati in feroci guerrieri sotto la guida di Attila, dopo aver premuto sull’Impero d’Oriente avevano deciso di dilagare in Occidente, puntando sull’Italia, ove, dopo aver distrutto Aquileia, si indirizzarono verso Roma. Fu allora che l’imperatore d’Occidente Valentiniano III decise di ricorrere al negoziato e inviò una delegazione presieduta appunto dal papa Leone. Il contatto avvenne sulle sponde del Mincio, non lontano da Mantova. Attila optò a sorpresa per l’abbandono di quel grandioso progetto militare e politico e lo fece probabilmente per ragioni strategiche realistiche. Ma l’eco che ne seguì avvolse Leone in un’aureola gloriosa, anche se dalle 173 lettere del suo epistolario (di esse 30 sono, però, missive a lui indirizzate) non traspare nessun cenno autocelebrativo. Anzi, in una lettera dell’11 marzo 453 a Giuliano di Chio evoca solo «i mali che Dio ha permesso o voluto che noi soffrissimo».

Ed effettivamente il suo pontificato, uno dei più lunghi della storia della Chiesa, perché durato dal 440 al 461, fu il crocevia di vicende ecclesiali e politiche piuttosto drammatiche e decisive. Ne sono testimoni non soltanto le sue lettere, ma anche i 98 (o 96, secondo altri critici) sermoni di straordinario spessore teologico e storico. Uno studioso, Francesco Di Capua, osserva che «nessun personaggio, forse, del V secolo ebbe, come Leone, piena consapevolezza che la potenza politica e militare della Roma imperiale volgeva inesorabilmente al tramonto, ma nello stesso tempo nessuno ebbe come questo Papa incrollabile la fiducia e netta la visione che la nuova Roma sorgeva, il cui impero sarebbe stato molto più vasto e glorioso di quello antico. La nuova Roma cristiana, fondata sugli apostoli Pietro e Paolo, prendeva per volere divino il posto dell’antica Roma pagana, fondata su Romolo e Remo». Proprio per questi due profili gli interpreti della figura di Leone Magno, morto il 10 novembre 461, data che divenne la sua festa liturgica, ne hanno disegnato un ritratto maestoso ma complesso.

Essendo vissuto sul crinale delicato tra l’antica romanità e la nuova cristianità, molti hanno marcato il fatto che i suoi piedi erano ben piantati nel passato. Adalbert F. Hamman non ha avuto esitazione a definirlo come l’«ultimo testimone dell’età patristica e della Chiesa antica». Ancor più esplicito Pierre Batiffol, che lo ha considerato «un Papa del vecchio mondo, anche se la Chiesa antica non ne ha conosciuto uno né più completo, né più grande». E più sistematico nel dimostrare questa collocazione è stato Erich Caspar. Basil Studer, invece, ha voluto superare questa concezione che vede Leone come l’erede e il sigillo di un’epoca. Egli appare piuttosto come colui che muove i primi passi lungo un nuovo versante che si allarga sino all’Oriente, e «la pace cristiana e romana» che egli vede sbocciare ha le sue radici nella collaborazione tra sacerdotium eimperium, nei quali egli intuisce la presenza vitale ed efficace di Cristo. […]

Molti altri furono i profili di questo Pontefice, in particolare quelli molto tortuosi riguardanti i contrasti teologici. Famoso è il Tomus , ossia l’ampia trattazione sull’incarnazione di Cristo, che egli inviò al patriarca di Costantinopoli, Flaviano, nel 449, un vero e proprio punto fermo nelle incandescenti controversie cristologiche di quel periodo. Ma nel nostro ritratto leoniano molto semplificato vorremmo riservare un cenno finale solo a un altro evento parallelo, dall’esito però differente rispetto alla scena da cui siamo partiti, cioè l’incontro con Attila.

Il 3 maggio del 455, infatti, si ripresentò la stessa vicenda, anche se con diversi protagonisti. A sorpresa, al porto di Ostia attraccò la flotta di Genserico, il condottiero dei Vandali che dall’originaria Germania si erano attestati in Spagna, Africa, Sicilia e Sardegna. Senza trovare opposizione significativa, essi giunsero alle porte della capitale. Leone, circondato dal clero, decise ancora una volta di ergersi contro l’invasore con la sola forza della sua autorità morale. Genserico, alla porta Portuense, incontrò il Papa, ma gli promise solo di non incendiare la città e di risparmiare gli abitanti. Non volle, però, fermarsi e intimò alle sue truppe il saccheggio di Roma. Tuttavia, furono salvate le basiliche di S. Pietro, S. Paolo e S. Giovanni in Laterano, colme di romani che là ripararono durante la bufera del saccheggio durato due settimane. Sarà ancora Leone a incoraggiare la ripresa della città e il ripristino dei monumenti e delle chiese devastate, compreso il rinnovamento della basilica di S. Paolo, colpita da un fulmine e dal relativo incendio.

Leone Magno – la cui prima raffigurazione è da individuare in un affresco dell’VIII secolo nella chiesa di S. Maria Antiqua incastonata nel Foro Romano (era originariamente un vestibolo del palazzo imperiale del Palatino) – rimane, però, nella memoria tradizionale proprio nella scena che Verdi ha solennemente ricreato nel suo Attila . Egli fu effettivamente il testimone fermo e vigoroso, autorevole e nobile del primato di Pietro, del quale il Papa è erede e successore, e il cantore della grandezza e della dignità della Roma imperiale e cristiana.

L’arca delle arti è in Texas

Maggio 26, 2012

Emanuele Buzzi per “Il Corriere della Sera

C’è un magnete nel cuore degli Stati Uniti. Un luogo dove tutto confluisce, calamitato dai tesori che già lo arricchiscono. In Texas, ad Austin. È l’Harry Ransom Center. Un’Arca di Noè del terzo millennio. Che custodisce manoscritti, foto, film, oggetti di scena, dipinti. Dai contrasti stupefacenti. La fotografia più antica al mondo («Vista dalla finestra a Le Gras», scattata nel 1826 da Joseph Nicéphore Niépce) accanto agli abiti indossati da Robert De Niro ne Gli Intoccabili o agli occhiali di Gloria Swanson nel Viale del tramonto, le carte del Watergate insieme a una Bibbia di Gutenberg.

In un edificio austero, vetro e cemento, nel campus dell’università, sono conservati gli archivi del gotha letterario in lingua inglese degli ultimi duecento anni. Da Edgar Allan Poe a David Foster Wallace. Pezzi unici, come la copia de La terra desolata di T. S. Eliot con la dedica dantesca al «miglior fabbro» Ezra Pound, che perfezionò la stesura dell’opera. Pezzi magici, come le carte dell’illusionista Harry Houdini. Una collezione che aumenta vorticosamente. E che negli ultimi mesi sembra guardare solo ad autori viventi. Dopo essersi assicurati gli archivi personali di J. M. Coetzee e T. C. Boyle, indiscrezioni danno all’orizzonte trattative con altri romanzieri. Thomas Staley, 76 anni, direttore del centro dal 1988 non conferma né smentisce: «Ci sono 40-50 scrittori che stiamo seguendo» (le carriere sotto osservazione, anche blanda, in realtà sono circa 600). Sotto la sua guida, con un centinaio di acquisizioni, il centro ha battuto giganti come Harvard o Yale. Scommettere su quali saranno i classici del futuro non lo spaventa. «Stiamo scrivendo una sorta di canone letterario e non è facile — spiega —. Scegliamo narratori che abbiano lasciato un segno sulla loro generazione come DeLillo o Foster Wallace e che crediamo saranno importanti anche per le generazioni a venire». Un circolo virtuoso che si autoalimenta: «Gli scrittori ci donano i loro archivi perché sono contenti che siano conservati qua per via dei materiali che già abbiamo».

Si racconta che Norman Mailer, visitando gli spazi che avrebbero ospitato le sue opere, disse: «Mi sembra perfetto. Tanto prima o poi tutti finiamo in scatole». «Mi sento liberato, mi sento bene — ha scritto Boyle sul blog del “New Yorker” commentando la separazione dalle sue carte —. Ma il sollievo è necessariamente temperato da una fitta di nostalgia». Staley, esperto di Joyce e Svevo, vanta una fama da mastino implacabile nell’inseguire i romanzieri che lo interessano. Con ottimi risultati, ma anche qualche (parziale) insuccesso. Come la rincorsa — per ora vana — a Cormac Mc-Carthy. O come quando, qualche anno fa, sfidò Foster Wallace, con la scusa di fargli visitare il centro, a una partita a tennis, per parlare delle sue carte. Un invito caduto nel vuoto, ma che non ha fermato le sue ambizioni (il centro ha acquisito i materiali dopo la morte dello scrittore). L’istituzione è un universo in espansione. «Non ci soffermiamo solo su scrittori di lingua inglese — racconta —. Tra i contemporanei italiani, per esempio, possediamo le carte di Carlo Coccioli. E non mi dispiacerebbe portare in Texas gli archivi di Umberto Eco».

L’Harry Ransom Center oggi conta 36 milioni di manoscritti, oltre un milione di libri rari, più di centomila tra disegni, stampe, quadri, sculture, 15 mila sceneggiature per film e televisione, un milione di fotografie. Solo nel 2011 ha avuto 66.778 visitatori, di questi 12.585 hanno condotto ricerche. Il sito web è stato cliccato 50.863.844 volte. La prima donazione di libri all’Università del Texas, di cui il centro fa parte, risale al 1897, ma l’anno della sua fondazione è il 1957. Un progetto voluto dal preside di allora, Harry Ransom, che guidò l’istituzione fino al 1961. A colpi di grandi acquisti. In quegli anni nacque il mito della sigla G.T.T., acronimo di «Gone To Texas», a segnalare il numero cospicuo di archivi e opere comprate. A sostenere ieri Ransom e oggi Staley, l’università, ma soprattutto i privati. «Generosi finanziatori, in gran parte texani — racconta l’attuale direttore —, ci sostengono su singoli progetti». Un’attività, raccogliere fondi, che occupa metà del tempo del direttore. Oltre alle acquisizioni, numerose sono le donazioni o i prestiti. È il caso dell’Archivio Magnum, comprato da Michael Dell nel 2010 per 100 milioni di dollari e ospitato (185 mila foto) dal Ransom Center. Scatti che hanno fatto la storia del Novecento, come quelli di Robert Capa della Guerra civile spagnola o dello sbarco in Normandia, i ritratti di Gandhi e Marilyn Monroe.

L’ultima donazione ricevuta è l’archivio di Thomas Smith, mago degli effetti speciali di Guerre Stellari, Indiana Jones ed E.T.. Ventidue scatole che abbracciano le collezioni di De Niro e i materiali di Via col vento, oggetto di una mostra nel 2014 per i 75 anni della pellicola.

Tassello dopo tassello l’espansione continua. Con nuovi problemi da affrontare. Uno su tutti: la lotta contro tempo e usura. L’altra grande sfida: custodire nel miglior modo possibile. Per questo motivo è stata creata una divisione che cura la conservazione. «Le nuove acquisizioni sono collocate in un’area di stoccaggio dove poi vengono ispezionate dal personale del dipartimento e dai curatori della collezione — spiega James Stroud, direttore associato per la conservazione e la gestione dell’edificio —. Se vengono trovati insetti, i materiali sono congelati, se c’è muffa imateriali sono isolati finché non vengono puliti. Passato il processo d’ispezione, la collezione è inviata al dipartimento di catalogazione per la descrizione e la collocazione». Un piccolo passo. Il primo, tra scaffali meccanizzati e locali climatizzati. In seguito, ove possibile, le opere vengono digitalizzate. «Entro fine anno speriamo di potenziare un sistema per la consegna di materiale via web», dice Elizabeth M. Gushee, bibliotecaria delle collezioni digitali. Un passo in più verso il futuro. Inevitabilmente, le memorie si baseranno sempre meno su materiali cartacei. Già ora vecchi floppy disk, pc ed email si stanno trasformando in un patrimonio letterario inestimabile. E difficile da gestire. «Abbiamo circa 2.200 oggetti di carattere digitale. Dal momento che alcuni sono abbastanza vecchi, il nostro primo compito è stato trovare l’hardware e il software per accedere agli originali, e imparare abbastanza sui vecchi computer e sistemi operativi per risolvere i problemi quando si presentano», racconta Gabriela Gray Redwine, archivista specializzata in registrazioni elettroniche e metadati.

Mentre all’Harry Ransom Center si pensa ai futuri Hemingway, qui si discute ancora della scelta di non assegnare il Pulitzer per la narrativa. «È uno scandalo, una disgrazia — tuona Staley —, erano semplicemente indecisi: ma a cosa servono dei giudici se non a giudicare?». Nessun dubbio, per lui, che il futuro riservi nuove gemme per i lettori: «Credo che la letteratura americana stia ancora producendo dei grandi romanzi». A custodirli, nei suoi propositi, ci penserà l’Harry Ransom Center, l’isola del tesoro di Austin.

SAUL BELLOW INEDITO

Maggio 23, 2012

Saul Bellow

Satisfiction.me

Nel Natale del 1997 Bellow legge il manoscritto di Ho sposato un comunista, ultimo romanzo di Philip Roth dopo l’acclamato Pastorale americana, che di lì a poco avrebbe vinto il premio Pulitzer. Roth è alle prese con l’ascesa e il fallimento della famiglia americana nel Novecento, e in Ho sposato un comunista affronta gli anni della caccia alle streghe e del maccartismo. Attraverso le voci di Nathan Zuckerman e di un suo vecchio insegnante di liceo, segue le orme dell’ebreo Ira Ringold – alias “Iron” Rinn – da operaio sindacalista a attore radiofonico di successo e quindi a marito e padre, diviso tra una moglie ebrea e antisemita e una figlia gelosa e incontentabile. La famiglia di Ira finirà per distruggersi, inevitabilmente – come quella dello Svedese in Pastorale americana.

Bellow dunque riceve e legge il manoscritto, restandone “insoddisfatto”. Non gli piacciono le somiglianze tra la moglie di Ira e l’ex moglie di Roth, non condivide l’implicita condanna del maccartismo, non capisce perché Roth si sia fissato tanto con un “idiota grande e grosso” come Ira, con “questo testone di ferro”. In sostanza, Bellow non ama niente di Ho sposato un comunista, forse non finisce nemmeno di leggerlo. Dal tono della lettera, sembra persino un po’ stizzito: perché Roth ha scritto un libro del genere?

Bisogna fare qualche premessa al Bellow di quegli anni, però. Nel 1992 è morto il suo caro amico e intellettuale di destra Allan Bloom, e da allora Bellow viene tacciato sempre più spesso di misoginia, di razzismo, di arroganza, di essere un “angry old man”. Le sue dichiarazioni di certo non lo aiutano. Come racconta Guido Fink nella fondamentale edizione dei Meridiani, già nel 1988 Bellow si chiedeva: “Qual è il Tolstoj degli zulù? Chi è il Proust della Papuasia? Mi piacerebbe leggerli.” E la morte di Bloom – che nel 2000 diventerà Abe Ravelstein, protagonista dell’ultimo, grande romanzo bellowiano – non farà che acuire il suo ultraconservatorismo.

Il Bellow di questa lettera legge quindi Ho sposato un comunista in chiave essenzialmente “politica”, e non può fare a meno di stroncarlo. Ma, come scrive affettuosamente a Roth, “non c’è molta gente con cui possa essere così aperto”.

Edoardo Pisani

Caro Philip,

Scusa se sono stato così lento. Janis ha preso per prima il tuo manoscritto e tutto il suo entusiasmo, i suoi apprezzamenti e le sue perplessità mi sono poi state comunicate. Un nuovo libro di Roth è un grande evento, da queste parti. Siamo, per usare i termini della Chicago degli anni venti, tuoi tifosi e seguaci.

Quando è partita in Canada per Natale, a vedere genitori, sorella, fratello e marmocchi, mi ha lasciato Ho sposato un comunista per le vacanze. Leggere il tuo libro mi ha consolato in questa casa vuota. È una gioia poter leggere uno dei tuoi manoscritti – mi dicevo in anticipo –, ma stavolta l’effetto complessivo non è stato soddisfacente. Ero particolarmente consapevole dell’assenza di distanza – non che uno scrittore debba per forza mettere dello spazio tra se stesso e i personaggi, nel suo libro. Ma dovrebbe esserci un certo distacco dalle passioni personali dello scrittore. E qui parla uno che ha commesso lo stesso peccato in Herzog. Eppure ho attraversato il confine troppe volte, per assalire il campo nemico. Dopotutto il mio Herzog era uno sciocco, un intellettuale fallito, in fondo un sentimentale. Nel tuo caso, l’uomo che ci dà Eve e Sylphid è un enragé, un fanatico-sul-serio.

Ma non è questo il difetto maggiore di Ho sposato un comunista. Il lettore, per rispetto al tuo talento, è più che disposto ad andare avanti con te. Ma non sarebbe capace, come non lo sono stato io, di andare avanti con Ira, probabilmente il meno riuscito dei tuoi personaggi. Suppongo che tu non riesca a sopportare Ira più del lettore. E tuttavia rimani fedele a questo testone di ferro – questo idiota grande e grosso, che ti attrae per motivi a me del tutto sconosciuti.

Ora, c’è un vero mistero riguardo ai comunisti occidentali, per limitarmi a quelli. Come hanno potuto accettare Stalin – uno dei tiranni più mostruosi di sempre? Avresti pensato che la divisione tra Hitler e Stalin della Polonia, la sconfitta dei francesi e la conseguente invasione della Russia avrebbero dovuto far riconsiderare ai membri del Partito Comunista le loro fedeltà. Invece no. Quando andai a Parigi nel 1948, scoprii che i maggiori intellettuali francesi (Sartre, Merleau-Ponty, etc) restavano fedeli a Stalin, nonostante il suo mare di sangue. E vabbè, qualsiasi paese, qualsiasi governo, ha il suo mare, o lago, o stagno. Stalin rimaneva ancora “la speranza” – malgrado il chiaro parallelismo con Hitler.

Per farla breve – la ragione: la ragione risiede nell’odio verso il proprio paese. Tra i francesi si trattava del vecchio confronto degli “spiriti liberi”, o artisti, con la borghesia al potere. In America era la lotta contro il maccartismo, la House Committee che indagava sulle sovversioni e via dicendo, il che giustificava la sinistra, i sostenitori di Henry Wallace, eccetera. Il vero nemico era a casa (slogan di Lenin nella prima guerra mondiale). Se ti opponevi al Partito Comunista, stavi con McCarthy, non c’erano altri modi di vederla.

Beh, è stata un’idiozia pessima e grave. Non ci voleva un gran cervello, per vedere cosa fosse lo Stalinismo. Ma i gli attivisti e i militanti rifiutavano di confrontarsi con i semplici fatti, disponibili a tutti.

Basta: obietterai che tutto ciò è riconosciuto in Ho sposato un comunista. Beh, sì e no. Tu ci dici che Ira è un bruto, un assassino. Ma chi altro c’è? Ira e Eve sono al centro del tuo romanzo – e questa coppia, a cosa ammonta?

Uno dei tuoi temi persistenti è la purificazione che si può ottenere solo attraverso la rabbia. Le forze aggressive sono liberatrici, etc. E questo mi sembra un punto di vista legittimo. OK, se i tuoi personaggi sono titani. Ma Eve è semplicemente una donna pietosa, e Sylphid una ragazzina viziata, debole e grassa, con una gobba da bisonte. Questi non sono titani.

Non c’è molta gente con cui possa essere così aperto. Siamo sempre stati schietti fra di noi, e spero che continueremo a esserlo, a dirci entrambi cosa pensiamo. Sarai arrabbiato con me, ma credo che non mi taglierai fuori per sempre.

Sempre tuo,

Saul

L’oppio che consola (pure) Dio

Maggio 22, 2012

Giuseppe Remuzzi per “Il Corriere della Sera

«Non chiamatemi professore e nemmeno dottore: potete scegliere fra Thomas e Tom Dormandy, the former after Aquinas, not the doubter apostole»: insomma Thomas nel caso di Dormandy viene da San Tommaso d’Aquino, non dall’apostolo che voleva vedere per credere. È così che ci ha accolto nel suo laboratorio al Wittington Hospital la prima volta. Sono passati più di trent’anni, Dormandy era già una celebrità, noi dei ragazzi appena laureati. Thomas Dormandy ha passato i 90 adesso, e scrive ancora. L’ultimo suo libro — Opium, Reality’s Dark Dream — non è soltanto una storia di medicina, è una storia dell’umanità. Di guerre, di letteratura, di mafia, di mercato nero e tanto altro, ed è una storia che parte da lontano: Ferdinand Keller ha trovato in un lago alpino fossili con semi di papavero bianco (indubbiamente coltivato) che si possono datare intorno al sesto millennio prima di Cristo.

«Se Dio dovesse mai avere bisogno di cure, la sua medicina sarebbe l’oppio» amava dire ai suoi studenti William Osler, il padre in un certo senso della medicina moderna che fu a capo di Johns Hopkins a Baltimora. Tanti medici ancora prima di Sir William Osler hanno benedetto l’oppio: «Non avremmo mai potuto fare questo lavoro se non ci fosse stato l’oppio ad alleviare le sofferenze dei malati». Nel reparto di Joseph Lister (Sir anche lui) nel 1877 al King’s College di Londra, il reparto di chirurgia più avanzato del mondo, non c’era ammalato che non avesse la sua dose di oppio. L’oppio è la pianta della felicità nelle iscrizioni dei Sumeri, all’epoca di Abramo mescolato al latte calmava le «coliche» dei neonati, lo si trova in un papiro del tremila avanti Cristo. Dal papiro di Edwin Smith viene fuori che gli Egizi sapevano già come per malattie comunque incurabili serva la preghiera più che le medicine, salvo una, l’oppio, per rendere più facile il passaggio all’aldilà.

E nessun faraone sarebbe mai stato sepolto nell’antico Egitto senza il suo corredo di papaveri d’oppio. Solo l’oppio, secondo Jean Cocteau, poteva avere l’effetto descritto da Omero quando racconta di Elena, figlia di Zeus, che mette qualcosa nel vino di Telemaco capace di attenuare l’angoscia dei ricordi. Più tardi, a Roma, Traiano, Adriano, Antonino Pio e Marco Aurelio consumavano tanto oppio quanto vino, ma anche la gente comune aveva il suo dolce di oppio e zucchero oltre a miele, succo di frutta e fiori: tutto mescolato in una specie di marzapane.

Forse non tutti sanno che la farmacologia viene dall’Islam — più di tremila preparazioni contro le meno di mille dei Romani — e c’erano farmacie famosissime al Cairo, a Damasco, a Bagdad, dove si discuteva fra l’altro di letteratura e di filosofia (siamo intorno al 900 dopo Cristo). «Gli ammalati vengono da te per due cose di solito, per il dolore o perché hanno paura», scrive Avicenna in un monumentale testo di medicina: «L’oppio funziona per tutte e due, ma ci vuole grande prudenza». E spiega come prepararlo e il dosaggio giusto e come accorgersi delle contraffazioni.

Nella letteratura moderna gli effetti dell’oppio li descrive per la prima volta Alfano, un monaco benedettino, nel suo libro Premnon Physicon del 1063. Ed è un altro monaco, Costantino Africano, a dilungarsi sulle proprietà quasi magiche dell’oppio nel Liber Isagogarum. Paracelso ha scritto dell’oppio dopo averlo provato su se stesso: «È la medicina ideale, addormenta lemalattie senza uccidere l’ammalato». L’oppio serviva ai chirurghi per operare e a metà del ’600 Christopher Wren e Robert Boyle a Oxford hanno dimostrato con studi sui cani che l’oppio al cervello arriva attraverso la circolazione: «Ma allora lo si potrebbe iniettare in una vena e usarlo come anestetico», hanno pensato. Fu così; e quell’esperimento cambiò la storia della medicina (prima senza anestetici non si poteva operare).

Nelle regioni cattoliche l’oppio si è diffuso di meno non per scelta ma perché c’era più povertà, i ricchi (Gian Gastone, l’ultimo dei Medici e Pierre Pomet a capo delle farmacie di Luigi XIV in Francia, per esempio) sapevano persino distinguere quello del Cairo da quello di Tebe o della Turchia. Un medico famosissimo, Renè Theophile Hyacinthe Laennec, inventore dello stetoscopio, era solito dire ai suoi studenti che «la morte è parte della vita». Si ammalò di tubercolosi, «era sereno fino all’ultimo — scrisse la moglie più tardi — con due alleati, il buon Dio e l’oppio».

Dove va a parare col suo libro Thomas Dormandy? Mi ha raccontato che voleva finire con l’immagine di un contadino afghano dalla barba incolta che fuma la pipa e sorveglia i suoi campi di papavero ben conscio che sono loro a proteggere dalla fame lui, le sue mogli e la sua famiglia. Poi ci ha ripensato, «it would be fraudulent», e negli ultimi capitoli scrive come nessun’altra droga come l’oppio sia in grado di produrre una distorsione del reale che arriva alla mente e dappertutto e ti coinvolge. Nessuna prende così saldamente possesso di te, nessuna ti distrugge così senza curarsi di etnia, classe, virtù. Milioni di persone adorano la droga, altrettante la odiano. Non ci sono argomenti che convincono le prime, e nessuna statistica convince le seconde a un atteggiamento permissivo. E quelli che sono vittima dell’oppio, in modo diretto o indiretto, continuano a soffrire e a morire.

JACK KEROUAC INEDITO

Maggio 20, 2012

Jack kerouac

da “Satisfiction.me

Orlando, Florida, 27 Marzo 1962

Caro Jacques,

non sono scomparso “senza tanti complimenti”. Ero ad Hicksville L.I., vicino l’aeroporto di Idlewild, (a casa del mio avvocato), e ho preso il primo volo che sono riuscito a trovare, perché continuavo a tossire di una tosse soffocante come se avessi la tubercolosi. Ed ero sicuro che il sole della Florida in una settimana avrebbe messo a tacere la tosse. Mi senti mai tossire a New York? (Perlopiù è insonnia per 7 notti consecutive, quindi questione di fumo e nervi) (E comunque, la bronchite aveva messo radici). Ho avuto davvero paura di finire in qualche ospedale di New York.

E tornare a Manhattan da L.I. e ricominciare a bere con Gregory, o con il povero Hugo.

Non sono arrabbiato con te, Jacques, amico mio. Con Lois sì, senza nessuna ragione in realtà, perché lei ha sempre avuto altri uomini. Ma lei, a me, mi ha avuto per la prima volta, per quello che intendo dire, perché questo fottuto coglione psicolabile è andato perso per lei. Ma non sono nemmeno arrabbiato con Lois, in fondo, perché tutte le volte che ho avuto l’occasione di fare l’amore con lei mi sono deliberatamente ubriacato, perché non credo più nel Sangsara, come non ci credevo già quando ci siamo incontrati per la prima volta e lei mi ha inseguito per mesi per fare l’amore con me e io non volevo mai. Sangsara è lavoro per Mara il Tentatore, e io non ho più intenzione di lasciarmi tentare così facilmente. Io nel cuore sono un prete, anche se tiro fuori un “animo” fanfarone e deciso quando sto bene da sbronzo. Io non sono un “duro”, solo un imbecille dal cuore tenero, e Lois e Janet e tutte le altre ragazze mi spaventano fin nel profondo (Dodie non mi ha mai spaventato neanche la metà di così!): mi spaventano per la loro affascinante bellezza da serpenti. Cosa vogliono? Qualcosa di me? Se non hanno intenzione di darmi neanche un pezzo di culo perché sono un monaco chiassoso, distratto e ubriacone, perché vogliono vedermi?

Mi fanno paura come il Diavolo. Le loro intenzioni non sono degne di rispetto. Inoltre mi rendo conto che le donne non mi piacciono e non mi sono mai piaciute:mi piacciono solo i loro corpi per fare sesso, ma penso che le donne siano il male assoluto per la loro freddezza nel trattare gli uomini, causando loro un dolore ingovernabile.

Lasciamo che il Diavolo si riprenda Eva.

Io sono Adamo e ho ancora tutte le costole intatte.

Quanto a New York, hai visto cosa è successo… Se non posso nemmeno prendere una stanza d’albergo per dormire, leggere e pensare in pace… che ci vado a fare a New York se non per essere sempre disastrosamente ubriaco? E un peccato che tu non mi abbia conosciuto quando ero sobrio, nei boschi. Non dico altro. Un giorno mi conoscerai.

Ora sono tornato al mio lavoro di scrittura, in questa fredda notte di luna piena.

Mi siedo per un pu’ sul mio nuovo albero di cumquat e aspetto che la mia mente riesca a organizzare un altro damma per il necessario esercizio della mia narrativa poetica. Come Handel, a volto cado in ginocchio e prego per riuscire a lavorare.

Anche adesso sto aspettando – mentre batto a macchina vecchie poesie, haiku e brani di prosa per metterli insieme in diversi volumi rilegati- e a breve ho intenzione di iniziare a studiare in dettaglio la storia d’Europa. Nel frattempo, mi diletto con il Vecchio Testamento, la “Settimana di Concord e Merrimack” di Thoreau, i Salmi di Davide, la poesia sacra di George Herbert , Haiku del Giappone:

Pioggia di primavera

Raccolta sotto gli alberi

In gocce

– Basho

Harusame no / Koshita tsutau Ni / Shizuku kana

ETC.

A proposito, Jacques, perché non infili quei 3 libri in una busta (Morley e Singer) e me li spedisci – con la posta ordinaria, 25 cents o giù di lì.

Sto pagando 52 dollari al mese per la ragazzina che dicono sia mia figlia – so già che non è una Kerouac, ma la legge me lo impone e comunque in questo momento posso permetterlo – ma non voglio avere niente a che fare né con lei, né con la madre, né con gli amanti di sua madre.

(Il giudie mi ha detto che la corte suprema di New York non ammette illeggitimità, e che il medico addetto ai test di consanguineità lavora per la Corte Suprema, ed è nominato dalla stessa Corte, per cui non ci sono bastardi nella giurisdizione di New York).

Avrei voluto vedere di nuovo Lucien e Cessa, ma di’ loro quanto sono stato malato.

In allegato trovi una lettera per il caro Hugo (DAGLIELA O SPEDISCILA).

A plus tard,

Jean Copain

(traduzione di Claudia Bertozzi)

ABBASSO GARY COOPER

Maggio 9, 2012

J.D. Salinger

da “Satisfiction.me

Nell’estate del 1946 Salinger scrive una lettera a Hemingway, dalla Germania. Resa pubblica a Boston nel 2010, Satisfiction la pubblica in Italia per la prima volta.

Hemingway e il giovane sergente J.D. Salinger si conobbero nel 1944, poco dopo la Liberazione di Parigi, all’Hotel Ritz di Place Vendôme. Tra bottiglie di champagne e bagordi notturni, in quei giorni Hemingway riceveva visite di ogni tipo, da Jean-Paul Sartre a André Malraux, passando per Marlene Dietrich. Incontrò anche Salinger, dunque, ed è difficile immaginare due uomini più distanti tra loro, almeno come immagine “postuma”. Il primo era guascone, rissoso, macho, tutto preso dalla propria parte di Grande Scrittore in guerra, il secondo fragile e introverso, pronto – di lì a qualche anno, dopo il successo de Il giovane Holden e le critiche ai libri successivi – a nascondersi ossessivamente dai propri lettori, a vivere come un recluso. Eppure a Parigi i due si intesero alla perfezione: Hemingway lodò alcuni racconti di Salinger, e Salinger si disse felice di conoscere uno degli scrittori che ammirava di più.
Due anni dopo, nell’estate del 1946, ormai segnato dalla guerra e in preda a uno stress nervoso, Salinger sarà ricoverato in un ospedale tedesco. Come sergente ha fatto il suo “dovere” fino all’ultimo, partecipando allo Sbarco in Normandia e alla battaglia delle Ardenne, liberando campi di concentramento e interrogando prigionieri di guerra. Può raccontare anche lui il suo “Addio alle armi”, ora. Ma nella lettera respinge subito qualsiasi forma di “eroismo”, con tono amaro e ironico. “Qui c’è una certa carenza di Catherine Barkley” scrive all’inizio, e non si tratta soltanto di una battuta. Catherine Barkley è l’infermiera bella e fragile di Addio alle armi, ovvero la Agnes von Kurowsky conosciuta da Hemingway durante la prima guerra mondiale, in Italia. Per Salinger non ci sono infermiere belle e fragili. Solo, depresso, traumatizzato dalla guerra, scrive a Hemingway per tirarsi su, forse per “parlare con qualcuno di sano”. In bilico tra sarcasmo e disfattismo, gli racconta della vita nell’Esercito, gli chiede del suo nuovo romanzo, accenna al suo incidente a Cuba, gli scrive dei propri progetti letterari – nominando un certo Holden Caulfield, protagonista di una commedia ancora in nuce –, e conclude con un paragrafo su Fitzgerald, allora in pieno “revival”.
Salinger ricorda davvero i giovani reduci dei Nove racconti, qui. Come il protagonista di Per Esmé, con amore e squallore, è infatti solo, nervoso, stanco, depresso, in un paese straniero. E come lui sembra cercare in una lettera – e quindi in un altrove, attraverso la parola – un rifugio contro la guerra, e un ritorno a casa.

La lettera è stata resa pubblica dalla biblioteca John F. Kennedy di Boston nel marzo del 2010, due mesi dopo la morte di Salinger. Ripresa da diversi siti americani e inglesi – come http://www.usatoday.com/ – la presentiamo ai lettori italiani per la prima volta.

Edoardo Pisani

Caro Papa,
Ti scrivo da un ospedale di Wurmberg. Qui c’è una certa carenza di Catherine Barkley, devo dire. Mi aspetto di essere dimesso domani o dopodomani. Non avevo niente di grave, ma ero in uno stato di avvilimento quasi costante e mi sono detto che mi avrebbe fatto bene parlare con qualcuno di sano. Mi hanno chiesto della mia vita sessuale (che non potrebbe essere più normale – per fortuna) e della mia infanzia (normalissima: mia madre mi ha accompagnato a scuola fino ai ventiquattro anni – ma conosci le strade di New York), e alla fine mi hanno domandato se mi piaceva o no l’Esercito. Mi è sempre piaciuto l’Esercito.
Ho conosciuto Lester Hemingway prima che la Quarta Divisione tornasse negli States. È venuto nella nostra casa di Weissenburg e ha bevuto e chiacchierato con me. È un tipo a posto.
Rimangono pochissimi arresti da fare, nella nostra divisione. Adesso stiamo prendendo tutti i bambini sotto i dieci anni che hanno un’aria sprezzante. Bisogna concedere all’Esercito i suoi arresti vecchio stampo, bisogna gonfiare il Rapporto.
Il Capitano Ollie Appletton, il precedente CO del reparto, ha ottenuto il Congedo attraverso la Croce Rossa, tornando negli Stati Uniti sotto una pioggia di stelle di bronzo. Prima di andarsene, in nome dei vecchi tempi, ha passeggiato intorno alle foto dei suoi possedimenti in Scarsdale. Per molti di noi è stato un momento maledettamente toccante.
Come sta venendo il tuo romanzo? Spero che tu ci stia lavorando sodo. Non venderlo al cinema. Sei un tipo ricco. Come Presidente dei tuoi tanti fan club, so di parlare a nome di tutti quando dico Abbasso Gary Cooper. Perché stai davvero lavorando a un nuovo romanzo, no? Mi rendo conto che a Cuba le macchine non sono sicure.
Ho chiesto al CIC di mandarmi a Vienna, finora senza successo. Nel 1937 ci sono stato quasi per un anno intero, e ho voglia di mettere di nuovo un pattino da ghiaccio al piede di qualche bella ragazza viennese. Non mi sembra di chiedere troppo all’Esercito.
Ho scritto un altro paio di racconti incestuosi, diverse poesie e parte di una commedia. Se riuscirò a uscire dall’Esercito, potrei finire la commedia e chiedere a Margaret O’Brien di interpretarla con me. Con un taglio di capelli militaresco e una fossetta di Max Factor sull’ombelico, potrei recitare io stesso la parte di Holden Caulfield. Una volta ho fatto un’interpretazione molto sensibile di Raleigh, in Journey’s End. Molto sensibile.
Darei il mio braccio destro per andarmene dall’Esercito, ma non con un biglietto psichiatrico del tipo quest’uomo-non-è-adatto-alla-vita-militare. Ho in mente un romanzo molto sensibile, e non permetterò che l’autore passi per un idiota nel 1950. Io sono un idiota, ma non voglio che la gente sbagliata lo sappia.
Mi piacerebbe che mi mandassi due righe, se ci riesci. Lontano dalla scena, è molto più facile pensare chiaramente. Con il tuo lavoro, voglio dire.
La prossima volta che sarai a New York, spero di essere in giro e riuscire a vederti, se avrai tempo. I discorsi che abbiamo fatto qui sono stati gli unici momenti di speranza in tutta la faccenda.
Sinceramente,
Jerry Salinger

P.S. Se c’è qualcosa che possa fare per te, qualche messaggio da portare a qualcuno, ne sarei lieto.
Il progetto del mio libro di racconti è andato a pezzi. Il che è un gran bene, e non sto indorando la pillola. In questo momento sono ancora troppo legato da bugie e affetti, e vedere il mio nome stampato su una copertina polverosa rimanderebbe qualsiasi vero miglioramento di svariati anni.
Edmund Wilson ha pubblicato una specie di album di ritagli su F. Scott Fitzgerald (che cosa sporca), chiamandolo The Crack Up. Malcolm Cowley lo ha recensito per il New Yorker, o ha recensito Fitzgerald stesso in maniera dannatamente superiore rispetto ai critici medi che recensiscono uomini morti. È così facile scrivere una «buona» recensione di Fitzgerald. Le sue imperfezioni saltano agli occhi, e se un paio non lo fanno, è Fitzgerald stesso a puntarle col dito. È stupido da parte dei critici lamentarsi del fallimento di Fitzgerald di «sviluppare» le sue storie. Mi sembra ovvio che chiunque scriva un libro come Gatsby non potrebbe mai «sviluppare» un bel niente. La sua arte, o la sua bellezza, era applicabile soltanto alle sue debolezze, non ti sembra? Diversamente da molti critici, non penso che Gli ultimi fuochi sarebbe stato il suo libro migliore. Era lì lì per incasinare tutto. Lì lì per dare al libro un twist alla Gatsby. In effetti, è meglio che non l’abbia finito, credo.
Buone cose.
J.

Amleto, primo intellettuale della modernità inquieta

Maggio 9, 2012

John Henry Füssli, «Amleto», 1793 (Part.)

Si trova in Verdi, ispira Freud, è un «arrabbiato» del ’900

Sergio Perosa per “Il Corriere della Sera

Shakespeare è innanzitutto uomo di teatro, autore di copioni adattabili ad ogni circostanza o evenienza, per l’albagia di corte come per l’universo carcerario. Tutto il Mondo è un Teatro, e il teatro è per lui specchio e metafora del mondo. Scrive in splendidi versi anche nei momenti più truci, ma la poesia viene come per crescita spontanea, compenetrata al gesto teatrale.

Già nell’in-folio postumo che nel 1623 raccoglieva i suoi trentasei drammi, l’amico-rivale Ben Jonson aveva scritto che non era solo «di un’epoca, ma per tutti i tempi». Mai previsione fu più azzeccata. Per quattrocento anni Shakespeare è stato intimo e centrale alla nostra cultura.

I romantici ne fanno il loro padre per la scoperta della soggettività, del sogno e della fiaba, delle passioni estreme. In Germania e Francia, Amleto è visto come il primo intellettuale moderno, insoddisfatto e inquieto. Nell’800 Shakespeare diventa una Bibbia ed è rintracciabile nelle grandi creazioni epiche, in Wagner, Verdi, Melville (Moby Dick non sarebbe com’è senza la sua radicata presenza).

Freud scopre in lui presupposti ed esempi per la sua psicoanalisi: Amleto come Edipo, vittima di fissazioni, turbe e complessi; e come tale viene da allora rappresentato. Joyce lo vede coinvolto nel dramma del rapporto fra padri e figli e della reciproca perdita; nel secondo dopoguerra, per continuare con lui, Amleto sarà uno degli Angry Young Men, dei «giovani arrabbiati».

Dal ‘900 a oggi Shakespeare, secondo il titolo del libro di Ian Kott, è nostro contemporaneo; non c’è forma di dramma in cui non si ritrovi la sua presenza ed ispirazione – compreso, per paradosso, quello della incomunicabilità o del corpo. Una tragedia di sangue e vendetta come Tito Andronico, lo stesso Macbeth e Re Lear, sono già teatro della crudeltà.

Le sue grandi campiture di temi storico-politici – che istruirono Brecht, senza emozionarlo – affascinano il nostro tempo: i drammi di storia inglese, Riccardo III, Giulio Cesare, Antonio e Cleopatra, Macbeth, lo stesso Amleto, Re Lear, hanno al centro l’attrazione, la conquista, la perdita, le angosce e le disillusioni del potere, con una carica di emozione poetica e teatrale che altrove non si ritrova (in un malandato teatro di Brooklyn ho visto un Macbeth in giapponese dove la foresta di Birnam era un fremito di verdi bambù: teneva benissimo la scena e si capiva anche senza comprendere le parole).

In questi drammi, e segnatamente in Misura per misura, il Potere è quasi sempre collegato al sesso, che serpeggia fra i protagonisti come impulso motore e insieme disgregatore: una consapevolezza e connessione che è della nostra realtà e del nostro teatro. Sesso, amore e morte sono le grandi componenti di Romeo e Giulietta e Antonio e Cleopatra : nell’uno l’irresistibile passione giovanile, quella matura eppure esaltante oltre ogni perdita terrena nell’altro. Quest’ultimo dramma è già campito sul grande contrasto fra Oriente e Occidente, e nei vari casi le contrapposizioni drammatiche sono adattabili a circostanze storiche e sociali diverse, di altri luoghi e tempi: ebrei e palestinesi, samurai e contadini. È successo in tutta una serie di produzioni teatrali e di film. Shakespeare affronta poi l’inquietante presenza fra noi del diverso, dello straniero, dell’«altro»: l’ebreo conculcato eppure rivendicato nel Mercante di Venezia, il Moro svilito e tradito, regredito da acculturato di rango alla condizione di «barbaro» in Otello, la donna umiliata e offesa eppure fino all’ultimo ribelle, forse nascostamente, nella Bisbetica domata. Sono drammi in cui si prefigurano i modi di repressione tipici dei regimi totalitari del ‘900, ed hanno permesso continue forme di attualizzazione.

Completa il quadro, nella Tempesta, la precoce percezione del colonialismo e dell’abnorme rapporto che si instaura fra colonizzatore e schiavo: Prospero che riconosce Calibano come parte oscura di sé. Se ne sono avute diverse riscritture dall’altra parte (Aimé Césaire in testa, Une tempête) nei Paesi post-coloniali, in Africa, India, Estremo Oriente. Sembrano fruibili in ogni parte del mondo.

Questi temi riecheggiano nella sensibilità e nel teatro dell’ultimo mezzo secolo, dove pure riverbera il nichilismo assoluto, quasi insopportabile, di Re Lear. Lo stesso tema della follia, che Shakespeare inscena ed esplora nelle sue varie forme – reale, indotta, simulata, per disperazione o per finta, di buffoni o poveri derelitti allo stremo – apre le porte al teatro dell’assurdo.

Tenendo sempre presenti due aspetti. Shakespeare è grande autore comico quanto tragico: oltre ad Amleto ci sono Falstaff, le commedie dell’amore romantico (spesso ambientate in Italia), delle beffe di corte e di campagna, delle traversie in cui incorrono le giovani travestite da maschietti (con tutte le ambivalenze e gli equivoci sessuali del caso).

È proteiforme, di una «infinita varietà» come Cleopatra: cupo, tragico e oscuro, ilare, romantico e sognante. Si presta a tutto e tutto sopporta; si può fare quel che si vuole con i suoi drammi, ogni forma di prevaricazione – e molte ne sono state fatte – e lui resiste, rimbalza in piedi, ci sorride e ci atterrisce.

Se poi più che drammi rifiniti, scrive copioni «instabili» fatti per la recitazione, lo fa con indomita sicurezza e maestria verbale. In un passo del Sogno d’una notte di mezza estate, Téseo sentenzia che il pazzoide, l’amante e il poeta sono impastati di immaginazione, e che il poeta, pur nella frenesia che li accomuna, «dà all’aereo nulla una stabile dimora e un nome»: cioè concretezza, visibilità, conforto formale. Così fa Shakespeare, già anticipatore e maestro del nostro meta-teatro, del dramma entro il dramma, a specchio del suo stesso gioco. Dura da quattrocento anni, e a leggerlo sembra che abbia scritto ieri.

Il diffamatore di Gramsci che fu arruolato dal Pci

Maggio 3, 2012

Ezio Taddei (1895-1956)

Paolo Mieli per “Il Corriere della Sera

Il primo ad accorgersi che tra Antonio Gramsci e il Partito comunista d’Italia era accaduto qualcosa di anomalo fu Benito Mussolini. Un articolo non firmato, dal titolo Altarini, uscì sul «Popolo d’Italia» il 31 dicembre 1937 (appena otto mesi dopo la morte dell’ex segretario del Partito comunista), per rilanciare, con sorprendente risalto, le indiscrezioni sui dissidi che avevano contrapposto Gramsci ai suoi compagni. Indiscrezioni comparse pochi giorni prima, a firma di Ezio Taddei, sull’«Adunata dei refrattari», un settimanale anarchico stampato a New York.

Taddei – un oppositore al regime fascista, in rapporto, dopo qualche anno di carcere, con uomini del regime stesso (nelle persone di Arturo Musco e Vincenzo Bellavia) – in quell’articolo sul foglio anarchico aveva trattato Gramsci con toni sprezzanti, enfatizzando i privilegi di cui avrebbe goduto in prigione (gli sarebbe stato concesso di «sgranocchiare gli amaretti che gli piacevano tanto» e di nutrirsi «di pasticcini» mentre gli altri reclusi «crepavano di fame»). Ma soprattutto aveva rivelato – accennando alla testimonianza di un celebre militante incarcerato, Athos Lisa – l’ostilità nei suoi confronti da parte degli altri detenuti comunisti. Per di più Taddei aveva fatto esplicito riferimento alla disistima che il leader sardo nutriva per Ruggero Grieco, suo successore – a metà anni Trenta – alla guida del Partito comunista («Gramsci ha sputacchiato Grieco per gelosia»).

Effettivamente, come sarebbe venuto alla luce oltre trent’anni dopo, Gramsci ce l’aveva eccome con Grieco; ma non «per gelosia», bensì a causa di una lettera inviatagli da quest’ultimo nel febbraio del 1928. Una lettera incredibilmente esplicita nell’indicare in lui il capo dei comunisti italiani, e perciò considerata dal fondatore dell’«Unità» strumento di una manovra provocatoria ai suoi danni. In una missiva del dicembre 1932, Gramsci riferì che il giudice istruttore, dopo avergli fatto vedere quello scritto di Grieco, gli aveva detto «testualmente»: «Onorevole Gramsci, ha degli amici che certamente desiderano che lei rimanga un pezzo in galera».

È di qui, da questa strana missiva di Grieco, che davvero sembra essere stata vergata per mettere in difficoltà Gramsci (tant’è che è stata addirittura avanzata l’ipotesi che potesse trattarsi di un falso), zeppa tra l’altro di «contraddizioni, anacronismi e nonsense», che prende le mosse Luciano Canfora per un importante libro in uscita il 9 maggio, Gramsci in carcere e il fascismo, edito da Salerno (pp. 304, 14). «A che titolo e investito da chi», si domanda Canfora, «Grieco si mette a scrivere quelle lettere (ce ne sono altre due, una a Mauro Scoccimarro e una a Umberto Terracini, ndr ), in quel modo ammiccante e imprudente?». Lo stile di Grieco, aggiunge lo storico, «è un unicum rispetto alle comunicazioni epistolari “di partito”, specie in quegli anni». Quanto al contenuto, le «lezioncine di politica» impartite da Grieco a Gramsci «sono a dir poco risibili». È un libro, questo di Canfora, destinato a fare riflettere come e forse più di molti altri saggi che nelle ultime settimane hanno riacceso le luci (e le discussioni) sul capo più famoso dei comunisti italiani.

Gli scritti di cui stiamo parlando sono fondamentalmente quattro.Primo quello di Franco Lo Piparo, I due carceri di Gramsci. La prigione fascista e il labirinto comunista (Donzelli), nel quale si ipotizza che Palmiro Togliatti abbia fatto sparire uno dei trenta quaderni scritti da Gramsci in carcere: quello in cui, secondo Lo Piparo, sarebbe stato evidente il distacco di Gramsci dal «comunismo come si andava realizzando e – tendiamo a pensare – dal comunismo tout court». Ipotesi che secondo un grande studioso dei Quaderni, Gianni Francioni, è «destituita di ogni fondamento». Ma che, a detta di Lo Piparo, sarebbe corroborata dalla lettura tra le righe di una curiosa lettera scritta da Gramsci il 27 febbraio del 1933 alla cognata Tatiana (Tania) Schucht, lettera che contiene queste parole di possibile allusione al suo ripudio dell’esperienza comunista: «Certe volte ho pensato che tutta la mia vita fosse un grande (grande per me) errore, un dirizzone». Strana lettera, effettivamente, che fu scritta e spedita, dal carcere di Turi, il giorno successivo ad un colloquio di Gramsci con la sorella della moglie, quella Tania che sapeva di dover incontrare nuovamente, nello stesso parlatorio, di lì a poche ore, molto prima cioè che il suo scritto potesse giungere a destinazione. Come se Gramsci avesse voluto mettere quelle cose nero su bianco, di modo che potessero essere lette non già soltanto dalla cognata (a cui presumibilmente le aveva appena dette e poco dopo le avrebbe ridette a voce), ma soprattutto a Parigi e a Mosca dai suoi compagni di partito.

Il secondo saggio che ha avuto risonanza (anche in seguito a un pubblico elogio ricevuto da Roberto Saviano) è stato quello di Alessandro Orsini, Gramsci e Turati. Le due sinistre (Rubbettino). Orsini ha sostenuto che valori riformisti e democratici possono essere accreditati esclusivamente al leader socialista Filippo Turati. E non a Gramsci. Soltanto Turati ha detto a chiare lettere che il pluralismo dei partiti è a fondamento della libertà, che l’educazione al socialismo coincide con l’educazione alla tolleranza e al rispetto degli avversari politici, che i socialisti devono condannare la violenza sotto il profilo etico-politico, che il diritto all’eresia è il pilastro del socialismo, che i socialisti non sono i detentori unici della verità, che si può imparare anche dagli avversari politici. Gramsci – del quale pure Orsini apprezza l’evoluzione quale si evince dalle pagine scritte in carcere – no. Il leader sardo educava a chiamare gli avversari politici «porci», «scatarri», «stracci di sangue mestruato», «pulitori di cessi» («e queste espressioni», precisa Orsini, «non erano rivolte ai fascisti, come qualcuno ha scritto, bensì ai riformisti e ai moderati»). Lo storico torinese Angelo d’Orsi (sulla «Stampa») ha stroncato i libri di Lo Piparo e di Orsini, scritti – a suo dire – «per regolare i conti del presente», e ha deriso anche la benevola recensione di Saviano, uno scrittore, a suo dire, «del tutto ignaro tanto di Gramsci, quanto di Turati».

Terzo saggio che ha provocato polemiche è stato quello di Dario Biocca su «Nuova Storia Contemporanea»: Casa Passarge: Gramsci a Roma. In esso Biocca fa notare che tra il 1924 e il 1926 Gramsci abitò nella capitale, in via Morgagni, dove fu ospite del villino dei coniugi tedeschi Clara e George Philipp Passarge, il cui figlio Mario era amico del futuro capo della polizia Carmine Senise. Lo stesso Mario Passarge, dopo l’avvento del nazismo, si sarebbe trasferito a Berlino per lavorare negli uffici dello spionaggio. Strano, effettivamente, che il leader comunista, in anni successivi alla marcia su Roma, abbia scelto di prendere dimora proprio in quella casa e che in seguito sia rimasto affezionato a quella famiglia, nonostante fossero evidenti le compromissioni di Mario Passarge con il fascismo e con il nazismo. Poi Biocca si è spinto oltre e ha parlato di un «ravvedimento» implicito nella richiesta di Gramsci di essere liberato dal carcere: «Era», ha scritto, «il 1934 e nessun dirigente comunista aveva (né avrebbe) ottenuto la libertà condizionale senza fornire prove di sottomissione». Va tenuto a mente – ha proseguito Biocca – che, sotto il regime fascista, «non un militante o dirigente comunista beneficiò della libertà condizionale se non dopo la puntigliosa verifica del suo ravvedimento». Neanche uno. O meglio, secondo quello che è stato scritto fin qui in tutti i libri sull’argomento, l’incredibile eccezione sarebbe stata fatta per una sola persona: Antonio Gramsci, appunto. Il che, sempre secondo Biocca, avrebbe dell’assurdo. Apriti cielo. Immediatamente è sceso in campo Bruno Gravagnuolo con una serie di documentati articoli (sull’«Unità») che contraddicevano quel che Biocca aveva scritto in merito al «ravvedimento». Poi il presidente dell’International Gramsci Society, Joseph Buttigieg, che (su «Repubblica») ha definito quelle di Biocca nient’altro che «supposizioni e illazioni»: «Biocca», ha scritto Buttigieg, «non riesce a trovare un solo documento» che comprovi il «ravvedimento gramsciano»; e, del resto, «perché Mussolini avrebbe nascosto il ravvedimento del suo nemico? Non sarebbe stato logico utilizzarlo sul piano della propaganda, essendo Gramsci un caso internazionale?». Obiezione sensata.

Quarto libro di questa copiosa messe di pubblicazioni è quello di Giuseppe Vacca: Vita e pensieri di Antonio Gramsci (1926-1937), edito da Einaudi. Vacca avanza l’ipotesi che la lettera di Grieco di cui si è detto all’inizio avesse ricevuto l’avallo di Giulia, la moglie di Gramsci nonché sorella di Tania. Questo spiegherebbe perché «quando Gramsci decise di rivolgere personalmente la sua denuncia al partito, affermasse che tra i suoi “condannatori” c’era stata, “inconsciamente”, anche Giulia». Giulia poi, pentita, nel marzo del 1939 (due anni dopo la morte del marito) aveva puntato l’indice contro Togliatti, accusandolo di aver sabotato la liberazione di Gramsci, nel senso che aveva indotto la direzione del partito a compiere atti tali da renderla di fatto impossibile. Ma, scrive Vacca sulla scia di una sapiente esegesi dei documenti compiuta da Silvio Pons, tali sospetti «appaiono infondati». Togliatti «non aveva bisogno di sabotare tentativi di liberazione che, in realtà, non furono mai compiuti seriamente dall’unico attore che poteva intraprenderli, vale a dire il governo sovietico». A tenere Gramsci in carcere, prosegue Vacca, «ci pensava già Mussolini e la sua liberazione non aveva mai configurato l’oggetto di un interesse statale sovietico; non si vede, quindi, che cosa Togliatti avrebbe potuto aggiungere di suo». Eppure…

Luciano Canfora torna alla lettera di Grieco del febbraio 1928. Lettera che Gramsci definisce «eccessivamente compromettente», «criminale», causa del fallimento di ogni possibile trattativa per la sua liberazione, anzi scritta apposta perché gli fosse inflitto un aggravamento della pena. Ai vertici del Partito comunista il caso fu subito affrontato, sia pure nel più assoluto riserbo imposto dall’esilio e dalla clandestinità. Poi, però, per anni e anni di questa epistola non viene fatto trapelare nulla. Così come, per anni e anni, nulla si è saputo delle indispettite reazioni di Gramsci, di cui non c’è traccia nella prima edizione delle Lettere dal carcere (Einaudi) del 1947. Non vengono pubblicati gli scritti gramsciani del 1932 e del 1933, nei quali, in riferimento alla lettera di Grieco, ci si domandava: «Si tratta di un atto scellerato, o di una leggerezza irresponsabile? È difficile dirlo. Può darsi l’uno e l’altro caso insieme; può darsi che chi scrisse fosse solo irresponsabilmente stupido e qualche altro, meno stupido, lo abbia indotto a scrivere». «La mia impressione», proseguiva l’illustre recluso nel carcere di Turi, «è di essere tenuto da parte, di rappresentare, per così dire, una “pratica burocratica” da emarginare e nulla di più». E ancora: «Chi mi ha condannato è un organismo molto più vasto, di cui il Tribunale speciale non è stato che l’indicazione esterna e materiale, che ha compilato l’atto legale di condanna. Devo dire che tra questi “condannatori” c’è stata anche Iulca (la moglie Giulia di cui si è detto, ndr ), credo, anzi sono fermamente persuaso, inconsciamente… ma c’è una serie di altre persone meno inconsce. Questa è almeno la mia persuasione, ormai ferreamente ancorata perché l’unica che spieghi una serie di fatti successivi e congruenti tra loro».

Togliatti – destinatario delle parole allusive – conosceva il testo di queste lettere. Ma, finché visse, fu «dosatore accorto e reticente della verità intorno alla vicenda» e non ritenne di renderle pubbliche. Anzi, vietò a Camilla Ravera e a Piero Sraffa di mostrare a chicchessia alcune copie delle lettere che erano rimaste in loro possesso. Neanche in Duemila pagine, Gramsci un uomo (Il Saggiatore) curato nel 1964 – poco prima che Togliatti morisse – da Niccolò Gallo e Giansiro Ferrata, sotto la supervisione di Mario Alicata, fu fatto cenno a quelle parole. Canfora la definisce «una capillare opera di censura». Poi, man mano che quegli scritti vengono alla luce, nei testi ufficiali si usa la formula «lettere che non sono state ancora recuperate» o «che sono state appena recuperate». «La scorrettezza», sottolinea Canfora, «è consistita nell’adoperare indiscriminatamente tale formuletta sia per le lettere che davvero fu faticoso ottenere dai familiari, sia per quelle di cui si era preferito per opportunità politica fornire solo una selezione». Dieci mesi dopo la morte del segretario del Pci (agosto 1964) verrà data alle stampe, da Einaudi, una nuova edizione delle Lettere dal carcere, a cura di Sergio Caprioglio ed Elsa Fubini, nella quale (sorpresa!) i curatori riferiscono dell’esistenza di «una strana lettera firmata Ruggero», lasciando cadere – come se si trattasse di una supposizione – «forse si tratta di Ruggero Grieco» (la circostanza che il gruppo dirigente del Pci aveva affrontato il caso Grieco-Gramsci anche con i sovietici già alla fine degli anni Trenta, rende quel «forse» del tutto stravagante).

Finalmente, nel 1968, la lettera di Grieco (scritta quarant’anni prima) fu «scoperta» da Paolo Spriano, storico ufficiale del Pci, e pubblicata su «Rinascita» con indicazioni archivistiche che Canfora definisce «a dir poco reticenti». Nel 1977, Spriano riproporrà, in Gramsci in carcere e il partito (Einaudi), la storia di quella lettera, «purtroppo», scrive Canfora, «da lui edita in modo difettoso». Solo l’ultima edizione delle Lettere , quella curata da Aldo Natoli e Chiara Daniele nel 1999 (dieci anni dopo la fine del comunismo) è a detta di Canfora filologicamente impeccabile: «Una base finalmente scientifica per gli studiosi».

Ma perché Grieco aveva scritto quelle cose nel 1928?Canfora avanza la «dolorosa ipotesi» che Grieco abbia agito da «provocatore» e che Spriano, storico «ufficiale» del Pci, avendo scoperto che le foto delle «famigerate» lettere dello stesso Grieco erano conservate in una busta della Divisione affari generali e riservati di Pubblica sicurezza, «abbia preferito tacere in quale modo le avesse trovate». Canfora riprende poi le confidenze fatte da un altro dirigente comunista dell’epoca, Giuseppe Berti, a Dante Corneli e da questi riferite in Lo stalinismo in Italia e nell’emigrazione antifascista (Tipografia Ferrante, Tivoli): in esse veniva avanzato il sospetto che Grieco potesse essere una «spia fascista». Lo stesso dubbio manifestato, qualche tempo prima, da Pietro Secchia, il quale aveva accusato Grieco di aver fallito nel compito di portare in salvo Gramsci, affidando la missione a Luca Osteria, smascherato poi, nel 1929, come una spia dell’Ovra. Canfora esorta poi a riflettere sulla circostanza che la posizione giudiziaria di Grieco fu «sbrigativamente stralciata dai giudici romani al termine dell’istruttoria con decisione… di dieci giorni dopo la famigerata lettera». E sul fatto che gli fu poi comminata una pena inferiore a quella che (confrontandola con le condanne agli altri dirigenti comunisti) ci si sarebbe potuti attendere. Dopo la morte di suo cognato, Tania, insospettita da tutto ciò, rifiutò di incontrare Grieco e nutrì diffidenza nei confronti di Piero Sraffa, amico sì di Gramsci ma prima ancora «leale» al partito e anche a Grieco.

Strano personaggio, Grieco, che tra il 1935 e il 1937 fu temporaneamente successore di Palmiro Togliatti alla guida del Pci. Grieco ha un ruolo importante nella storia del Pci per il suo clamoroso «Appello ai fratelli in camicia nera» pubblicato su «Lo Stato Operaio» nell’agosto del 1936 con la firma apocrifa di Togliatti e di tutti i principali dirigenti comunisti. Proclama in cui si esaltavano il valore e l’eroismo con cui gli italiani avevano combattuto nella guerra d’Etiopia e si esortavano i militanti del Pci a far fronte comune con i fascisti. Nell’Appello si affermava che i comunisti facevano «proprio il programma fascista del 1919», definito «un programma di libertà». «Fascisti della vecchia guardia, giovani fascisti», si poteva leggere in quel testo, «noi proclamiamo che siamo disposti a combattere assieme a voi e a tutto il popolo italiano per la realizzazione del programma fascista del 1919». Grieco non fu solo in quell’operazione. Nel corso di una riunione del Pci a Parigi in quello stesso agosto del 1936, un altro importante dirigente del partito, Mario Montagnana (cognato di Togliatti), fu ancora più esplicito: «Noi dobbiamo avere il coraggio di dire che non ci proponiamo di abbattere il fascismo… vogliamo oggi migliorare il fascismo perché non possiamo fare di più». E Giuseppe Di Vittorio scrisse una pubblica «Lettera ad un gerarca sindacale fascista» per domandargli: «Fra comunisti e fascisti in buona fede, esistono delle possibilità di lavoro comune, per il benessere del popolo italiano e per la marcia progressiva del nostro paese?» Da quel momento la parola d’ordine «Via Mussolini!» fu sostituita dai comunisti italiani con «Via i pescicani!»; come nemici, al posto dei fascisti, vennero identificati Donegani, Pirelli, Morpurgo, Agnelli, Giacinto Motta, Volpi, Orti, Rebaudengo, Parisi, Borletti; fu redatto un programma che prevedeva un prelievo straordinario sui patrimoni eccedenti il milione di lire, la confisca di tutti gli utili superiori al 6 per cento, l’obbligo ai personaggi di cui si è detto di «restituire il denaro rubato sulle sofferenze del popolo»; si proponeva che «i miliardi tolti ai pescicani» fossero usati per «dare pane e lavoro ai disoccupati» e per «pagare le indennità ai combattenti d’Africa».

In quei mesi nessun dirigente comunista si dissociò pubblicamente da quelle parole. Ma, anni dopo, Berti riferì che, in privato, Togliatti aveva definito quel manifesto «una coglioneria»; il collettivo dei comunisti confinati a Ventotene fece pervenire al partito, per vie segrete, proteste e critiche; Pietro Secchia ne parlò, in seguito, come di un’«assurdità inaudita». In un libro pubblicato qualche anno fa da Marsilio,Un partito non stalinista, il figlio di Ruggero Grieco, Bruno, ha riproposto quel documento come la prova di un tentativo di suo padre (che, pure, nel 1940 aveva fatto autocritica per quella presa di posizione) di sottrarre il Pci all’egemonia staliniana. Ma Canfora definisce tale tesi «inconsistente». E accusa Spriano di non aver reso chiari, nel terzo volume della Storia del Pci(Einaudi), i termini di quella strana storia. Spriano – secondo Canfora – «con la sua peraltro consueta felpatezza» avrebbe deliberatamente rinunciato a spiegare al lettore cosa era davvero accaduto 35 anni prima.

A questo punto Canfora fa osservare che «i tempi del disvelamento, che paiono non a torto intollerabili dal punto di vista della ricerca storica» sono «comprensibili in un’ottica tutta politica». Dopodiché azzarda un’ipotesi clamorosa: «Non è a priori inverosimile pensare», scrive, «che negli anni dei governi immediatamente postbellici, o quando Grieco stesso era alto commissario aggiunto all’epurazione, le foto delle lettere a Gramsci, Scoccimarro e Terracini siano state prelevate, magari dagli incartamenti di uno dei processi in cui Grieco era imputato, e acquisite agli archivi della Direzione del Pci». Quelle lettere scottavano: Gramsci, ricordiamolo, definiva «criminale» l’operato di Grieco e il giudice istruttore Enrico Macis gli aveva detto che i dirigenti del Pci erano stati i suoi pugnalatori. Poi, dopo che erano rimaste sepolte per decenni negli archivi del Pci, al momento di renderle pubbliche, «si provvide a riporle in un fondo di polizia onde presentarle al pubblico (come fece Spriano nel 1968, ndr ) a Ferragosto con un commento che affermasse, subito in apertura, che “finalmente” quelle lettere “dissipavano” un’ombra che lo stesso Gramsci aveva gettato sull’episodio». Si può dire che furono «scoperte» più o meno dalle stesse persone che le avevano nascoste in quell’archivio, e la cosa fu fatta in piena estate per offrire – nella distrazione generale – una versione oltremodo tranquillizzante di quel che tra la fine degli anni Venti e l’inizio dei Trenta aveva terremotato il vertice del Pci. «Si spiegherebbe così», prosegue Canfora, «anche perché mai questo sia l’unico documento di cui, in tutta la carriera di storiografo, Spriano non ha mai fornito le esatte coordinate archivistiche». «Beninteso», mette poi le mani avanti, «è soltanto un’ipotesi, ma appare, a tutt’oggi, come quella in grado di dar conto dell’insieme dei dati disponibili e delle molte anomalie altrimenti inspiegabili».

Ma non è tutto. Il libro di Canfora ci esorta a soffermarci su un interessante parallelo tra quel che accadde in occasione delle morti di Grieco (1955), ex capo sia pure solo per un biennio dei comunisti italiani, e di quel Taddei (1956) di cui all’inizio, grande calunniatore, negli anni Trenta, di Gramsci e di altri dirigenti del Pci tra cui Giorgio Amendola. Nel luglio del 1955, quando muore Grieco, «Rinascita» ne dà notizia «con parole piuttosto rituali», molto meno calorose di quelle dedicate a un leader del Psi, Rodolfo Morandi, scomparso in quegli stessi giorni. La rivista annuncia che a Grieco sarà dedicato «ampio spazio nei prossimi numeri». Il che però non accade. «Rinascita» avverte poi il lettore che in un successivo fascicolo sarebbe comparso un saggio di Emilio Sereni dedicato a Grieco. Ma anche questo annuncio non avrà seguito. Sarà Giorgio Amendola, dopo la morte di Togliatti, a ripescare Grieco scrivendo, nel 1966, la prefazione a una raccolta di suoi scritti.

Diverso il trattamento riservato a Taddei. Questi, all’inizio degli anni Quaranta, rese, negli Stati Uniti, una testimonianza a favore di Vittorio Vidali coinvolto in un’oscura vicenda. E il Pci gli dimostrò da quel momento la propria gratitudine. Ad occuparsi di lui, spalancandogli le porte del partito, fu un dirigente della vecchia guardia: Ambrogio Donini. Canfora fa notare che Donini elogiò Taddei e parlò di lui in questi termini: «La sua curiosa opinione era che il nostro compagno (Gramsci, ndr ) godesse di troppi privilegi». Curiosa opinione? «Colpisce», scrive Canfora, «la leggerezza con cui viene minimizzata la posizione assunta da Taddei contro Gramsci». Donini gli diede una mano a pubblicare un romanzo di Taddei scrivendone la prefazione che attestò «il suo arruolamento ed il suo ravvedimento». Poi mentre Grieco scivolava nell’ombra, a Taddei veniva riservata la luce di benevoli riflettori. Taddei adesso, più che un politico, si sentiva scrittore. E grazie all’intercessione del Pci, gli venne concessa «una gratificazione non da poco», quella di pubblicare un nuovo libro, Rotaia , per i tipi di Einaudi. Dalla metà degli anni Quaranta gli si consentirà di dare alle stampe volumi di argomento saggistico nei quali Taddei «con un cinismo che non conosce imbarazzi», scrive Canfora, trasformava «in eroi coloro (i capi comunisti, ndr) che aveva minuziosamente descritto pochi mesi prima come canaglie, assassini e parassiti superpagati». Infine alla sua morte, nel ’56, sarà il direttore dell’«Unità», Pietro Ingrao, a scrivere l’impegnativo necrologico di quella strana figura di ex anarchico: «La sua milizia nelle file del Partito comunista ci è cara anche come un segno di questo inarrestabile processo che dalle ribellioni disperate di ieri ha fatto nascere un grande movimento rinnovatore». Curiosi destini incrociati all’ombra di Antonio Gramsci. E di Benito Mussolini.

LA DANZA CONTINUA: INEDITO DI LOUIS-FERDINAND CÉLINE DALL’ESILIO DANESE

Maggio 1, 2012

da “Satisfiction.me

Nel 2011 la casa d’aste Artcurial metteva in asta un piccolo lotto di trentasei lettere scritte da Louis-Ferdinand Céline al chirurgo Dottor Alexandre Gentil (1878-1949), suo amico e corrispondente negli anni dell’esilio in Danimarca di Céline dal 1945 al 1948. Sconosciuto anche ai ricercatori céliniani più esperti e inedito, questo carteggio rivela molti dettagli della quotidianità di Céline e Lucette in Danimarca, delle traversie e del dramatis personae della loro odissea in Germania nel 1944-1945 narrata nella Trilogia del Nord, e scorgiamo poi ancora emergere i fantasmi céliniani già espressi con veemenza in Bagatelle per un massacro e negli altri pamphlet.

Andrea Lombardi

L’11-11 [1945]

Vecchio mio, ecco un anniversario affascinante. A che è servito darsi tanto disturbo nella prima [guerra mondiale] per finire così pietosamente? Che inganno dalla terra al cielo! Vomito la mia vita quando ci penso, mi vien da vomitare per la mia coglioneria credulona di dedizione perduta! Sono il monumento di quel che non si deve fare. “Il coglione”. Mio padre è morto di dispiaceri, mia madre lo stesso. Il minimo è che finisca uguale. Ed io ancora più cosciente di loro, più “provato”. Siamo qui, soprattutto Lucette, imbrogliati ignobilmente dai nostri cosiddetti amici. Lucette tra di noi è un’artista meravigliosa nel parere unanime degli esperti di qui. Non ci sono tre o quattro artisti come lei in Europa. È una ballerina nata. E allo stesso tempo una professoressa eccellente. Lo sanno e se ne servono eccome. Insegna il loro mestiere a 200 professori danesi che sono incapaci totali. Ma siccome non dobbiamo apparire, e abbiamo a malapena il permesso di esistere, lavora in media 6 durissime ore al giorno. E guarda caso le spese prendono tutto. Ancor meglio questo mese. Siamo a 80 corone di tasca nostra. Quasi 15 giorni di viveri per la nostra dieta! E dobbiamo sorridere e ringraziare. Altrimenti… il palo arreda. In queste condizioni qualsiasi parola di traverso è di troppo.

Un giorno mi hai prestato un tuo bellissimo libro di Laurent Tailhade. Sarei felice se me lo rimandassi. Una frase a proposito di un viaggio che fece nel nord, verso le miniere dove dice all’incirca l’ambiente di lavoro dell’Uomo è ancora abominevole e vergognoso,… mi piacerebbe proprio avere la citazione esatta = la frase.

Fai benissimo a pensare a questa piccola casa turoniana. I sogni ti sono concessi. Ahimè mi strazi! È la più crudele delle condizioni quando a 52 anni infermo il tuo destino ti è strappato senza prospettive di ritrovarne mai un altro. Perché alla fine non ho la minima speranza di essere mai accolto da qualche parte in vita mia. L’Ariano errante conosce un destino ben più infetto dell’ebreo errante. Gli amici dell’Ariano sono deboli e rarissimi gli amici degli ebrei sono potenti e innumerevoli. L’ebreo deve solo piagnucolare tutte le porte si aprono se l’ariano marchiato si fa conoscere tutti i cani sono sguinzagliati. Nessuna pietà per lui. La sua pena non esiste. Non ho mai così ben sentito l’appassimento come qui nelle mie condizioni. È implacabile. Ci vogliono sfruttare ben bene, corsi di francese, di danza, ecc. ma far finta di conoscerci. L’esperienza ha il suo prezzo.

Vedo che i tre partiti francesi non sono per niente pronti a trovare un accordo. La guerra continua insomma intus o exit. Le bestie non chiedono altro che divorarsi tra loro già in Cina lo fanno – e i cannoni insegnano agli annamiti da che parte stanno i loro fratelli protettori e emancipatori. Granchi, cani, sciacalli e per la politica: pappagalli. La Danza continua. Ovvio che la prossima guerra ci porterà un’amnistia. È la nostra sola dannata speranza. Che alternativa! Sennò tra poco qui, pelle afflitta rosicchiata, creperemo di fame e freddo. Non ci si deve mai preoccupare dei grandi problemi. Non hai avuto per caso notizie del Dottor Jacquot de Remiremont? Sono piuttosto preoccupato anche per un caro amico il Dottor Gastault ex caporadiologo a St Louis. Gestiva il dispensario comunale di Argenteuil. Abita a Parigi. È un uomo di una certa età e ben distinto, un gaudente, amicone, godereccio. Gli volevo molto bene. Mi ha procurato Bezons. Gliene sarò sempre grato. È al correntissimo di molte cose.

Se potessi dargli un colpo di telefono. È un automobilista appassionato. Verrebbe di corsa a trovarti. Mi vuole parecchio bene. Abitava nei pressi di Grenelle. È benestante e cura, lui, l’orleanese. Per favore. Nessuna inquietudine politica da parte sua. Per Jacquot ahimè tremo. Che cuore magnanime! Che ammirevole compagno nelle atroci circostanze!

Le Courrier médical è il giornale favorito dei piccoli pratici omnibus senza nessuna levatura scientifica e piena di chiacchiere. Dà tutte le notizie gli annunci, ecc. Permette di rendersi ben conto dell’insieme merdoso.

Ho appena ricevuto i Le Monde di un paio di settimane fa. Sono i primi giornali francesi che leggo dopo 18 mesi E quante cose!… Tuttavia un leggero tran-tran sembra riannodare il filo passato… Resta eppure sensibile la miseria la meschinità della vita corrente. Una certa pace la ritrovo nell’epurazione… ma alla fine sono solo illusioni… dei miraggi… il dolore di essere così lontani vince tutto, falsa tutta l’ottica. Alcuni francesi sono venuti qui non abbiamo nemmeno potuto avvicinarli… non c’è bisogno…

Parli di Vitalizio. Sto perdendo 150 000 franchi (quasi oro) in questo istituto. Attento. Non conto più ahimè le mie perdite! Sai che i primi “Liberatori” del mio appartamento hanno così tanto rubato un po’ dappertutto che sono finiti in galera. Che gioia andare a vedere in faccia colui che mi ha derubato! Eppure ti assicuro che niente era rubato del mio mediocre materiale. Tutto era stato pagato dieci volte con sangue, fatica e angoscia. Oh Patria! Niente doveva un centesimo agli occupanti! Mentre quanti attuali benestanti! Non finiremo di vomitare.

Fa freddo adesso. Un freddo russo, e tempesta. È molto triste. Si ha il tempo di ruminare le proprie disgrazie. Finalmente Bébert il gatto va meglio. Non tossisce più. Ha forse avuto una lieve polmonite. È intelligentissimo. Le difficoltà gli hanno insegnato mille cose degli uomini. Galoppa dietro a Lucette come un cane. Abbiamo anche i gabbiani, non lasciano le nostre finestre sono belli ma il loro gracchìo è odioso. È un animale da naufragio. Abitiamo su una piazzetta molto affollata di giorno vicino a un ponte che assomiglia abbastanza, in piccolo, in nordico, in campestre, alla piazza S[aint]-Michel più i fiori i pesci e il vento di lontano. Davanti a noi il loro Parlamento fa Palazzo di Giustizia. Tutto questo è bello ma severo. Molto mausoleo. Ma molto graziosa, bisogna riconoscerlo. Vedrai, del resto, non tarderai. Spero bene in primavera con le rondini. Evidentemente la casa in campagna è indispensabile per chi vorrà mangiare… in occasione di eventi futuri. E poi le città sono destinate a sbriciolarsi. E poi si muore sicuramente di fame. Solo che travestimento oltretutto! Dovremo sembrare poverissimi. 10 anni prima di uscirne che in stracci.

Ti sarai parecchio interessato al destino di Bichelonne l’ex ministro dei Lavori Pubblici sotto Laval. Eminente politecnico, è uscito e entrato per primo nell’École – caso unico assieme a Carnot, grande speranza dei Lavori Pubblici. (Che ne è stato della Sig.ra B. a proposito?). L’ho curato ai Nibelungen dove era stato trasferito nel castello con gli altri. Aveva avuto il ginocchio sbriciolato pochi mesi prima in un incidente d’auto. Il suo chirurgo francese aveva riattaccato il femore con la tibia in modo che soffriva ancora, la gamba al 25% sulla coscia e leggere infezioni del disco (probabilmente inclusive) postume. Le curavo. Gli avevo formalmente consigliato di restare tranquillo, di rinviare a più tardi l’operazione ricostruttrice. I Fritz l’hanno abbindolato affinché si facesse operare dal meraviglioso chirurgo del Führer un certo Gebhardt che ho anche conosciuto che aveva passato la metà della sua vita al fronte. Generale di Tank SS e in gioventù cantante di caffè-concerto. L’ho anche conosciuto! Un pazzo e sgradevolissimo pazzo aggressivo, vendicativo e anti-francese. Una volta mi son preso con lui. Mi trattava da ciarlatano perché rifiutai di arruolarmi in un reparto SS. In ogni caso un uomo curioso, un personaggio del Rinascimento in tutto. Un Pauchet , altrettanto follemente vanitoso, ma molto più piantato. Sembra inoltre che operasse molto bene. Rudler l’ha visto operare a Berlino. Bichelonne ha fatto tutto il tragitto dal lago di Costanza alla Prussia per andare al Billard, a Hohenlychen esattamente dove si trovava l’immenso ospedale SS di cui Gebhardt era il tiranno e il Papa. Aveva tra l’altro organizzato diverse squadre di calcio di monogamba che riprendevano fiato in attesa del loro ultimo carnaio Walhalla. Un uomo d’azione. Bichelonne non ha avuto molta fortuna. L’operazione è perfettamente riuscita. Gli hanno ridato una gamba destra ma è morto 8 giorni più tardi d’infezione tra atroci sofferenze sembra, assolutamente solo. Tre ministri Marion, Gabolde, e Darnand, sono stati ad assistere al suo funerale. Si era già parecchio vicini alla caduta. Si sono ripagati il pellegrinaggio Costanza-Prussia ma siccome il protocollo fritz ha tenuto duro fino in fondo hanno fatto il viaggio nel vagone salotto dell’ex re di Wurtemberg modello 1890! Ma senza vetri né riscaldamento. Ignobilmente bombardati (Féerie) durante tutta la traversata Costanza-Prussia! E paralizzati da freddo e fame. 2 sandwich a testa! Sulla landa gelata di Prussia li aspettava un’eccezionale musica militare per gli onori funebri. Tutto fu eseguito come da protocollo. Gli si spiegò la morte del geniale brillante soggetto. E poi li rimbarcarono nella loro ghiacciaia con 2 sandwich. Che viaggio! Che presagio! Che calvario! Te lo immagini. Ecco una buona storia che non deve ancora andare in giro. Ma ti so molto goloso di aneddoti storici e chirurgici. Eccone uno e di prima qualità! Che non vada perduto!

A te molto affettuosamente

Collezione privata – Musée des lettres et manuscrits, via Revue des deux mondes.

Traduzione di Valeria Ferretti

Revisione di Andrea Lombardi

Le camere senza vista a Firenze tra i misteri di toilette e boudoir

aprile 30, 2012

Il film «Senso» di Luchino Visconti (1954, con Alida Valli e Farley Granger)

Alberto Arbasino per “Il Corriere della Sera

Firenze è come un albero fiorito… Tutta Firenze è una veranda in fiore… Firenze d’oro… La porti un bacione a Firenze… Dammi un bacin d’amor, me n’andrò via… E proprio mentre la mamma russa, la serenata passa, quando al tuo cuore bussa, la bocca rossa, schiudi per me?… Ma come, andar via subito dopo il bacin d’amor? Proprio mentre la mammà sta al finestrino, guarda i borghi e le città, il papà fa un pisolino… E la figlia che cosa fa? Col pupillo del Barone, fila spesso e volentier, a cassetta il postiglione, guarda e finge di non veder, uè? Ah, queste mamme d’altri tempi che non badano alle figliole, mentre sono pieni di pupilli i due Baroni fondamentali del Novecento, il Barone Ochs von Lerchenau del Rosenkavalier di Strauss e il Barone De Charlus nella Recherche di Proust…

In fondo a questi severi e cupi Borghi medioevali, degli Albizi o San Jacopo o via San Niccolò, probabilmente la primavera non sveglia molte bambine (provvede il turismo di massa). E se le madonne fiorentine a tarda sera si rasassero alle Cascine, chissà quale Messer Aprile farebbe ora da rubacuor nei circuiti notturni delle utilitarie del contado, tra i fanali e i boschetti. Saggiamente, piuttosto, nell’attuale cosmopolitismo turistico Messer Aprile non perde più tempo nel ricercare o esporre tesori forestieri. E invece, mostra e spiega soprattutto ai visitatori più anziani varie insolite ricchezze domestiche abbastanza recenti, oltre alle sfarzose attrazioni dei secoli magnifici, per gli allegri impatti delle innumerevoli ragazzone e ragazzine americane sciamanti e vocianti a frotte fra le classiche madonne fiorentine.

***

Ecco dunque, per i turisti più avanzati, «Le stanze dei Tesori», con gli smisurati ma intimi lasciti dei facoltosi collezionisti e antiquari «a palazzo» o «in villa», soprattutto nel tardo Ottocento. A sorpresa, anche nel Palazzo Medici Riccardi, oltre che nella veranda Villa Stibbert, con spettacolari maioliche toscane e britanniche, oltre al colossale assembramento di armi e armature medioevali ancora disponibili sui mercati oltre un secolo fa.

Ora, cambiati i gusti nel corso dei decenni, certamente ci si sofferma sempre sugli occhietti maliziosi del «Santo Stefano» di Giotto, e sui tre nudi corpulenti nella «Allegoria della Musica» del Dosso, con la cicciosa centrale che fissa le tette della culona in piedi, voltando le spalle al fabbro armonioso. Ma al Museo Horne si osserveranno soprattutto le braccia tese anche troppo parallele delle figlie di Lot e di Semiramide fra le sue cameriere spettinate, di Francesco Furini. E si ricorda quindi la gran mostra rivalorizzante sul Seicento Fiorentino, un quarto di secolo fa, coi Bigongiari e Gigi Baldacci collezionisti entusiasti, e Federico Zeri spazientito che mi diceva «facciamo finta di chiacchierare» per evitare le domande moleste, a Palazzo Strozzi. Ma ancora a Zeri si deve il riconoscimento di un «Atlante» del Guercino ora in bella vista al Museo Bardini, con un magnifico drappo rosso-chiaro e l’Orbe sulle spalle. E tutt’intorno, dopo decenni di negligenze o trascuratezze o mutazioni di gusti, una enorme rivalutazione dello «spirito Bardini» tradito dai successori. Fino al recupero dei «blu Bardini» parietali che effettivamente non appaiono quale una trovata eccellente, come fondale per i superstiti di Donatello e Luca Giordano e Della Robbia e il «Porcellino» originale del Tacca. E gli inestimabili tappeti antichi magari poi tagliuzzati dallo Stibbert per le monture ippiche nelle sue impagabili collezioni di corazze.

Abbondante e modesta, a villa Bardini pare invece l’esposizione assai casareccia «da Fattori al Novecento»: quadri e quadretti ovviamente carissimi ai raccoglitori – Roster, Del Greco, Olschki – mentre il visitatore si affloscia davanti ai continui bovi e ciuchi e porticcioli, all’ennesima barca macchiaiola. «Da Fattori…» sarebbe anche una concomitante mostra a Viareggio, che giunge fino a Nomellini, Rosai, Soffici, Viani. Ma Roberto Longhi: «Mentre la buona pittura francese dell’Ottocento quasi s’inaugura con quel dipinto calcinoso ed ingrato, ma inconsapevolmente tanto simbolico, che s’intitola «Bonjour M. Courbet», è peccato che ancora manchi alla pittura italiana, oggi poi che molto si parla di composizioni a soggetto, un gran quadro che finalmente si chiami: «Buona notte, Signor Fattori». E inoltre, sempre il Longhi, rammentava un passo di Giosuè Carducci, nel 1874: «Del resto Vittorio Emanuele e il generale Garibaldi facevano in critica e in estetica, poveretti, le spese di tutto e per tutti». Ma non solo: «La modesta intenzione “risorgimentale” dei macchiaioli ….E di quale Risorgimento, poi? Quello di Cattaneo o quello di Ricasoli?».

Per effettive coincidenze e paragoni d’epoca, torna quindi in mente la quadreria di Arturo Toscanini, in mostra a Milano qualche anno fa, con Grubicy, Fontanesi, Boccioni, Boldini, Cremona, Gemito, Bistolfi: e quella «Toilette del mattino» di Telemaco Signorini che con pavimenti malandati da vecchio casino povero ispirò scene illustri in «Senso» di Visconti e nella «Viaccia» di Bolognini.

***

Tutt’altra musica o ronron ovviamente, fra gli «Americani a Firenze» esposti a Palazzo Strozzi. Qui, né Berenson né Pratolini. Né ville o palazzi riempiti di fondi-oro e Pollaiolo e marmi e bronzetti da collezionisti cosmopoliti e antiquari assai facoltosi. Né le tristezze indigene del Quartiere o Via dé Magazzini , con mamme e babbi e nonni e nonne e zii e zie afflitti e «adusti» fra lungarni e badie e Cascine, e dirimpettai, pertugi, scialbature, spazzini, chicchi, vischi, all’ombra di Cestello o Santa Croce. E invece qualche postimpressionista d’Oltreoceano che abita sui colli e «scende» in città per contemplare il folklore cencioso dei quartieri e mercati più poveri. Trovando in Via dé Magazzini, oggi, il ristorante dé Frescobaldi.

John Singer Sargent domina facilmente questi viaggi sentimentali fra le diverse camere con vista. Non più un Grand Tour prolungato, epocale, ma continui spostamenti provvisori fra camere d’albergo o pensione con valigie aperte disordinate per terra, resti di colazione e toilette, e ovviamente cameriere che in fine di mattinata passeranno a riordinare.

Questa camera senza bisogno di vista, con persiane ancora accostate e borse sul pavimento in attesa del servizio, di Sargent, fra il suo maestoso e famoso ritratto di Henry James e le sue signorine in bianco sedute anche sull’erba senza timore di sporcare il vestito, risulta un agevole simbolo di turismi agiati e rilassati, molto internazionali e facili. Interni carichi di «atmosfera», abiti minuziosi e squisiti anche su rive di fossi miserevoli, qualche miliardario e qualche dandy assai tipico, in finanziera scura o in lino bianco giustamente stazzonato.

Negli esterni, sia urbani sia rurali, moltissimo, «pittoresco», senza attinenze con l’impressionismo passato o con l’espressionismo futuro. Qualche ammicco ai migliori classici del Rinascimento. Ma senza accenni al Manierismo o al Barocco tipicamente fiorentini. Senso della Storia Culturale, quindi, villeggiando, quando mai?

PIER PAOLO PASOLINI INEDITO: LA LUCE DELLA RESISTENZA

aprile 29, 2012

da “Satisfiction.me

“Viviamo in uno strano periodo, in cui l’urgenza dell’agire non esclude, anzi, richiede assolutamente l’urgenza del capire”. È questo uno dei molti passaggi di sorprendente attualità tratti da un inedito di Pier Paolo Pasolini scritto nel 1955. Pasolini aveva previsto non solo il ’68, ma anche il filo sempre più sottile tra intellettuali e politica. Questo inedito, però, è anche un vero e proprio manifesto programmatico di quelle che saranno le sue opere e la sua vita. Due pagine dattiloscritte che riemergono ora, insieme ad alcune lettere inedite, dall’Archivio di Giancarlo Vigorelli: all’epoca redattore e caporedattore di riviste come “L’Europeo” e “Oggi”, inviato speciale e critico letterario de “Il Tempo” e negli ultimi anni presidente del Centro Nazionale di Studi Manzoniani di Milano. Fu proprio Vigorelli, scomparso lo scorso settembre a 92 anni, tra i primi a scoprire il talento di Pasolini: grazie ad una sua recensione l’Italia iniziò a conoscere il poeta de La meglio gioventù. Lo testimoniano anche le lettere che Pasolini scrisse a Vigorelli tra gli anni ’50 e ’60 , sempre in bilico tra  timidezza quasi reverenziale e affetto, bisogno conclamato  di aiuto e brevi ma folgoranti confidenze. Ansioso per una mancata risposta, poi felice per la recensione particolarmente apprezzata dal padre: del quale il giovane poeta  dimostra di desiderare  il consenso e la stima, in modo quasi angosciante.

Ne deduciamo inoltre che molti, se non  tutti i suoi scritti giovanili fossero custoditi non dalla madre, come si è sempre scritto, ma proprio dal vecchio e malato genitore.

In quegli anni difficili Vigorelli gli commissiona molti articoli per le sue riviste ed è tra i pochi intellettuali italiani – Alberto Moravia, Carlo Bo, Gianfranco Contini ed Emilio Cecchi – a difenderlo durante il processo per oscenità intentato nel 1955 contro Ragazzi di vita. Questo saggio inedito, che sarebbe dovuto apparire sulla rivista “Paragone”, e le lettere (qui pubblicate in versione non integrale)  sono tuttora  custoditi nell’Archivio Vigorelli insieme a autografi, inediti, epistolari, documenti e manoscritti di tanti grandi scrittori italiani ed Europei del ‘900, come europea è la sua raccolta di libri, quasi 50.000 volumi, buona parte in edizioni e lingua originale.

Gian Paolo Serino

La luce della resistenza

Qualcosa pare oggi, nella primavera del ’55, realmente finito: il dopoguerra. È finito non solo nel disordine e nella corruzione, ma anche nelle coscienze di viverci. Il senso di liberazione e di ripresa, dal ’45 agli anni immediatamente successivi, sembra ormai il dato di una psicologia lontana: e si ripresenta viziato, all’interno di ognuno di noi, dello stesso male che avrebbe portato il mondo esterno – la classe dirigente italiana, nella fattispecie – all’involuzione di oggi. Si sente il desiderio di dimenticarlo e superarlo, come un legame stantìo, impuro e un po’ ridicolo.

Esattamente il contrario avviene per gli anni della Resistenza: che si sono fissati in una luce che si fa sempre più limpida. Nessun desiderio di superarli – come per gli anni del dopoguerra: e nemmeno, certo, di ritornarci, se essi richiedono di contare come un’esperienza unica e altissima: sicuramente la più alta della nostra vita. Di farsi paradigma: cristallino nella necessità e nella violenza con cui le circostanze lo hanno determinato – che dimostri, come dato, determinato appunto dalle circostanze storiche e fuori dalla nostra coscienza logica e dai nostri programmi, una possibilità: la possibilità di un’intesa tra uomini della più diversa formazione e delle più diverse tendenze.

Allora, ciò che univa era la necessità del combattere – dell’agire -, oggi, che quel paradigma va sciolto nei suoi termini logici e riportato all’analisi, della necessità di capire. (Si badi che noi parliamo da intellettuali, non da politici: anche se la distinzione vale solo alla superficie). E la comprensione del mondo, l’atto del capire, può realizzarsi anche in una posizione che non sia resa estrema da una scelta: può realizzarsi anche in una posizione intermedia (ma non di terza forza o di aprioristica coalizione!), in cui chi vi si trova abbia una coscienza chiara (e soffra magari un dramma sincero) della propria impossibilità di scegliere: assumendo questa impossibilità a dato storico. E si badi che noi, di tendenza marxista, non usiamo in questo momento un linguaggio che sia marxisticamente eretico, non usciamo dall’impostazione classista del discorso.

Dei borghesi – come sono gli intellettuali invitati a questa testimonianza nel «Dibattito» – commetterebbero, ne siamo certi, un peccato di irrazionalità se, per salvarsi, si gettassero definitivamente in un’azione che, data la scelta compiuta, li giustificherebbe davanti a se stessi e li annullasse in una specie di anonimato e di conformismo. Meglio che di una conversione, si tratterebbe, in tal caso, di una inversione del proprio essere storico. Ed è per questo che non si dovrebbe tornare alla Resistenza nemmeno nel migliore degli atteggiamenti, per così dire, parriani: non sempre la purezza di un ideale e di una nostalgia garantiscono la sua necessità.

Viviamo in uno strano periodo, in cui l’urgenza dell’agire non esclude, anzi, richiede assolutamente l’urgenza del capire: mai un fare è stato in così immediata dipendenza da un conoscere. E se una conciliazione dei vari modi di conoscenza (o almeno dei due fondamentali) è possibile, questa, ripetiamo, non può essere che drammatica: religiosa, senza autolesionismi o irrazionalismi mistici.

Come allora a unirci erano le difficoltà e i pericoli esterni, oggi dovrebbero essere le difficoltà e i pericoli interni: se le istituzioni e gli ideali democratici non sono minacciati da una scatenata violenza di eserciti, ma da una scissione che disgregando la società in una pratica e ideologica lotta di classe, disgrega in realtà la vita stessa, nella pienezza che questa raggiunge attuandosi nei singoli individui. E l’equilibrio (quello, supremo, della Resistenza) non va certo raggiunto cancellando uno dei termini del dilemma: ma vivendo il dilemma nel modo più rischioso, intellettualmente e sentimentalmente.

Lettere inedite

[frammenti]

Una felicità quasi infantile

Ecco alcuni brani dalle lettere inedite che Pier Paolo Pasolini scrisse al critico Giancarlo Vigorelli

Roma 10 Giugno ‘50

Gentile Sig. Vigorelli, forse avrà avuto notizia dagli uscieri o dalla telefonista della mia insistenza nel volerla rivedere: non era per capriccio, Lei lo sa. Ora avrei bisogno del materiale che Le ho lasciato, per cercare di pubblicarlo da qualche altra parte.

Roma 30 agosto ‘54

Caro Vigorelli, Bertolucci mi ha avvertito che per la recensione Lei desidererebbe qualche altra cosa mia. Ho messo insieme tutto quello che ho potuto trovare nei miei cassetti: di cui è custode mio padre. È mio padre che viene a portarLe il pacco. Sono documenti della mia prima gioventù letteraria.

Roma 6 ott 1954

Caro Vigorelli, ho letto stamattina, appena alzato, il tuo stupendo articolo. Sono qui senza parole, tanto sono colpito e sovvertito. E sono oppresso insieme da una contentezza quasi infantile (quella che vedo dipinta negli occhi di mia madre e di mio padre) e da una nuova, ancora più ossessionante responsabilità. Non trovo altro modo di ringraziarti che prometterti di non risparmiarmi, di non attutire mai, anche dovesse assumere forme di smania o di vizio nell’ordine irrazionale, o di mania intellettualistica o moralistica, quella passione che tu hai sentito nei miei versi.

Roma 11 dicembre ‘55

Caro Vigorelli, ormai tu sei una delle sei o sette persone per cui io scrivo, come destinatari diretti e coscienti: e sei stato tu a volerlo essere, a esserlo, sin dalle prime ormai antiche letture. Forse, per orgoglio, per eleganza, non avrei dovuto scriverti queste righe: ma perché? che me ne importa dell’orgoglio, dell’eleganza, non voglio saper vivere.

Roma, 8 ottobre 1969

Caro amico, la critica in genere ha accolto un mio film Porcile in modo ingiusto e sgradevole. Temo che a causa di questa accoglienza, tu non sia andato a vedere il mio film […]. Ma io invece ci tengo enormemente a Porcile, che considero la mia opera più riuscita.

dall’Archivio Giancarlo Vigorelli

Vogel, il romanzo ritrovato con la lente d’ingrandimento

aprile 28, 2012

Un manoscritto scabroso micrografato dall’autore per occultarlo: riemerso a Tel Aviv, fa gola agli editori

Elena Loewenthal per “La Stampa

David Vogel è stato un grande scrittore: assieme ad altri, ha creato la narrativa ebraica contemporanea. Nacque nel 1891 da una famiglia ortodossa, in Podolia, che ora fa parte della Russia. A vent’anni incominciò a girare l’Est Europa per studiare. Allo scoppio della Grande guerra fu arrestato a Vienna in quanto cittadino di un Paese nemico. Poi visse a lungo a Parigi e qui iniziò a scrivere, prima di arrivare a Tel Aviv nel 1929, dove però si trattenne solo un anno: il torrido Medio Oriente non faceva per lui. Così tornò in Europa, e nel 1944 scomparve ad Auschwitz.

La sua scrittura è il trait d’union fra Mitteleuropa e israelianità: lui che non fu capace di affrontare le asperità del Medio Oriente, fece dell’ebraico la propria lingua elettiva, e quasi la reinventò nell’incontro con le atmosfere ovattate dell’Europa. Di lui si conoscevano sino ad ora un romanzo, Vita coniugale (pubblicato in italiano anni fa da Adelphi), due splendide novelle uscite prima per Anabasi e riproposte di recente dall’editore Passigli (Davanti al mare e La cascata) e alcune poesie.

Ma due anni fa Lilach Netanel, scrittrice e accademica presso l’Università Bar Ilan di Tel Aviv, spulciando nell’archivio della Hebrew Writer Association, si è trovata davanti a uno strano manoscritto. Sulle prime, pareva la versione autografa di Davanti al mare. Vogel scriveva spesso usando dimensioni maniacalmente piccole: passando in rassegna il testo con una lente di ingrandimento, Netanel trovò la parola «lampione» e capì che non si trattava di quel testo, ambientato in un villaggio di pescatori privo di illuminazione urbana.

Infatti di Vienna si trattava, e di tutta un’altra storia. Che Vogel aveva deciso di micrografare per occultarla: Viennese Romance è un romanzo forte, scabroso persino secondo i nostri canoni contemporanei ormai assuefatti allo scandalo. Come scrive il maggior critico letterario israeliano, Gershon Shaked, in Narrativa ebraica contemporanea. Una letteratura nonostante tutto (in uscita per le edizioni Terra Santa), «Vogel era affascinato dall’attrazione di amore e morte, che pareva mettere in risalto un mondo oltre l’ordinaria esistenza quotidiana».

Romanzo viennese, uscito questa settimana nelle librerie israeliane, narra la storia di Michael Rost, un ragazzo ebreo assetato di vita e di esperienze che approda nella Vienna del primo scorcio del Novecento, la attraversa incrociando prostitute, rivoluzionari, poveri, ufficiali, magnati, cabaret. Intreccia una relazione con la sua padrona di casa, e poi con la figlia appena adolescente: lo scabroso triangolo sarà spezzato dal ritorno del marito.

Così diverso dal resto della sua produzione, in punta di una penna che è stata non a caso associata a Thomas Mann, Joseph Roth e Stephen Zweig, questo libro appena scoperto è in fondo coerente con la pulsione fatale che porta quasi sempre Vogel a evocare l’indissolubile nodo tra morte e amore, tra vita e decadenza. Scritto forse negli Anni Trenta, ma più probabilmente poco dopo il rilascio dell’autore dal campo di transito, nel 1940 (nel breve intervallo che questa libertà gli concesse per scrivere, prima di partire per Auschwitz), Romanzo viennese rappresenta il culmine di questa vena sempre combattuta tra una formidabile delicatezza espressiva e la coscienza che la vita è invece brutale, spietata – nel bene e nel male.

Tutti i personaggi di questo straordinario scrittore sono languidi e eroici al tempo stesso, non di rado meschini. Ma straordinario è soprattutto il suo talento inventivo con una lingua ai suoi esordi letterari, nell’epoca in cui la scrisse e plasmò Vogel. In questo senso è un vero e proprio classico d’Israele, anche se il suo volontario e ostinato esilio – che lo porterà ai forni crematori – e la scelta di restare in Europa non solo fisicamente, anche e soprattutto sul terreno letterario, l’hanno tenuto sempre un po’ emarginato dai canoni del romanzo d’Israele. Questo libro, che così tardivamente ci arriva da lui e per il quale si preannuncia molto «movimento» al salone del libro di Londra, conferma il talento di Vogel e in parte spiega perché sia rimasto non solo inedito ma anche, con tutta probabilità, volontariamente occultato.

Il primo roth

febbraio 1, 2012

Philip Roth

Scene da un matrimonio per riscoprire l’esordio di un grande maestro

Philip Roth, da “la Repubblica”

Le nozze. Fatemi cominciare dai parenti. C’era il lato della famiglia della signora Patimkin: sua sorella Molly, una gallinella popputa con le caviglie gonfie che le formavano un anello sopra le scarpe, e che avrebbe ricordato il matrimonio di Ron se non altro perché si era massacrata i piedi nelle scarpe con tacchi di otto centimetri, e il marito di Molly, Harry Grossbart, il ricco agricoltore di provincia che aveva fatto fortuna con l’orzo e il granoturco ai tempi del proibizionismo. Ora faceva del volontariato al tempio e ogni volta che vedeva Brenda le dava una pacca sul sedere: una specie di contrabbando fisico che veniva fatto passare, immagino, per affetto familiare. Poi c’era il fratello della signora Patimkin, Marty Kreiger, il re dell’hot dog kosher, un uomo immenso, con tanti stomachi quanti menti, e già, a cinquantacinque anni, con tanti attacchi cardiaci quanti i menti e gli stomachi sommati insieme. Era appena tornato da una terapia sui Catskill, dove, a quanto diceva, non aveva mangiato altro che bastoncini di crusca All-Bran, e vinto millecinquecento dollari a gin rummy. Quando il fotografo venne a fare il suo lavoro, Marty mise la mano sui seni a frittella di sua moglie e disse: – Ehi, che ne dite di una foto cosí? – Sua moglie, Sylvia, era una donna fragile e sottile con l’ossatura di un uccellino. Aveva pianto per tutta la cerimonia e, anzi, singhiozzato apertamente quando il rabbino aveva dichiarato Ron e Harriet «marito e moglie davanti a Dio e allo stato del New Jersey». Piú tardi, a cena, si era abbastanza rinfrancata per dare una botta sulla mano del marito mentre l’allungava per prendere un sigaro. Però, quando lui si sporse per stringerle un seno, sembrò atterrita e non disse nulla.C’erano poi le sorelle gemelle della signora Patimkin, Rose e Pearl, che avevano, tutt’e due, i capelli bianchi, dello stesso colore delle Lincoln decappottabili, e voci nasali, e mariti che le seguivano ma parlavano solo tra loro come se, in realtà, le sorelle si fossero sposate tra loro, e i mariti pure. I mariti, che si chiamavano Earl Klein e Manny Kartzman, sedettero l’uno vicino all’altro durante la cerimonia, e anche a cena, e una volta addirittura, mentre l’orchestra suonava tra una portata e l’altra, si alzarono, Klein e Kartzman, come per ballare, e invece raggiunsero il fondo della sala dove insieme a lunghi passi misurarono la larghezza del pavimento. Earl, come appresi dopo, era nel ramo della moquette, ed evidentemente cercava di capire quanti soldi avrebbe fatto se l’Hotel Pierre si fosse rivolto a lui per una fornitura.

Dal lato del signor Patimkin c’era soltanto Leo, il suo fratellastro. Leo aveva sposato una donna di nome Bea alla quale nessuno pareva rivolgere la parola. Bea continuò a saltellare su e giú durante il pasto e a correre alla tavola dei piccoli a vedere se sua figlia, Sharon, era trattata bene. – Le avevo detto di non portare la bambina. Prendi una babysitter, ho detto –. Leo mi raccontò queste cose mentre Brenda ballava col testimone di Ron, Ferrari. – Cosa siamo, milionari?, mi fa lei. No, per carità, ma si sposa il figlio di mio fratello, potrò fare un po’ di festa, no? Macché, abbiamo dovuto tirarci dietro la bambina. Aah, cosí adesso ha qualcosa da fare! –. Si guardò intorno. Sul palco Harry Winters (nato Weinberg) dirigeva la sua band in un medley da My Fair Lady; sulla pista ballava gente di tutte le misure, tutte le forme, tutte le età. Il signor Patimkin ballava con Julie, alla quale era scivolato il vestito dalle spalle scoprendo la piccola schiena morbida e il collo lungo, come quello di Brenda. Lui ballava a piccoli passi e stava molto attento a non pestarle i piedi. Harriet, che a detta di tutti era una bellissima sposa, stava ballando con suo padre. Ron ballava con la madre di Harriet, Brenda con Ferrari, e io mi ero seduto per un po’ sulla sedia vuota accanto a Leo perché non mi toccasse essere invitato a ballare con la signora Patimkin, che sembrava il senso in cui andavano le cose.
– Tu sei il ragazzo di Brenda? Eh? – disse Leo.
Annuii: avevo smesso già da un po’ di dare imbarazzate spiegazioni. – È una pacchia, ragazzo, – disse Leo, – non fartela scappare.
– È molto bella, – dissi io.
Leo si versò una coppa di champagne, quindi attese come se pensasse ancora che si sarebbe formata la schiuma; quando questo non accadde, si riempí il bicchiere fino all’orlo.
– Bella, non bella, che differenza c’è? Io sono un uomo pratico. Se sto in basso devo esserlo per forza. Se invece sei Ali Khan pensa pure a sposare le dive del cinema. Non sono nato ieri… Sai quanti anni avevo quando mi sono sposato? Trentacinque. Non capisco perché diavolo avessi tanta fretta –. Vuotò il bicchiere e tornò a riempirlo. – Ti dirò una cosa: in tutta la vita mi è capitata solo una cosa buona. Due, forse. Prima che tornassi dalla guerra mi arrivò una lettera di mia moglie: non era ancora mia moglie, allora. Mia suocera ci aveva trovato un appartamento a Queens. Sessantadue e cinquanta al mese, costava. Ecco l’ultima cosa buona che mi è capitata.
– Qual era la prima?
– Quale prima?
– Lei parlava di due cose.
– Non ricordo. Dico due perché mia moglie mi dice sempre che sono sarcastico e cinico. Così forse non penserà che mi credo tanto furbo.
Vidi Brenda e Ferrari separarsi, e allora mi scusai e mi diressi verso di lei, ma proprio in quel momento il signor Patimkin lasciò Julie, e sembrava che i due cavalieri stessero per scambiarsi la dama. Invece si fermarono sulla pista da ballo, tutt’e quattro, e quando li raggiunsi ridevano e Julie stava dicendo: – Che c’è di tanto buffo? – Ferrari mi disse «Ciao!» e si portò via Julie, facendola scoppiare in una risata.
Il signor Patimkin aveva una mano sulle spalle di Brenda, e l’altra si posò improvvisamente sulle mie. – Vi divertite, ragazzi? – disse. Stavamo ondeggiando, tutt’e tre, al ritmo di Get Me to the Church on Time.
Brenda diede un bacio a suo padre. – Sì, – disse. – Sono così sbronza che la mia testa non ha neanche bisogno del collo.
– È un bel matrimonio, signor Patimkin.
– Se avete bisogno di qualcosa chiedete a me… – disse il padre di Brenda, un po’ brillo pure lui. – Siete due bravi ragazzi… Sei contenta che tuo fratello si sposa? Eh? Che bambola!
Brenda sorrise, e anche se evidentemente credeva che suo padre avesse parlato di lei, io ero sicuro che intendeva riferirsi a Harriet.
– A te piacciono i matrimoni, papà? – disse Brenda.
– Mi piacciono i matrimoni dei miei figli… – Mi diede una manata sulle spalle. – Voi due, volete qualcosa? Andate a divertirvi. Ricorda, – disse a Brenda, – tu sei il mio tesoro… – Poi guardò me. – Qualunque cosa voglia la mia Buck va bene anche per me. Non c’è azienda così grande da non aver bisogno di un’altra testa.
Sorrisi, anche se non direttamente a lui, e alle loro spalle vidi Leo che ingollava champagne e ci guardava; quando incontrò il mio sguardo mi fece un segno con la mano, un anello col pollice e l’indice, come a dire: – Così va bene, così va bene!
Allontanatosi il signor Patimkin, Brenda e io ballammo stretti stretti, e ci sedemmo solo quando i camerieri cominciarono a girare per la sala col piatto forte. La tavolata era rumorosa, particolarmente alla nostra estremità, dove gli uomini erano tutti compagni di squadra di Ron, in uno sport o nell’altro, e mangiavano un fantastico numero di panini. Tank Feldman, il compagno di stanza di Ron, venuto in aereo da Toledo, continuava a mandare il cameriere a prendere panini, sedano, olive, sempre con grande gioia di Gloria Feldman, la sua squittente mogliettina, una ragazza nervosa e denutrita che abbassava continuamente lo sguardo al davanti del suo vestito come se sotto ci fossero dei lavori in corso.

Diritti Globali

Le rivelazioni di Porfirio

febbraio 1, 2012

Porfirio

Maria Bettetini per “Il Sole 24 Ore

«Voi reputate vostro dio un pezzo di legno. Che venerazione offensiva!». Nel 384 Ambrogio da Milano così aggredisce Simmaco e con lui la tradizione religiosa romana. Da sessant’anni erano stati distrutti i testi di un pagano che avrebbe ben saputo tener testa alla violenza retorica del vescovo di Milano. Nell’opera dedicata alle immagini degli dei (perì agalmato-n), Porfirio di Tiro sul finire del terzo secolo aveva scritto che «non c’è nulla da meravigliarsi che i più ignoranti reputino le statue come pezzi di legno e pietre», o i libri come rotoli di papiro intessuto. Ma il divino invisibile può essere reso visibile da materiali adeguati (oro, cristallo, marmo, avorio) con statue adeguate, che non sono più solo pezzi di materia, ma diventano agalmata, segni che contengono qualcosa della potenza divina, non idoli ma icone.
Magia? Teurgia? Certamente il più raffinato tentativo di preservare quanto di più alto il sincretismo romano aveva prodotto in termini di religiosità davanti alla sempre crescente diffusione del Cristianesimo. E va subito precisato che Porfirio non contesta la persona di Cristo (uomo molto «pio e religioso»), ma non sopporta i cristiani, che lo venerano come un dio e lo credono morto e risorto. Il discorso non può tuttavia essere continuato senza considerare la temperie del terzo secolo, quando prima Aureliano e poi Diocleziano tentarono con ogni mezzo di riportare Roma allo splendore antico, superando le dissipazioni dei decenni precedenti. Accanto al consolidamento dei confini, a un’accorta politica economica ed edilizia, non mancò un incoraggiamento alla ferma adesione alla pur sincretistica religione di Stato, che portò poi all’ultima persecuzione contro i cristiani del 303-305.
Questi sono gli anni in cui visse Porfirio, nato a Tiro nel 233, approdato a Roma dopo aver studiato ad Atene, discepolo di Plotino dal 263 al 270, anno della morte del maestro. I libri di scuola ricordano Porfirio per l'”albero”, oggi al centro di studi semiotici, uno schema del rapporto tra generi e speci, e per le prime righe di quella stessa presentazione alle Categorie di Aristotele (che nel Medioevo avrebbe originato opposte posizioni logiche), in sostanza solo per un’introduzione (isagoge) scolastica. Qualche attenzione di recente si è avuta anche per opere di genere ascetico. Ma all’inizio del 2012, ovvero a diciassette secoli dalla battaglia del ponte Milvio che diede inizio all’ufficialità del Cristianesimo nell’Impero romano, acquistano un valore fondamentale le opere sulla magia, la teurgia, la teosofia e perfino la magia nera, ricavate da citazioni e frammenti, edite da Andrew Smith e per la prima volta tradotte in italiano nel volume Filosofia rivelata dagli oracoli. Questo è anche il titolo di un’opera che presenta l’idea centrale di Porfirio sull’argomento: esiste una verità rivelata, che non è quella del Cristianesimo, ma quella che nei secoli è stata trasmessa ad alcuni prescelti, senza distinzione di religione o sesso. Anticamente, come vuole Platone per esempio nel dialogo dedicato a Ione, i poeti erano ispirati dalle Muse, le profetesse invece (la Pizia come Diotima del Simposio) da Apollo, ma non si possono escludere i magi caldei, i gimnosofisti indiani, i sacerdoti egizi, perfino i profeti ebrei. Come determinare un ordine di importanza tra tutti?
Porfirio, perfettamente inserito nella tradizione platonica, non ha dubbi, la soluzione è nella lettura allegorica degli oracoli stessi, per poi passare alla teurgia, ovvero nell’arte sacerdotale di mettersi in contatto con le divinità, ascoltarne i messaggi ma anche poter ottenere favori e grazie. I rituali teurgici (minuziosamente descritti nelle pagine porfiriane) sono un inizio e un’iniziazione, che consente di entrare in contatto con i demoni buoni dell’Anima del mondo. A questi deve seguire una purificazione personale ottenuta attraverso ascesi e rinunce, che con lo studio razionale (teologia) permetterà di giungere a quella contemplazione del primo principio, cui lo stesso Porfirio disse di essere giunto una sola volta, quasi settantenne.
L’uomo avrebbe addirittura il potere di cambiare il proprio destino, interrompendo il ciclo di trasmigrazione delle anime (come già nella Repubblica di Platone) e trovando quiete nella contemplazione del l’Uno-Padre, il Dio che per sacrificio vuole solo «pensiero puro e silenzio puro» e che lascia statue (se pur in forma di potenti agalmata) e riti a coloro che sono ancora indietro nel percorso iniziatico e che hanno bisogno dell’aiuto dei numerosi abitanti dell’empireo romano, in tutto riproposto dal filosofo di Tiro. Tra i sette generi di divinità, dalle infernali alle celesti, e i demoni buoni e cattivi, colui che sa le cose divine, il teosofo, deve aiutare a distinguere la strada corretta, che è quella della filosofia. Anche per Platone e Plotino il filosofo era il vero amante, posseduto da Eros, sempre in cerca del bello, instancabile nella difficile ascesa al Principio.
L’ecumenismo di Porfirio non ebbe però fortuna, soprattutto per quella sua platonica convinzione dell’impossibilità per un uomo di essere anche Dio, e addirittura un Dio capace di far risorgere il corpo proprio e altrui. Così ora ricordiamo per un “albero” e una “isagoge” colui che probabilmente fornì ai primi teologi cristiani i termini per definire gli angeli (i demoni buoni) e addirittura una chiave di volta per affrontare il mistero della Trinità, con questo Padre-Uno che è anche Figlio-Pensiero e Vita-Potenza. Porfirio morì prima dell’editto di Milano, negli anni in cui a Spalato si spegneva l’ultimo imperatore pagano, poco prima che vicino al ponte Milvio Costantino raccontò di avere visto un segno nel nome del quale la vittoria sarebbe stata sua.

L’antisemita e l’arciebreo

gennaio 30, 2012

Carl Schmitt

Giulio Busi per “Il Sole 24 Ore

Già nella prima scena è chiaro quello che attende gli spettatori: «Quando sento la parola “cultura”, tolgo la sicura alla mia pistola», esclama un attore con fare provocatorio. La pièce diverrà nei mesi seguenti un grande successo, con centinaia di repliche. Anche la frase sul revolver farà fortuna, tanto da essere attribuita, di volta in volta, a Hermann Göring, a Himmler o a Goebbels, come sigillo retorico del disprezzo nazista per gli intellettuali.

Il 20 aprile 1933 Hitler compie 44 anni, e per celebrare l’evento va in scena, alla presenza del Führer appena salito al potere, uno spettacolo agiografico sul martire proto-nazista Albert Leo Schlageter, che i francesi avevano impiccato per sabotaggio nella Ruhr dieci anni prima. A ben guardare, la pistola ammazza cultura è innanzitutto un simbolo del tradimento da parte degli intellettuali tedeschi. L’autore della pièce è infatti Hans Johst, drammaturgo di mestiere, con un rispettabile passato espressionista, non un rozzo attivista ma un letterato colto.
Al pari di Johst, buona parte delle teste pensanti della Germania fu ben felice di gettarsi nelle braccia dei nazisti, quasi sempre in cerca di vantaggi personali, per opportunismo, per rivalsa o debolezza. Anche i grandi furono lesti a metter da parte i dubbi, a vincere il disprezzo che avevano provato fino al giorno prima per le ridicole pose di Hitler e a farsi adulatori, strateghi e teorici del nuovo regime. I due massimi esempi di questo tragico coinvolgimento con la dittatura sono il filosofo Martin Heidegger e il giurista Carl Schmitt. Se Heidegger lavorò attivamente, nel 1933, alla riforma dell’università tedesca in senso nazista, Schmitt, che durante la repubblica di Weimar si era mostrato assai scettico verso le camicie brune, fu poi presidente dei giuristi nazisti e corifeo dell’antisemitismo. Per entrambi, nel 1945, giunse il tempo della resa dei conti. Ma fu un redde rationem molto blando. Dopo qualche traversia amministrativa, Heidegger riacquistò le sue prerogative all’università di Heidelberg (con la nomina a emerito nel 1951). A Schmitt, che era più compromesso, andò un po’ peggio: fu internato per un anno, spedito a Norimberga come potenziale imputato e poi rilasciato. Non poté però tornare all’università, e visse fino alla morte, nel 1985, a Plettenberg, in Vestfalia. Né dall’uno né dall’altro venne mai una ritrattazione, un mea culpa esplicito. Solo un paio di ammissioni a mezza bocca, unite a una dose generosa di autocommiserazione, in ossequio a quello che sembra esser stato il motto della generazione invischiata nel nazismo: tacere, tacere, e ancora tacere, e, nel caso, compatirsi.
Le conseguenze di questo silenzio hanno pesato per decenni sulla società tedesca, e solo molto lentamente il rapporto tra intellettuali e dittatura è divenuto argomento di dibattito. Tra i primi ad aver affrontato la questione senza pregiudizi, e anzi con una buona dose di anticonformismo, fu Jacob Taubes, fondatore della giudaistica a Berlino nonché maitre à penser del movimento di protesta del ’68. Taubes, che proveniva da un’importante famiglia ebraica (suo padre fu rabbino capo di Zurigo) era un personaggio sanguigno e impulsivo, con una predilezione per i corti circuiti del sapere. Esercitava un grosso ascendente sugli studenti, e se ne serviva per scuotere le coscienze e per infrangere le buone maniere.
Già negli anni immediatamente successivi alla Seconda guerra mondiale, Taubes si era interrogato sull’oscura dinamica della cultura tedesca. «Che Carl Schmitt e Martin Heidegger abbiano accolto la rivoluzione nazista, anzi vi abbiano preso parte attiva, resta per me un problema che non riesco a spiegare semplicemente come “infamia” o “porcata”». Così scriveva Taubes a un amico nel 1952, quando era giovane allievo di Gershom Scholem a Gerusalemme. «Ho davanti a me una frase di Schmitt: “il Führer protegge il diritto”, e non posso darmene ragione – continua Taubes – Da dove proveniva la seduzione del nazionalsocialismo? Che il mondo liberal-umanistico stesse andando in frantumi era un motivo sufficiente per cadere nelle braccia dei lemuri?». Anziché mantenere la questione su di un piano puramente teorico, Taubes cercò un confronto diretto con i “colpevoli”. Nel 1955 si rivolse a Schmitt, e nacque così un lungo scambio epistolare, durato un quarto di secolo. Le lettere vengono ora pubblicate per la prima volta per intero, e gettano luce sul dialogo tra due personalità che la storia avrebbe dovuto separare irrimediabilmente. Il cammino che unisce l’antisemita Schmitt e l’«arci-ebreo» Taubes (come egli stesso ebbe a definirsi) è spesso accidentato e tortuoso. Taubes è affascinato dalla lucidità del l’opera di Schmitt, e al tempo stesso consapevole delle responsabilità del suo interlocutore. Ma, ed è questa la scelta decisiva, evita di pronunciare un giudizio sull’uomo Schmitt, che sarebbe inevitabilmente di condanna. Si avventura invece, nelle proprie missive (sia in quelle effettivamente spedite sia in quelle, interessantissime, rimaste in forma di abbozzo), in una perlustrazione del dissesto della ragione tra la fine degli anni Venti e i primi Trenta. Schmitt gli appare come il brillante cronachista di un naufragio, colui che ha compreso la crisi della visione laica del mondo, e ha cercato di sostituirle una «gerarchia dei significati» di derivazione simbolica.
In un abile parallelo tra Walter Benjamin e Schmitt, Taubes vede l’uno e l’altro come profeti di una svolta teologica del XX secolo: Benjamin intento a costruire febbrilmente la sua improbabile teologia marxista, e Schmitt apologeta di una teologia reazionaria. Del resto è noto che, nel 1930, Benjamin riconobbe il proprio debito intellettuale verso Schmitt in una lettera a quest’ultimo, un documento così imbarazzante che Scholem e Adorno decisero di escluderlo dall’edizione dell’epistolario benjaminiano del 1966. Taubes, che d’imbarazzi e provocazioni si nutriva, va al cuore del problema. Come mai un pensatore di sinistra e uno di destra mostrano di applicare lo stesso metodo? «Gli animi oscillavano allora nei primi anni Trenta tra sinistra e destra solo perché non si credeva più al programma del liberalismo? Non c’erano criteri per distinguere chiaramente tra bene e male?», chiede Taubes a Schmitt. La domanda rimase senza risposta, anche perché Taubes non spedì mai questa missiva, e si recò invece a trovare Schmitt di persona, nel settembre 1978. Fu un «incontro tempestoso». Taubes racconta che Schmitt gli apparve come «il Grande inquisitore di Dostoevskij contro gli eretici», una sorta di «apocalittico della controrivoluzione».

Walter Benjamin. Ghirigori per fare ordine dentro il caos

gennaio 29, 2012

Pensieri, riflessioni, note. Sulle rivoluzioni di Marx, i tempi di Proust, la guerra, l´arte. Su fogli sparsi, taccuini, biglietti. In una mostra a Parigi l´archivio dell´autore di “Angelus novus” Che testimonia non solo il suo metodo di lavoro, ma la costruzione mai sistematica della sua filosofia

Fabio Gambaro per “la Repubblica”

Parigi – Walter Benjamin amava Parigi. L´amava tantissimo. Proprio nella città di Baudelaire e Proust, della Bibliothèque Nationale e dei passages, dei caffè frequentati dagli artisti e dei lungosenna inondati di sole, il filosofo tedesco aveva cercato rifugio nel 1933, per sfuggire al nazismo. Per lui la Ville Lumière fu un´oasi di pace e di cultura, dove rimase fino al 13 giugno 1940, quando le truppe del Reich alle porte della città lo costrinsero ancora una volta alla fuga. E non a caso, alla capitale francese Benjamin dedicò uno dei suoi libri maggiori, I passages di Parigi, a cui lavorò fino all´ultimo momento, abbandonando poi il manoscritto incompiuto a Georges Bataille, prima di lasciare precipitosamente il suo appartamento di rue Dombasle.
Quella tra il filosofo tedesco e la capitale francese è una storia fatta di legami forti e di affinità nascoste, che oggi riemerge in occasione della mostra “Walter Benjamin Archives” (fino al 5 febbraio al Musée d´Art et d´Histoire du Judaisme). Il ricchissimo materiale esposto a Parigi (manoscritti, lettere, appunti, schede, cartoline, registri, taccuini, foto, agende, libri e riviste) consente di leggere tutta l´opera di Benjamin come un archivio del pensiero, della percezione, della storia e delle arti.
Archivista di se stesso e grande collezionista, l´autore di Angelus novus compilava elenchi di ogni tipo, liste di libri e di cose da fare, elenchi di argomenti da approfondire e cataloghi di parole. Tra le carte c´è anche un “archivio dei suoi archivi personali”, comprendente ventinove diverse voci, dalle lettere degli amici ai lavori sulla poesia, dalle notizie sui genitori alle ricerche filosofiche, dai ricordi di scuola alle fotografie. Ecco per esempio un attualissimo commento all´idea di Marx sulle rivoluzioni come locomotive della storia: «Forse le cose stanno diversamente. Forse le rivoluzioni sono il gesto della specie umana che viaggia sul treno per tirare il segnale d´allarme». Su un foglio con la pubblicità dell´acqua San Pellegrino redige invece alcune riflessioni sull´aura come «apparizione di un lontano per quanto vicino», mentre su un tagliando della Berliner Staatsbibliothek butta giù il primo schema de Il dramma barocco tedesco.
Appunti che messi insieme diventano un vasto schedario, il supporto necessario di un pensiero proposto per frammenti, frutto della consapevolezza dell´impossibilità di strutturarne la presentazione in modo definitivo. «Per qualcuno i cui scritti sono dispersi come i miei e a cui le circostanze storiche non consentono più l´illusione di vederli un giorno riuniti, è una vera soddisfazione sapere che un lettore, in un modo o nell´altro, si sia sentito a casa sua in mezzo a questi miei scarabocchi», scrive Benjamin.
Possedeva taccuini per ogni occasione. C´era quello in cui annotava i libri letti e quello in cui conservava le citazioni che avrebbero potuto servirgli in futuro, quello per gli schemi e i piani di lavoro, e quello in cui finivano arborescenze di parole e costellazioni di pensieri come quelle relative a Proust, Baudelaire o Karl Kraus. Documenti preziosissimi che evidenziano il modo di procedere del filosofo che avanza per approssimazioni successive, accumulando idee, organizzando il tutto per temi e argomenti, alla ricerca di una presentazione appropriata del pensiero. Proprio come fece negli anni parigini, quando lavorava al famoso libro sui passages. In quel testo incompiuto Benjamin accumulò una gran quantità di citazioni secondo l´immagine cara a Baudelaire dello straccivendolo che raccoglie «gli scarti di una giornata nella capitale». Immagine che trasferì al lavoro dello storico materialista, presentato come colui che raccoglie avanzi e residui della storia. I passages di Parigi doveva essere un´opera fatta di stracci, scarti e residui, in cui – secondo il sommario manoscritto presentato a Parigi – potevano coesistere la moda e la storia delle sette, il sogno e la prostituzione, Jung e Fourier, Marx e Baudelaire, la noia e la pigrizia, il dinamismo sociale e il materialismo antropologico.
A Parigi però Benjamin era anche al centro di una rete di relazioni intellettuali. È a loro che Benjamin confida angosce, dubbi e paure, come ad esempio in questa lettera ad Adorno del 2 agosto 1940: «La totale incertezza di ciò che può portare ogni nuovo giorno, ogni nuova ora, domina la mia esistenza da molte settimane. Sono condannato a leggere i giornali come una sentenza e cogliere in ogni trasmissione radiofonica un messaggio di sventura».
Per sfuggire a quella sventura annunciata Benjamin approderà a Marsiglia nell´agosto del 1940, tentando poi di raggiungere clandestinamente la Spagna. Arrestato e respinto dai doganieri spagnoli, il 26 settembre, si darà la morte con una forte dose di morfina nel paesino di Portbou, dopo aver scritto un ultimo laconico biglietto all´amica Henny Gurland: «In una situazione senza uscita, non ho altra scelta che farla finita. La mia vita si conclude in un piccolo paese dei Pirenei dove non mi conosce nessuno. La prego di trasmettere il mio pensiero all´amico Adorno e di spiegargli la situazione in cui mi sono trovato. Non mi resta abbastanza tempo per scrivere tutte le lettere che avrei voluto scrivere». Queste drammatiche righe sono l´ultimo atto della vita di Benjamin, di cui l´affascinante mostra parigina ricorda la ricchezza di un progetto inclassificabile, che proprio a Parigi conobbe uno dei suoi momenti culminanti.

Diritti Globali

Il cacciatore sparò un colpo, uno solo

gennaio 29, 2012

Thomas Francis McGuane

Matteo Sacchi per “il Giornale

Thomas Francis McGuane – l’autore del racconto Il volo, di cui in questa pagina pubblichiamo ampi stralci – è uno degli scrittori più importanti del panorama statunitense. Classe 1939, nato e cresciuto nel Michigan, ma figlio di genitori cattolici emigrati dal Massachusetts, McGuane è un conoscitore e un narratore perfetto dell’America profonda. È il cantore di un’America sospesa tra il vecchio e il nuovo, tra le periferie piene di non luoghi e le sue città futuristiche. Ha lavorato in un ranch, ha combattuto per tutta la vita con il ricordo di un padre alcolista. Si è spostato dal Wyoming al Montana sempre attratto dalla libertà e dagli spazi privi di confini, ma è stato fin da giovane legato intellettualmente a scrittori come Jim Harrison e ha frequentato l’università di Yale. Ecco allora che la sua letteratura (il libro d’esordio è il corrosivo The Sporting Club, del 1969) mette in scena, con linguaggio e gusto picaresco, le contraddizioni e i tic della società a stelle e strisce. Nel suo romanzo più noto Correndo sul filo (in Italia uscito da Dalai editore nel 2011) narra le tragicomiche vicende di Irving Berlin Pickett, trascinato dai genitori nei loro continui spostamenti e iniziato all’amore dalla zia Silbie. Le cose non migliorano quando deve destreggiarsi tra il lavoro di medico in una cittadina del Montana e la presenza ingombrante di una serie di donne, tra amore, sesso e guai.
Nel caso di Il volo, però – pubblicato in esclusiva in Italia da domani sul sito della rivista Satisfiction ideata e diretta da Gian Paolo Serino (www.satisfiction.me) – la scrittura di McGuane prende strade diverse. Il racconto ha un passo più metafisico, come spiega l’autore stesso a Satisfiction: «Ho cercato di esprimere i miei sentimenti riguardo la morte e la paura della morte».

Thomas Francis McGuane, da “il Giornale

Durante la stagione degli uccelli, i cani si corrono dietro in cerchio nella mia cucina, i giubbotti giacciono accatastati nell’ingresso, le tubature sono intasate dalle piume, e i cacciatori cercano rimedi per il malessere dentro un frigorifero. Dato che lavoro di giorno, osservo con una certa malizia queste presenze, cercando di capire chi farà e chi non farà buona caccia. Quest’anno è stato leggermente differente perché Dan Ashaway è arrivato gravemente malato. Eppure questa mattina, sembrava essere quasi l’unica persona lucida in cucina. Ha contribuito a preparare l’ampia colazione a base di pasticcio di gallo, uova, succo di frutta, e caffè. Quei miserabili di Bill Upton e suo fratello, Jerry hanno caricato i cani e sono partiti a un’ora criminalmente presta. Ho spinto via alcuni piatti e mi sono acceso un sigaro per la colazione. Dan ha versato il caffè e si è seduto. Cacciamo uccelli insieme da anni. Io vivo qui e Dan arriva in volo da Philadelphia. In ogni caso, quello mi è sembrato il momento.
«Quanto stai male, Dan?» ho chiesto.
«Temo che non guarirò», ha detto Dan, in modo diretto, alzando e abbassando le mani sui braccioli della sedia. Tutto qui. «Beh, andiamo», ha detto poi.
Abbiamo preso i cani di Dan, dopo che lui ha insistito per questo. Loro sono saltati sulle cassette di alluminio sul retro del camion quando lui ha detto «Forza»: Betty è una femmina per metà bianca e per metà di un rossiccio bruno, mentre Sally ha il viso volpino e striato. Questi erano – o farei meglio a dire sono – i due vecchi pointer privi di addestramento, a cui Dan faceva trovare e recuperare gli uccelli senza nemmeno bisogno di un richiamo.
Mentre abbiamo guidato verso Roundup, tutti i miei pensieri sono stati rivolti all’importanza che aveva essere vivi. Era una consapevolezza strana eppure felice.
***
Ogni volta che la strada sterrata saliva, il paesaggio cambiava. Per lungo tempo abbiamo costeggiato un torrente verdastro, ricoperto da salici, poi il torrente è proseguito sotto un ponte, e noi siamo saliti verso nord. Quando siamo ritornati in piano, il paesaggio davanti a noi ci è sembrato sconfinato: un’immensa prateria dai contorni indefiniti come quelli del mare. C’erano montagnette che emergevano qua e là dalla superficie e gole dove tra la boscaglia scorreva un fiumiciattolo. Non ci abbiamo pensato su e ci siamo fermati, lasciandoci il camioncino alle spalle. Dan ha sorriso e ha detto: «Ecco il posto per farsi una dormita eterna».
***
Poi non sono riuscito a frenarmi. «Che cosa significa che non migliorerai?».
«È la verità, vecchio mio. Ma, ascolta, ora non voglio pensarci. Per cui non cominciare».
Ero arrabbiato con me stesso. A tutti tocca andarsene, ho pensato. È come aspettare che scatti un allarme, quando è troppo buio per leggere il quadrante. Guardando il grande petto di Dan proteso nelle sue bretelle da poliziotto, era quasi inimmaginabile che esistesse qualcosa che potesse renderlo polvere. Ma mi ero parecchio sbagliato anche su questo.
Un piccolo antilope solitario si è fermato e ci ha guardato da lontano. Dan ha messo il suo cappello sulle canne dell’arma e si è avvicinato allo stupido animale a una trentina di iarde prima che questi sbuffasse e corresse via. A volte ci è capitato di trovare gli ostacoli per le antilopi costruiti dagli indiani, di solito non molto lontano dalle trappole per le aquile, cose intelligenti fatte da mani vitali. C’erano vecchie cassette di cartucce accanto al fiume, che giacevano nella sporcizia, calibro 45-70 – forse una rissa, forse un vecchio allevatore che aveva cacciato un’antilope con un fucile da cavalleria. Chi lo sa. Un miraggio tremolante è apparso a sud, blu e cinto dalle colline distanti. Tutto intorno a noi la prateria brulicava di vita. Ho cercato di immaginarmi gli indiani, i soldati. Quasi li vedevo. Se ne erano andati o no?
«Non so se voglio farlo».
«Prima troviamoli», dissi. Avrei avuto un sacco di tempo, in seguito, per pensare a quella frase.
Dan ci ha riflettuto su e poi ha detto: «Questo è interessante. Li troveremo e decideremo se vogliamo farlo o lasciar perdere». I pointer si sono alzati, hanno stiracchiato la schiena, guardato verso di noi, dimenando la coda, e poi sono andati a sdraiarsi di nuovo vicino al torrente. Poi ho avuto una sensazione strana. Dan si è fatto silenzioso. Fissava verso l’orizzonte. Dopo un minuto, un sorriso gli ha attraversato di colpo il viso. Ecco che cosa stavano guardando i cani. Siamo scattati subito in piedi e ci siamo mossi.
«Ecco», ha detto Dan, ai cani o a me – questo non l’ho capito. Betty e Sally sono scattati in avanti, correndo nel vento. Betty è stata quella che è andata a passo più spedito. Sally ha fiutato meticolosa il terreno. Riuscivo quasi a sentire il piacere di Dan nel vedere i suoi cani, di razza, belli e veloci.
«Quando porti a caccia queste bestie», ha detto, «devi dar loro da mangiare hamburger, uova, pancetta, insieme a quelle crocchette che mangiano di solito. Nei giorni davvero caldi devi metter loro degli elettroliti nell’acqua. Betty entra in calore nel mese di aprile e ottobre; Sally a marzo e settembre. A Sally viene un po’ di febbre e con l’alta temperatura per la prima settimana e mezza non le si può portare a caccia. Le faccio sempre restare in casa. A inizio agosto metto loro addosso un’imbrigliatura da cavallo per tenerle in forma. Sono state entrambe cavalcate».
Ho cominciato a sentirmi stordito e stanco. Forse la vita non è qualcosa che perdi alla fine di una lunga battaglia. Ma non ci ho pensato e mi sono detto, Queste cose possono continuare ancora e ancora.
Sally si è lanciata sopra una infossatura. Betty ci è entrata dentro ed è risalita dall’altra parte. C’era un’ombra che si muoveva in mezzo all’erba più profonda. Sally si è bloccata proprio sul bordo, e Dan ha agitato la mano verso Betty. Lei è arrivata dall’altra parte, ha annusato, è strisciata dentro e ha puntato.
Dan mi ha sorriso. «Augurami buona fortuna», mi ha detto. Poi ha preso la sua pistola, si è avvicinato al bordo, ed è scomparso dalla vista. Sono rimasto seduto per terra fino a quando non ho sentito lo sparo. Dopo un po’ lo stormo si è alzato in volo, otto uccelli scuri che si sono allontanati verso l’alto. Ho fatto un fischio ai cani, poi ho cominciato a dirigermi verso il camion.
Traduzione: Nicola Manuppelli

Disegnare per salvarsi dall´orrore di Dachau

gennaio 29, 2012

Esposte a Legnano le strazianti carte create da Zoran Music in campo di concentramento: “Una ragione per resistere”

Armando Besio per “la Repubblica”

Legnano – «Comincio timidamente a disegnare. Forse così mi salvo. Nel pericolo avrò forse una ragione di resistere». Novembre 1944. L´artista sloveno Zoran Music è la matricola 128231 del campo di concetramento di Dachau. Ha 35 anni. È nato a Bukovica, un villaggio di confine a pochi chilometri da Gorizia, allora territorio austroungarico, occupato dai nazifascisti. La sua colpa, avere rifiutato l´arruolamento nelle SS. Il fisico robusto, che lo aiuterà a sopravvivere, lo rende “sfruttabile” per il lavoro nello stabilimento di munizioni. Dove di nascosto si procura carta e matita. «Disegno come in tranche… le cose viste strada facendo verso la fabbrica». Scene agghiaccianti: «L´arrivo di un trasporto. Un carro bestiame aperto. Cascano fuori i morti. Qualche sopravvissuto impazzito urla, con gli occhi fuori dalle orbite».
Sei mesi vissuti «in un quotidiano paesaggio di morti e di moribondi», testimoniati dagli strazianti disegni che aprono la mostra “Se questo è un uomo” curata da Flavio Arensi a Legnano (Palazzo Leone da Perego, fino al 19 febbraio, catalogo Allemandi). Il titolo è lo stesso del memoriale di Primo Levi da Auschwitz: «Voi che vivete sicuri – nelle vostre tiepide case – voi che trovate tornando a sera – il cibo caldo e visi amici – considerate se questo è un uomo – che lavora nel fango – che non conosce pace – che lotta per mezzo pane – che muore per un sì o per un no».
I primi fogli in mostra, mai visti in Italia, prestati da un collezionista sloveno, sono datati “Dachau 1945”. Poveri corpi ridotti a scheletri, adagiati per terra, in attesa di sepoltura, nei giorni della liberazione del campo da parte dell´esercito americano. Nelle sale successive colpiscono al cuore i dipinti e le incisioni del ciclo “Noi non siamo gli ultimi”, realizzato a partire dal 1970. Music vive tra Parigi e Venezia, è un artista di successo. «Ma ancora oggi mi accompagnano gli occhi dei moribondi, come centinaia di scintille pungenti». L´incubo resuscitato si fa memoria e monito. La Shoah potrebbe ripetersi, avverte con queste opere. Volti scarnificati, contratti in smorfie di dolore che ricordano l´Urlo di Munch. Mani magre, aggrovigliate come radici di un albero rinsecchito. Corpi, cataste di corpi, che svaniscono in un pallore informale: «Il bianco era il colore dei cadaveri senza quasi più carne».
Integra l´esposizione una piccola ma efficace antologia dell´altro Music, protagonista di un percorso pittorico iniziato nel segno di una figurazione lieve (Cavalli che passano, 1948), approdato a un´astrazione informale (Terre dalmate, 1960), sempre con uno stile parsimonioso, fatto di pochi segni e pochi colori. Ecco i paesaggi senesi del dopoguerra (quando Music viaggia in Italia come giornalista), la Cattedrale parigina del 1984, che ricorda Monet ma ne ribalta la prospettiva e l´umore (Music non è stregato dalla luce che accarezza la facciata, ma dal buio che avvolge l´interno), la Giudecca e altri scorci veneziani (i cordami aggrovigliati evocano le braccia dei morti nei campi), i toccanti ritratti della Donna con cappello, l´amatissima moglie e musa Ida Barbarigo. Chiudono il percorso gli evanescenti autoritratti degli anni ´90. Music, quasi cieco, vi appare come una Grande figura grigia avvolta nella nebbia. Morirà quasi centenario. Le sue ceneri sono custodite in laguna, sull´isola di San Michele.

Diritti Globali

Fede e scienza dentro il tunnel

gennaio 27, 2012

Bosone di Higgs

Paolo Viana per “Avvenire

Peter Higgs, che ha “inventato” l’inafferrabile bosone, non sopporta che lo chiamino “la particella di Dio”, eppure all’interno del Lhc, il grande acceleratore del Cern che sta dando la caccia alla particella più sfuggente dell’universo, molto parla del Creatore. A maggior ragione da quando il centro europeo di ricerca nucleare è diventato la méta di uomini di chiesa. Una visita privata, quella organizzata ieri dal fisico italiano Ugo Amaldi, destinata ad aprire un dialogo tra due mondi che, a centinaia di anni dal processo a Galileo e malgrado gli sforzi di revisione storica, ancora si guardano con sospetto.

«Per tanto tempo, la Chiesa è stata alma mater della scienza – raccontava il cardinale Camillo Ruini uscendo dal tunnel sotterraneo del Large Hadron Collider –; da Galileo in poi si è registrato un grave ritardo, ma nel contrapporre scienza e fede c’è stata una forzatura, sottolineando le distanze e non le sinergie». Se si considera che il sincrotrone di 27 chilometri realizzato da venti Paesi per scoprire l’origine della materia e confermare o smentire il Modello Standard su cui si regge la fisica delle particelle, costituisce l’opera scientifica più grande del mondo, la visita del Comitato per il progetto culturale della Cei, accompagnato dal rappresentante della Santa Sede presso l’Onu, monsignor Silvano Tomasi, rappresenta un passo “esplorativo” di una certa importanza.

E suggestivo: «In questi grandi laboratori – ha commentato monsignor Ignazio Sanna, teologo e arcivescovo di Oristano – si sente la ricerca di un contatto primordiale con il Creatore che portò alla costruzione delle grandi cattedrali cattoliche. L’esperienza di tanti giovani di tante nazionalità che lavorano insieme è un grande esempio di pace». E commovente: «Vedere di cosa sia capace l’uomo – ha ammesso il cardinale Angelo Scola – è un clamoroso segno di speranza». E incoraggiante: «I giovani che lavorano con Fabiola Gianotti sul bosone di Higgs – ha proseguito l’arcivescovo di Milano – hanno una media di 28 anni e questo ci dice che i ragazzi hanno ancora il senso del rischio legato alla passione per il sapere.

Dobbiamo incontrarli dove vivono i loro interessi». Una giornata a cento metri di profondità, tra macchine costruite per riprodurre il vuoto lunare e il freddo cosmico, apparecchi che creano il “fluido perfetto” e rilevatori in grado di scattare ad ogni secondo milioni di fotografie alle particelle elementari. Ruini e Scola, Tomasi e Sanna, il paleoantropologo monsignor Fiorenzo Facchini e il demografo Gian Carlo Blangiardo, i filosofi morali Francesco Botturi e Paola Ricci Sindoni, la preside di Psicologia della Cattolica Eugenia Scabini, il giurista Francesco D’Agostino, il filosofo Sergio Belardinelli e il direttore di Tvsat 2000 Dino Boffo si sono confrontati con la culla del naturalismo, interrogandone la struttura ancipite.

A guidarli Amaldi, anch’egli membro del comitato, uno dei più noti fisici italiani, già coordinatore di un esperimento del Lep e da un ventennio impegnato con la fondazione per adroterapia oncologica Tera, a trasferire il know how del Cern nella lotta contro i tumori (l’ultimo nato è il centro Idra pediatrico): «Uno scienziato – ha spiegato – può interpretare la realtà esclusivamente attraverso il dato naturale, relegando l’uomo in un ruolo marginale, oppure può credere che esista un Creatore che mantiene nell’essere la natura com’è, creata e libera di evolversi, affinché vi si sviluppino forme di intelligenza sempre più complesse, fino alla condizione umana che è abitata dal libero arbitrio e dall’anima.

Questa visione non è in contrasto con il metodo scientifico: purtroppo la nostra società è imbevuta di questo naturalismo che afferma che tutto è solo natura, mentre il naturalismo aperto al trascendente ha un minore appeal». Riflessioni di spessore filosofico e teologico su cui il Comitato sta discutendo. «Noi cristiani abbiamo sempre parlato di liber naturae e di liber scripturae – ha detto Scola – e San Paolo sosteneva che i Romani non potessero essere giustificati perché avrebbero dovuto riconoscere la presenza di Dio dal creato».

Il porporato ha parlato anche di un “ripensamento” teologico sulla base della «trama meravigliosa dei risultati che queste scienze ci danno; diversamente, il tentativo di relegare Cristo al di fuori del creato risulta facile», giungendo ad auspicare «una teologia meno separata». Per Ruini «nulla implica che lo studio della natura precluda una dimensione diversa. Tommaso d’Aquino introdusse il concetto di media via per risolvere la grande questione del rapporto tra il cristianesimo e il pensiero aristotelico. Tommaso è ancora attuale. Aggiungo che le scienze aiutano gli epistemologi e i filosofi a studiare il funzionamento dell’intelligenza umana, come mi insegnava Bernard Lonergan».

A due passi, il direttore della ricerca del Cern Sergio Bertolucci: «Scienza e fede sono mosse dallo stesso desiderio di ricerca», ha assicurato. Poi tra il serio e il faceto: «Al Cern non produciamo atei».

QUEL MONDO DI MASCHERE AMATO DA PIRANDELLO

gennaio 27, 2012

La fortuna del maestro apprezzato anche da D´Annunzio all´inizio del Novecento, dal teatro alla letteratura. È continuo il contatto con l´espressionismo tedesco grazie al mecenate prussiano Franz Rose. Ha assorbito dai grandi autori del secolo scorso il tema del doppio, l´enigma dell´essere e dell´apparire

Carlo Alberto Bucci per “la Repubblica”

Nell´autoritratto del 1909 Adolfo Wildt fa aderire al proprio viso due sue ossessioni: la maschera e il dolore. Maschera del dolore è il titolo della raffinatissima scultura in marmo, icona dolente che diventa manifesto e sintesi di più linguaggi: l´arte, il teatro, la letteratura. E, attraverso una maschera vera e propria, non nell´accezione teatrale ma funeraria, l´artista sfida la morte.
Del resto, è con il titolo de La vedova che nel 1893 Wildt, 25enne, aveva esposto a Milano il ritratto della moglie Dina, anche lei raffigurata dal marito, che si fece passare per morto, attraverso un travestimento: quello della fedele schiava di Nerone Atte, che è l´altro titolo della scultura presente in due versioni, in marmo di Candoglia e di Carrara, alla grande antologica aperta a Forlì.
Uomo schivo, ossuto come i suoi personaggi virili, nato da una famiglia povera di Milano e cresciuto a bottega tra gli strumenti umili dello scultore, rimanendo tutta la vita legato alla dimensione spirituale e manuale dell´artista, Wildt ha assorbito dalla letteratura contemporanea il tema del doppio, l´enigma dell´essere e dell´apparire. E l´ha affidato alla figura arcaica della maschera. Dalle forme del teatro  giapponese sembra ad esempio derivare l´Idiota, in cui manca la parte del labbro inferiore e del mento a causa di un taglio netto, voluto, della scultura, come a sottolineare la funzione di oggetto scenico. L´opera fu comprata da Gabriele D´Annunzio nel 1925, stesso anno in cui Luigi Pirandello commissionava allo scultore milanese le maschere dei Sei personaggi in cerca d´autore. Wildt amava il teatro, l´opera soprattutto. E almeno due drammi di Wagner sono citati nei sui lavori: la Venusberg del Tannhäuser nel gruppo marmoreo di Pallanza; e il Parsifal nella sua ultima scultura, il Puro folle, esposta alla Quadriennale romana del 1931, anno della morte.
In contatto continuo nei primi anni del Novecento con la cultura tedesca grazie al contratto di esclusiva con il mecenate prussiano Franz Rose, Wildt ignora la matrice esotica dell´espressionismo tedesco e francese. Le orbite vuote non le desume dalle maschere africane. Ma le ottiene seguendo un principio di svuotamento del corpo dall´interno, secondo un “per via di levare” michelangiolesco della scultura che lo porta a fermarsi al limite estremo: quello della pelle, ossia la maschera. E se guarda alla plastica berniniana, oltreché a quella ellenistica e alla gotica, è per aprire attraverso la bocca la scultura alla vita: per far entrare la luce seguendo la via cava degli occhi.
Eseguiti mai dal vivo e sempre attraverso foto in bianco e nero che esaltano il chiaroscuro risentito, anche i visi di Mussolini, di Toscanini, della Sarfatti sono ritratti in (forma di) maschera. Ed esplicitamente lo è quello di Mariuccia Chierichetti del 1921, tramandato dalla rivista Emporium, o la Maschera di Cesare Sarfatti. Potenza evocativa ed allegorica di questa seconda, altra faccia era apparsa del resto, nel 1919, attraverso le maschere, nel monumento funebre del pittore Aroldo Bonzagni al Cimitero monumentale di Milano, raffiguranti Ironia, satira e dolore: tre volti “parlanti” quanti se ne contano nelle Maschere del dipinto del 1921 di Felice Casorati, pittore ammirato da Wildt. E due maschere appaiono in quella sorta di Giano bifronte che è Carattere fiero / anima gentile del 1912, dove lo scultore milanese contrappone i due aspetti della sua arte: la natura virile, sofferente; e quella femminile, luminosa e felice, anche se dotata delle micidiali trecce di un´altra maschera: Medusa.

Diritti Globali

Zakhòr, l’imperativo del ricordo nella tradizione ebraica

gennaio 26, 2012

Cecilia Nizza per “Il Corriere della Sera”

Il concetto di Zakhòr nella lingua ebraica
Di tutte le facoltà che l’uomo possiede, sicuramente la memoria è la più fragile, incerta, ingannevole. D’altra parte, l’essere umano si costruisce sulla memoria, senza la quale, come nel caso dei malati di Alzheimer, è come un albero senza radici. Proprio per questa sua labilità, la tradizione ebraica impone l’obbligo del ricordo, indicato con il termine Zakhòr. Questa parola ricorre per lo meno 169 volte nel testo biblico, in tutte le sue declinazioni e anche nel suo opposto, l’oblio. Ricordare e non dimenticare, di fatto, diventano sinonimi. La parola Zakhòr, “ricorda!”, è un imperativo di seconda persona singolare, che rimanda alla radice ZaKHaR (apparentata secondo i linguisti moderni a DaKHaR, “penetrare”, “pungere”, “infiggere”), che significa “maschio”, opposto a NeKeVà, cioè “foro”, “femmina”. ZaKHaR è quindi una cosa piantata nel cuore, che rimanda a SaKHaR, “chiusura”, simile al concetto di qualcosa che è custodito nel cuore, come se fosse una scatola ( La scrittura consonantica). «Tre volte all’anno ogni tuo maschio si presenterà davanti al Signore tuo Dio nel luogo che avrà scelto … e non si presenterà a mani vuote» (Deuteronomio, 16, 16). Commentando questo passo, che prescrive l’obbligo di tre pellegrinaggi all’anno al Santuario di Gerusalemme per portare offerte al Signore, alcuni Maestri invece di leggere “maschio” leggono “colui che ricorda” ( Bibbia, Torà, Talmùd). Significa che solo colui che risponde all’imperativo della memoria può accedere al sacro, avvicinarsi al Signore. Il rituale (pellegrinaggio e offerta al Santuario) ha significato solo se si combina con una visione etica della vita, fondata sul ricordo, che deve profondamente penetrare nella coscienza. Presentarsi davanti al Signore altro non è che guardare in sé, profondamente e sinceramente. E la memoria è la porta che consente questa presa di coscienza. Lo Zakhòr ebraico è un concetto religioso e riguarda quindi non solo l’uomo, ma anche Dio: è un imperativo che li lega in maniera indissolubile. E su questo imperativo si fonda la sopravvivenza del popolo ebraico e della sua identità, nonostante gli esili, le persecuzioni, i tentativi di sterminio, l’assimilazione. Di fatto per la tradizione ebraica la storia coincide con la memoria e, come si vedrà più avanti, è legata alla rivelazione divina, non sentita come fattore “mitico”, ma come presenza effettiva nella vicenda umana. La storiografia, come strumento principale di registrazione degli avvenimenti, qui non c’entra. Il senso della storia e il suo rapporto con la memoria In genere, quando parliamo di storia pensiamo alla storiografia, intesa come scienza che, attraverso la ricerca di documenti, testimonianze, si prefigge di ricostruire il passato di una certa civiltà. E quanto più questa è lontana dal presente, tanto più si ricorre all’apporto di altre scienze, quali l’archeologia, la paleontologia, la geologia, l’etnologia ecc. Al contrario, ai primordi della civiltà, il tempo mitico è sentito più del tempo storico, che acquista significato solo se si trasforma in mito. Nelle civiltà dell’Estremo Oriente, tempo e storia sono considerati illusori e la conoscenza autentica, da cui scaturisce la salvezza, avviene proprio in virtù di questa consapevolezza. Per il mondo greco la storia è ricerca, conoscenza, ma non le è mai stato attribuito un significato universale, una visione globale, una benché minima trascendenza. Per lo stesso Erodoto, considerato il primo storico, fare storia significa innanzitutto salvare la memoria dall’inesorabile erosione del tempo, cercare nel passato esempi edificanti e lezioni morali, ridare gloria a quanti con le loro azioni se la sono meritati. Il senso della storia è un’invenzione tutta ebraica. Per la prima volta si concepisce che nella storia avviene l’incontro tra umano e divino che mette fine al concetto deterministico della natura e dell’universo, dando vita alla dialettica tra le sfide lanciate dal divino e i tentativi di risposta dell’uomo. Il senso della storia nell’ebraismo sta proprio in questa interpretazione rivoluzionaria del divino. La storia si definisce nella dialettica permanente tra la volontà divina di un creatore onnipotente e il libero arbitrio dell’uomo, tra l’obbedienza e la rivolta. Il tempo mitico dell’Eden finisce con il “peccato” di Adamo ed Eva che scelgono di entrare nella storia, portando con sé però anche Dio. Da quel momento, il passato non è più collocato in un tempo mitico, ma si innesta in quello storico. Così Mosè può annunciare al popolo l’imminente liberazione dalla schiavitù dall’Egitto, non in nome del Dio creatore del cielo e della terra, ma in nome del Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe, uomini in carne e ossa, che la Bibbia colloca in contesti geografici precisi, di cui definisce con precisione la genealogia. E ancora, il primo comandamento, nel suo riferimento al Dio unico, lo indica come «Colui che ti ha fatto uscire dall’Egitto». Quindi Israele comprende chi è Dio da quello che ha fatto nella storia.
Funzione dello Zakhòr
Nel libro di Giosuè3 si parla dell’ingiunzione rivolta ai capi tribù di porre delle pietre per ricordare il passaggio del fiume Giordano all’entrata nella Terra Promessa. Ma poiché la memoria ebraica si esprime nel tempo piuttosto che nello spazio, queste pietre hanno lo scopo di sollecitare le domande dei figli ai padri e di sollecitare questi a trasmettere loro il ricordo di quell’evento, attraverso il racconto. E, dato che la storia non si ripete, le sue varie fasi non potranno essere rivissute se non attraverso il racconto di generazione in generazione, al punto che ognuno dovrà sentirsi come se vi avesse partecipato. Solo da questa continua trasmissione può nascere una memoria vitale, condivisa, una memoria vissuta sempre come presente. Il racc onto dell’uscita dall’Egitto La cena pasquale (Pésach è il nome ebraico della festa pasquale, la sua radice PaSaCH significa “saltare”) segue un rituale ben preciso chiamato Séder (ordine), durante il quale si legge un libro, la Haggadà, che non a caso si traduce con “racconto”, in cui si ripercorre la “storia” del popolo ebraico dal momento in cui Abramo abbandona la sua terra natale in Mesopotamia per andare «verso la terra che ti mostrerò» (Genesi, 12, 1). Durante la cena pasquale che ricorda l’uscita dall’Egitto del popolo ebraico, si recita sempre questo passo: «In ogni generazione ognuno deve considerare come se fosse lui stesso uscito dall’Egitto», a significare che ognuno deve rivivere in prima persona quell’evento, riaffermando così il legame tra l’individuale e il collettivo. È interessante notare che la Haggadà sceglie per raccontare la storia del popolo ebraico, da Abramo all’uscita dall’Egitto, un passo del Deuteronomio (26, 6-10) in cui gli avvenimenti sono narrati da «colui che porta le primizie al Tempio», da una persona cioè che non ha partecipato direttamente agli eventi. L’uscita dall’Egitto rappresenta il momento fondante della nascita della storia degli ebrei come popolo e il suo ricordo è il fondamento della loro fede e della loro esistenza ( Quattro sono i ricordi che l’ebreo deve conservare).
Memoria e oblio
Ma la memoria è anche selettiva. Non si può ricordare tutto. Anzi, la conoscenza avviene anche attraverso un processo di reminiscenza di ciò che si è dimenticato. Lo storico Yerushalmi porta l’esempio di due patologie simili nella loro opposizione. Se la perdita della memoria è grave, lo è altrettanto un eccesso di memoria, per cui non avviene mai la sedimentazione di ricordi precedenti, ma nella mente del malato affiorano tutti contemporaneamente, provocando uno stato confusionale. Ora, il divieto di dimenticare, nella tradizione ebraica, riguarda tutto quanto può interrompere quella trasmissione che assicura la sopravvivenza identitaria, in sostanza, l’etica e la legge. Un esempio: del potente re di Giuda, Manasse, la Torà si limita a dire «Fece ciò che è male agli occhi del Signore». Nulla di più. Ciò che conta è non dimenticare come si è svolto il passato. L’unico caso in cui è prescritto l’obbligo di cancellare un ricordo si riferisce ad Amalèk.
Lo Zakhòr e il Giorno della Memoria
Nella società ebraica secolarizzata dei nostri giorni si è persa questa nozione tradizionale di memoria. Questo vale soprattutto per la Shoah, che ha costituito una cesura delle sue forme originarie, di cui fa parte anche il valore vitale dell’oblio. Se fino ad allora, ogni evento, ogni catastrofe successivi al racconto biblico venivano interpretati in base a quel modello che vedeva comunque la presenza divina, con Auschwitz si è imposto il principio che nessun oblio è consentito. E del dovere di memoria si sono fatti carico i sopravvissuti, anche se a volte questa memoria è muta, per l’impossibilità a tradursi in linguaggio, a causa degli orrori che hanno ucciso, come dice Elie Wiesel, la parola.

Mai dimenticherò quella notte, la prima notte nel campo, che ha fatto della mia vita una lunga notte e per sette volte sprangata. Mai dimenticherò quel fumo. Mai dimenticherò quei piccoli volti dei bambini di cui avevo visto i corpi trasformarsi in volute di fumo sotto il cielo muto. Mai dimenticherò quelle fiamme che consumarono per sempre la mia Fede. Mai dimenticherò quel silenzio notturno che mi ha tolto per l’eternità il desiderio di vivere. Mai dimenticherò quegli istanti che assassinarono il mio Dio e la mia anima, e i miei sogni, che presero il volto del deserto. Mai dimenticherò tutto ciò, anche se fossi condannato a vivere quanto Dio stesso. Mai. Elie Wisel, La notte

La differenza rispetto al passato è in quella assenza di Dio, sentita da quelle vittime cresciute nel solco della tradizione come lo scandalo maggiore, e nella nascita della figura del sopravvissuto-testimone, solo depositario di quella memoria, laddove la tradizione ebraica ha insegnato che ognuno deve farsi testimone tra passato e presente, per non interrompere la trasmissione di generazione in generazione sui cui si fonda l’identità ebraica. Oggi viviamo paradossalmente in un’epoca in cui si dà grande importanza alla memoria. Da quando è stato istituito il Giorno della Memoria delle vittime della Shoah, altre giornate sono state stabilite per ricordare avvenimenti che hanno sconvolto la storia del XX secolo, creando quella «mistica della memoria», come la definisce lo storico Georges Bensoussan, che rischia di portare all’esatto contrario dello scopo che si prefigge, cioè a un’amnesia collettiva. Proprio per le forme spettacolari che ha assunto, questa memoria tende ad avvolgere i crimini compiuti di un’aura arcaica e ancestrale, isolandoli dal loro contesto storico reale, facendo così dimenticare che furono il prodotto più violento della nostra modernità. Tuttavia, un fatto inaspettato sembra interpellare la coscienza ebraica contemporanea laicizzata e reinserire il dovere di memoria della tragedia recente nel solco della tradizione. Il 27 gennaio 1945, giorno in cui Auschwitz fu liberato dall’Armata Rossa, era un sabato. Dai tempi del ritorno dall’esilio babilonese nella Terra di Israele, nel VI secolo E.V., il sabato avviene la lettura pubblica della Torà, il cui testo è suddiviso in un numero di sezioni (parashòt) tali da coprire il ciclo di un anno. Ebbene, quel sabato, il brano in questione era quello dell’uscita dall’Egitto e del ricordo di ciò che fece Amalèk. Che significato dare a questa che sembra essere una coincidenza? Nel momento della massima sofferenza, quell’episodio archetipico, con il suo messaggio di vita e di liberazione, ma anche con il suo monito a non dimenticare chi si è reso responsabile di tanto male, indica come la memoria di quel tragico evento non debba esaurirsi nella sola celebrazione, ma penetrare nell’intimo e nell’anima di ognuno di noi. Zakhòr non è forse un imperativo di seconda persona?

Online la lista degli ebrei finiti nei lager

Antonio Carioti per “Il Corriere della Sera”

Sono online da oggi, all’indirizzo www.nomidellashoah.it . Adulti, anziani e bambini, maschi e femmine. Sono i nomi e i dati anagrafici dei circa 7.200 ebrei italiani che vennero deportati dai nazisti durante l’occupazione tedesca dell’Italia tra il 1943 e il 1945.
In grande maggioranza perirono nei lager, meno di un migliaio riuscirono a salvarsi: «A differenza di quanto hanno fatto siti analoghi realizzati in altri Paesi (Israele, Francia e Olanda), abbiamo deciso di mettere sul Web anche i dati dei sopravvissuti, perché furono comunque perseguitati e deportati» precisa Liliana Picciotto, autrice del Libro della Memoria (Mursia) che costituisce la base da cui è partita questa iniziativa del Centro di documentazione ebraica contemporanea (Cdec) per il giorno che celebra l’apertura dei cancelli di Auschwitz da parte dei sovietici, il 27 gennaio 1945. Mancano al momento gli ebrei dell’isola greca di Rodi (all’epoca possedimento italiano), che furono deportati in massa: sono altri 2.000 nomi che dovrebbero aggiungersi nel corso del 2012: «In agosto siamo andati a Rodi e abbiamo raccolto i dati: si tratta solo di avere il tempo di elaborarli».
Sempre quest’anno l’elenco delle vittime italiane sarà consegnato, nel corso di una cerimonia ufficiale, al sacrario israeliano dell’Olocausto, dove è stato allestito, all’interno del sito http://www.yadvashem.org, il Database of the Shoah Names Victims, in cui si possono già consultare i dati di circa tre milioni di persone sterminate.
Il sito italiano si apre con una schermata di circa ottanta nomi, scritti in corsivo: «È il nostro omaggio alle vittime — spiega Liliana Picciotto — una sorta di monumento digitale. Ogni giorno la homepage cambierà, con nuovi nominativi in ordine alfabetico, fino a completare l’elenco. Poi si ricomincerà da capo. Invece alla maschera di ricerca per trovare i singoli individui abbiamo dato una forma sghemba, in modo da esprimere il senso di disagio che si prova di fronte a un crimine così immenso: c’è anche la copertina del Libro della Memoria, come segno di riconoscimento nei confronti dell’editore Mursia, che si prese molti anni fa l’impegno di pubblicare il mio lavoro».
Di ogni vittima si trovano la data, il coniuge, il luogo d’arresto e quello di deportazione. Per una parte è disponibile anche la fotografia. «Il sito — precisa Liliana Picciotto — non è rivolto soltanto agli studiosi, che potranno facilmente accedere ai nostri dati da ogni parte del mondo, ma anche ai parenti dei deportati, nella speranza che possano fornire ulteriori notizie sui loro cari e magari foto di famiglia in cui siano effigiati, per arricchire la documentazione e dare ancora di più il senso di quella spaventosa tragedia».

Informazione Corretta

L’inglese che permise la liberazione della Sicilia

gennaio 26, 2012

Ewen Montagu

Antonella Colonna Vilasi per “Libero

Nel 1943 Ewen Montagu, giovane ed affascinante ufficiale dell’intelligence della Royal Navy  ebbe l’idea di impiegare un cadavere per convincere i tedeschi che lo sbarco alleato sarebbe avvenuto in Grecia ed in Sardegna. Secondo Montagu sarebbe stato sufficiente trovare il cadavere di un uomo giovane morto per annegamento, mascherarlo da ufficiale della Royal Navy, e lasciargli addosso una cartella contenente documenti segreti dai quali far emergere che gli Alleati sarebbero sbarcati in Grecia; ed infine spingere il cadavere verso le coste spagnole al largo di Huelva (per farlo finire nelle mani del controspionaggio tedesco).

I sotto-ufficiali al comando di Montagu si recarono in ospedali e obitori alla ricerca di un cadavere adeguato. Alla fine scelsero un giovane  uomo morto per annegamento nel Tamigi. Era un clochard 34enne gallese, Michael Glyndwyr, analfabeta. Glyndwyr si era tolto la vita. E senza volerlo era entrato nella storia dei servizi segreti di Sua Maestà. Lo sconosciuto cadavere diventò quindi William Martin, capitano del corpo dei fucilieri marini. Nella cartella che il corpo esanime portava al collo vi era un falso carteggio tra Sir Archibald Nye, vicecapo di stato maggiore imperiale e il generale Harold Alexander, comandante di corpo d’armata in Tunisia.

Le altre due lettere erano indirizzate da Lord Mountbatten a Eisenhower. Churchill, in visita a Washington, riceve da Montagu il seguente telegramma: “Carne tritata ingoiata interamente”. Telegramma che rimarrà nella storia. Il successo del piano di Montagu emergerà a guerra finita, quando negli archivi nazisti si troverà un dossier da cui emerse che i militari tedeschi fossero convinti dello sbarco Alleato in Grecia. All’inizio di giugno del 1943 gran parte della flotta tedesca lasciò la Sicilia con destinazione il mar Egeo. Le corazzate furono concentrate al largo di Kalamata e di Capo Araxos, in vista dello sbarco. Anche il generale tedesco Rommel stabilì il suo quartiere generale in Grecia. Gli strateghi nazisti rimasero di stucco quando gli Alleati, nella notte tra il 9 e il 10 luglio, sbarcarono in Sicilia.

Alain Elkann, il viaggio degli scrittori ebrei nel ‘900 italiano

gennaio 26, 2012

Mattia Bernardo Bagnoli per “La Stampa

Gli italiani ebrei come «cinghia di trasmissione» fondamentale della cultura italiana del Novecento. La tesi è chiara e gli esempi tra scrittori, critici, editori e in generale intellettuali a tutto tondo non mancano. La lista è lunga e Alain Elkann, nel suo intervento all’ambasciata italiana a Londra, dove si è tenuta la presentazione del volume Accident of Fate di Imre Rochlitz, ha operato una cernita accorta, quella che meglio illustra il viaggio della letteratura di stampo ebraico in Italia. Tanto integrata al resto della coscienza collettiva che spesso e volentieri non viene neppure riconosciuta come tale. Ma italiana punto e basta.

Più che storia della differenza, pur tra integrazioni e discriminazioni, è dunque una storia d’incontri. Il risultato è un percorso narrativo che parte da Italo Svevo – il padre della «letteratura europea in Italia», che non a caso si scelse quel nome di penna per far capire subito, lui triestino e «praticamente austriaco», da che parte stava – a Alessandro Piperno. Nel mezzo Moravia, Primo Levi e Carlo Levi, Natalia Ginzburg, Giorgio Bassani. Grandi della letteratura italiana (ma non solo) che interpretano, ciascuno a modo suo, l’epopea del Novecento dal loro osservatorio privilegiato di «ebrei, mezzi ebrei, religiosi o laici». E che comunque, in quanto artisti, sono spesso «anticipatori di eventi». Allo stesso tempo, però, in quanto ebrei, vivono la contraddizione e la pena delle leggi razziali imposte dal fascismo «senza rinunciare alla loro identità, alla loro lingua». Anche quando vanno in esilio. Così facendo diventano parte integrante della storia nazionale e la loro «differenza» il più delle volte resta un dettaglio biografico.

Ecco allora che nell’incontro dedicato al «contributo degli scrittori ebrei alla letteratura italiana del Novecento» emerge un tratto che in fondo si diluisce nel turbinio della modernità nostrana: il valore internazionale di questi autori. «Da italiani – dice Elkann – dovremmo essere orgogliosi di avere una delle più importanti letterature ebraiche del mondo, scritta in italiano». Sia che ruoti intorno a tematiche più strettamente ebree, come fa Primo Levi nel suo racconto della Shoah, sia che si concentri su fatti italici, nel caso di Moravia. L’osmosi è quindi totale. Tanto da arrivare al caso limite «dell’ebreo fascista», che pure esiste. Nella sua declinazione «quasi malapartiana», come Dino Segre alias Pitigrilli, o in quella stoica di Ettore Ovazza, zio di Alain Elkann, che finisce «bruciato in una caldaia di Ispra» per aver denunciato, lui fascistissimo, le leggi razziali come crimini contro lo Stato.

Una storia vissuta appieno che proprio per questo, per certi versi, spiega anche il paradosso della vicenda di Rochlitz, che da ebreo croato si salva grazie alla protezione garantita nelle zone occupate dagli italiani – e proprio nel momento in cui tanti ebrei nel loro Paese si vedevano invece minacciati.

Shoah, in mostra le carte della Demorazza e le liste date ai nazisti per le deportazioni

gennaio 26, 2012

Decine di documenti rari e d’epoca esposti per la prima volta a Roma dall’Archivio di Stato: dalle schede del censimento con nomi e indirizzi degli ebrei alle circolari del ministero dell’Interno sui divieti previsti dalle leggi razziali fino ai giornali della propaganda antisemita

Laura Larcan per “la Repubblica

Poco prima dell’estate del 1938 il ministero dell’Interno trasformava l’Ufficio demografico centrale in Direzione generale per la demografia e razza, la famosa “Demorazza”, col compito di dirigere la politica antisemita. Tra le prime iniziative messe in campo ci fu quella di realizzare un censimento di tutti gli ebrei presenti a Roma e in Italia. E alcune di quelle schede del censimento ordinato dal regime fascista, dove figurano nomi e cognomi, data, luogo di nascita e residenza di cittadini romani di religione ebraica, vengono esposte per la prima volta all’Archivio di Stato di Roma, che il 27 gennaio celebra la Giornata della Memoria con l’esposizione di una sessantina di documenti rari ancora in larga parte da studiare, selezionati tra quelli originari dei fondi della Questura e della Prefettura di Roma.

“Le schede del censimento sono proprio quelle che permisero ai tedeschi di effettuare la razzia del 16 ottobre del ’43 al Ghetto e in altri quartieri di Roma, avendo liste precise per individuare, arrestare e deportare “, racconta Manola Ida Venzo, coordinatrice dell’evento con Augusto Pompeo.

Le schede sono solo alcune delle testimonianze più suggestive della mostra “La persecuzione degli Ebrei a Roma. Documenti e voci” – allestita per due settimane nella Sala Alessandrina – che ripercorre la politica antisemita dal 1938, anno dell’emanazione delle prime leggi razziali, al 1945, attraverso testi emersi da un’accurata ricerca compiuta dallo staff dell’Archivio diretto da Eugenio Lo Sardo (Elvira Grantaliano, Luigi Arbia, Simonetta Ceglie, Carla Cerati, Rosanna Dominici, Paola Ferraris, Roberto Leggio, Antonella Parisi, Luca Saletti, Luisa Salvatori).

Si possono leggere le circolari originali inviate dal Ministero dell’Interno a Questura e Prefettura di Roma per ricordare i divieti sanciti dalla normativa antiebraica: “Sono testi che ribadiscono in modo capillare, ossessivo e grottesco i vari divieti in cui incorrevano gli ebrei – dice Venzo – . Oltre ai divieti di svolgere professioni, all’istruzione nelle scuole del regno, a possedere proprietà mobili e immobili, si estendevano anche ad aspetti minimi della vita associativa e relazionale. Per esempio, si vietava l’accesso a biblioteche, ma anche a luoghi di villeggiatura di lusso frequentati da ariani, o di dormire in dormitori pubblici. Una delle circolari più ridicole ribadiva che gli ebrei non potevano partecipare ad associazioni per la protezione degli animali. Sono testi che evidenziano lo scopo perseguito dal fascismo, cioè l’isolamento dal resto della collettività”.

Accanto alle circolari, spiccano giornali d’epoca che fomentavano la propaganda antisemita, come “La difesa della razza”. Tra gli atti dei processi ai collaborazionisti che si svolsero nel ’46, è stato ritrovato un opuscolo diffamatorio contro Celeste Di Porto, chiamata Stella per la sua bellezza, poi soprannominata “Pantera nera”, controversa e spregiudicata figura di ragazza ebrea romana che passò tristemente alla storia per aver denunciato ai tedeschi i suoi correligionari. Condannata nel Dopoguerra, ha beneficiato dell’amnistia per poi far  perdere le sue tracce.

Sempre nei fascicoli dei processi spiccano lettere di un giovane deportato a Fossoli, scritte alla fidanzata collaborazionista, poi assolta per mancanza di prove: “Tra queste abbiamo ritrovato una lettera mandata di nascosto, scritta in codice, metà a penna e metà a matita – dice Venzo -Per paura che venisse intercettata, il ragazzo si finge un’amica della destinataria che vuole liberarsi del marito, ossia i tedeschi, che vuole obbligarla a seguirlo contro la sua volontà. Il ragazzo finirà in un lager tedesco e morirà”.

Tra le curiosità proposte dall’Archivio di Stato anche la mappa del percorso trionfale di Hitler quando arrivò a Roma l’8 maggio 1843: “Il corteo parte dalla stazione Ostiense, dove Hitler arriva in treno e viene ricevuto dal re e da Mussolini, e raggiunge piazza Venezia passando per il Colosseo e via dell’Impero fastosamente illuminati. E’ la mappa originale della prefettura, studiata per provvedere alla sicurezza del percorso”, racconta Venzo.

Ancora in mostra, le richieste-suppliche da parte degli ebrei: “La normativa imponeva divieti, ma prevedeva anche deroghe per gli ebrei discriminati, in un’accezione positiva, per vari meriti, tra chi aveva servito la patria nella prima guerra mondiale o era iscritto al partito fascista. In quei casi potevano vedersi accordare dei permessi. In mostra ci sono richieste per tenere un apparecchio radio o una cameriera ariana”.

In occasione della Giornata della Memoria, venerdì 27 gennaio, l’Archivio di Stato collaborerà con gli attori del teatro Valle Occupato per la lettura dei documenti con l’interpretazione dell’attrice Veronica Visentin (Sant’Ivo alla Sapienza, Corso Rinascimento 40, dalle ore 11, ingresso libero).

“Sono diventato scrittore per paura”

gennaio 25, 2012

Tommaso Pincio

Tommaso Pincio per “Il Corriere della Sera

Da sempre è un mio chiodo fisso. L’eventualità della sconfitta, di un crollo definitivo, di una caduta rovinosa e senza appello. E dicendo «da sempre» intendo dalla notte dei miei tempi; i tempi in cui ero un bambino a malapena capace di parlare. Ricordo troppo bene, infatti, come sussultassi alla vista di un mendicante in strada. Ricordo come stringessi la mano di mia madre o m’aggrappassi al suo abito nel fissare con occhi sbarrati il povero disgraziato vestito di stracci, sporco, puzzolente. E ricordo con quale metodo contassi le monete lasciate dai passanti nel recipiente per la questua. È probabile che non sapessi nemmeno contare, tanto ero piccolo. Nondimeno in qualche maniera contavo, soppesavo sconvolto la magrezza del bottino. E non per pietà, sia chiaro. Nulla m’importava dello sventurato che scrutavo atterrito. Il mio turbamento scaturiva unicamente dal puro egoismo, dal terrore, tremendo e forte, di precipitare nelle stesse miserevoli condizioni una volta diventato adulto.

Per quale motivo questa paura abbia attecchito in me con tale precocità è un mistero. So soltanto quel che avrei voluto dire quando mi si interrogava circa il cosa volessi fare da grande. Che domanda stupida e insopportabile. Niente: ecco cosa avrei voluto dire. Un bel niente. Cosa volessi fare rappresentava pochissima cosa, una risibile inezia al confronto del cosa non volessi fare. E quanto a questo, quanto al cosa non volessi fare, avevo idee molto definite: di sicuro non volevo fare il barbone, l’uomo che va a vivere sotto i ponti. Ma non era così che rispondevo, s’intende. La tenera età non mi impediva di intuire che era meglio glissare, eludere. Cercavo allora di immaginare quale mestiere mi mettesse più al riparo da un destino di elemosina e non appena ne individuavo uno, quello dicevo. Ne individuavo parecchi, debbo dire, dal muratore al medico, ma nessuno di essi corrispondeva alle mie inclinazioni.

Il fatto che sdegnassi tanti lavori non prometteva nulla di buono. Difatti la mia vita ha seguito un corso contrario alle premesse. Viste le mie paure, logica avrebbe voluto che studiassi e mi ingegnassi per accedere a una professione ben remunerata, o perlomeno a un impiego sicuro, garante di una retribuzione costante e dignitosa. Non è stato così. Perversamente, come una vittima in cerca di carnefice, dapprima ho inseguito il sogno dell’arte, quindi mi sono consegnato alla letteratura. In altri termini, mi sono rivolto a due perfetti generatori di incertezze, due tra le più precarie attività cui un individuo possa dedicarsi. Certo, si danno molti casi di scrittori e soprattutto di artisti che hanno sguazzato lontani dall’indigenza grazie ai danarosi frutti del loro estro creativo. Casi del genere mi erano di conforto nei miei pensieri di studente di Accademia. Purtroppo finivano per prevalere esempi di tutt’altra natura. Mi veniva più spontaneo pensare a pittori intirizziti in soffitte gelide, affamati e incompresi, accoppiati a donne più vilipese di loro, ragazze di strada o di bordello, tisiche, o meglio ancora sifilitiche.

La scrittura giunse molto dopo. Mi avventurai nel mio primo romanzo quando ero ormai prossimo a traguardare il trentacinquesimo anno. Mi avvicinavo cioè alla sommità dell’arco cui Dante paragona le vite terrene e non c’era pertanto più alcun bisogno che lavorassi di fantasia. La mia esistenza aveva imboccato di propria iniziativa la discesa di un naturale, inesorabile crollo, il decadimento fisico. Alla paura di ritrovarmi sprovvisto di denaro si aggiunse quindi quella degli anni che passavano. «Perdo tempo come si perde il sangue» recita una breve poesia di Tommaso Landolfi, e fu per l’appunto questo lo stato d’animo con cui scrivevo: la sensazione di dover fare presto, perché avevo tergiversato troppo, perché avevo dissipato gli anni migliori nell’attesa di un’occasione. Scrivevo pensando ai minuti sprecati facendo niente, ai minuti che diventano ore e alle ore che diventano giorni. Scrivevo pensando alle serate sprecate bivaccando in un pub, discutendo con gli amici delle cose che avremmo dovuto fare da adulti, poco considerando che lo eravamo già, adulti. Scrivevo, infine, pensando ai mesi, e dunque agli anni, sprecati facendo il lavoro che facevo.

Che lavoro facevo? Lavoravo presso una galleria d’arte contemporanea all’epoca. Nominalmente la mia qualifica era quella di direttore, un elegante eufemismo per significare che la galleria non era mia, che ero un semplice dipendente. Volendo chiamare la cosa col suo vero nome, tuttofare sarebbe termine più corretto, perché in effetti proprio questo facevo: di tutto. Attaccavo quadri alle pareti. Attaccavo i francobolli sugli inviti da spedire in occasione di un vernissage. Attaccavo discorso coi visitatori per cercare di capire se fossero intenzionati ad acquistare qualcosa. Pensandoci meglio, mi sa che facevo l’attaccatore. Non era un lavoro malvagio, tutt’altro. Ma lo consideravo comunque una perdita di tempo dalla quale affrancarsi al più presto.

Fu nei momenti morti del mio lavoro di attaccatore che iniziai a scrivere il primo romanzo. Lo scrissi con foga, ansioso di finirlo. Spesso mi trattenevo in galleria oltre l’orario di chiusura, facendo le ore piccole davanti al computer. Scrivere di notte nel mio posto di lavoro mi riportava alla memoria Il deserto dei tartari. Lo avevo letto diversi anni prima, quand’ero poco più di un ragazzino, restando colpito dallo sconsolante destino di immobilità e perenne attesa che affligge il protagonista, un giovane militare che spreca l’intera esistenza in una fortezza lontana da tutto.

Ancor più mi aveva colpito e inquietato l’introduzione. Vi si diceva che Dino Buzzati concepì Il deserto dei tartari ispirandosi alla redazione del «Corriere della Sera», dove aveva lavorato di notte per alcuni anni. Il ricordo dello scrittore era quello di un impegno pesante e monotono: «I mesi passavano, passavano gli anni e io mi chiedevo se fosse andata avanti sempre così, se le speranze, i sogni inevitabili di quando si è giovani, si sarebbero atrofizzati a poco a poco, se la grande occasione sarebbe venuta o no, e intorno a me vedevo uomini, alcuni della mia età altri molto più anziani, i quali andavano, andavano, trasportati dallo stesso lento fluire e mi domandavo se anch’io un giorno non mi sarei trovato nelle stesse condizioni dei colleghi dai capelli bianchi già alla vigilia della pensione, colleghi oscuri che non avrebbero lasciato dietro di sé che un pallido ricordo destinato presto a svanire».

La ragione per cui queste parole mi erano rimaste tanto impresse andava al di là del monito che esprimevano. Mio padre gestiva un’edicola nel quartiere Prati, a Roma. Vi passavo intere giornate da bambino, in particolare d’estate quando potevo giocare al giornalaio. Piegavo i quotidiani, li sistemavo nell’espositore e li vendevo. Tra i più venduti c’era proprio il «Corriere della Sera», il quotidiano preferito da avvocati e magistrati. L’edicola era infatti situata nei pressi di palazzo di Giustizia, ora sede della Cassazione. Vendevo il «Corriere» a questi signori austeri e vestiti di scuro e poi li vedevo avviarsi verso quell’architettura tetra, enorme, quell’edificio costruito nell’Ottocento e noto ai romani come Palazzaccio per via del suo aspetto tozzo, sgraziato, così sproporzionato che al suo cospetto anche l’uomo più alto sembrava un nano.

Nelle mie fantasie infantili prese quindi corpo l’idea che il Palazzaccio e il «Corriere della Sera» fossero una cosa sola. Credevo che tutti quei signori venissero ad acquistare il giornale per controllare che le notizie fossero state stampate a dovere, senza errori. Loro, i controllori, lavorano di giorno, mentre giornalisti, redattori e stampatori lavoravano di notte. Li immaginavo dirigersi verso il Palazzaccio, i giornalisti, all’imbrunire. Procedevano in fila indiana, a capo chino, avvolti in lunghi cappotti grigio scuro. Per qualche motivo, li immaginavo piùminuti dei controllori, così minuti che per sedersi alla propria postazione dovevano servirsi di una scaletta. Anche le macchine da scrivere erano troppo grandi per le loro piccole dita e così pigiavano i tasti con la mano intera. In effetti, più che pigiare, picchiavano. Picchiavano i tasti come si dà un pugno su un tavolo e io vedevo queste sale enormi, queste sconfinate distese di tavoli e questi piccoli uomini alle loro macchine da scrivere illuminati da lampade sferiche. Sollevavano i loro braccini per poi abbattere i loro piccoli pugni sui tasti. Sembravano una schiera di suonatori di tamburi.

Fu inevitabile, leggendo la prefazione a Il deserto dei tartari non potei non riportare alla mente questo scenario kafkiano, che si sovrappose così alla figura di Buzzati e al suo monito, al bisogno affannoso di lasciare un segno, di non lasciarsi portare via dal passare degli anni. Altrettanto inevitabile fu che nello scrivere il mio primo romanzo mi sentissi spesso come i piccoli uomini del «Corriere», quelli che immaginavo rinchiusi nottetempo negli stanzoni del Palazzaccio. A tutto ciò si unirono le mie paure infantili di fallire, l’eventualità per nulla remota che potessi fallire, che non riuscissi a finire il mio romanzo o, cosa ancor più probabile, che nessuno volesse pubblicarlo.

Per giunta, il mio lavoro di attaccatore mi offriva pretesti in abbondanza per alimentare simili timori. Tra i visitatori più assidui della galleria c’erano infatti gli aspiranti artisti. Si presentavano tremanti col loro portfolio di opere perlopiù insulse, nella ingiustificata speranza di esporle. La maggioranza di costoro era a tal punto impaurita da non spiccicare parola. Non mancavano tuttavia i tipi aggressivi, gli esagitati, e nemmeno i puri e semplici invasati. Gestire quei colloqui era penosissimo, giacché io ero più terrorizzato di loro. Non avrei potuto non esserlo; quegli aspiranti artisti erano uguali ai mendicanti che mi spaventavano da bambino. L’unica quanto non sostanziale differenza era che, al posto di qualche spicciolo, elemosinavano un briciolo di attenzione.

Finché un giorno (stiamo parlando dei primissimi anni Novanta) entrò in galleria un autentico mendicante. Mi disse di essere un artista. L’osservai. Gli occhi erano velati dalla stessa pellicola traslucida che vela lo sguardo dei pazzi. Il volto, una caricatura scolpita nel legno, aveva invece qualcosa di buffonesco; mi ricordava Totò. La cosa che più mi sconcertò fu però un’altra. Non aveva con sé un portfolio. «Mi vuoi mostrare il tuo lavoro?». Domandai. Lui scosse il capo. «No, mi servono soldi». Mi spiegò che aveva in animo di trascorrere qualche mese a New York. Un soggiorno di studio o una vacanza. Magari un po’ uno e un po’ l’altro. «Ancora non so bene. Dipende dalla somma che metterò insieme». Mi chiese duecentomila lire. Ero impietrito. «Farò una targa» aggiunse. «Una targa in tiratura limitata recante i nomi dei benefattori che mi hanno finanziato il soggiorno. Tu avrai diritto a un esemplare ovviamente». Cercai di guardarlo meglio nell’intento di stabilire se parlasse sul serio. Alla fine staccai un assegno che lui prese ripetendo in quale modo il contributo sarebbe stato ricordato. Sì vabbe’, pensai nel salutarlo.

Credo superfluo precisare che non si trattò di un nobile atto di mecenatismo, bensì di un’elemosina. Con quell’assegno avevo sancito in termini netti una differenza tra me e un accattone. Che nemmeno io me la passassi granché bene, che fossi soltanto un risibile attaccatore di galleria con un romanzo nel cassetto (per giunta, ancora incompiuto), era secondario. La possibilità di esibirmi in un gesto munifico mi consentiva di farmi sentire migliore, più fortunato. Ero uno che poteva dare, mentre lui uno costretto a chiedere. Insomma, al prezzo di duecentomila lire avevo tenuto a distanza il mio terrore di sempre. Mi ero rassicurato: non ero un mendicante. E cosa sono duecentomila lire in cambio di una tonificante rassicurazione?

La storia ha un seguito. Molto tempo dopo, quando ormai mi ero dimenticato sia dell’accattone che somigliava a Totò, sia delle duecentomila lire (l’euro era entrato in vigore da un pezzo), un amico mi disse: «Ma lo sai che sei in un’opera di Maurizio Cattelan?». Anche stavolta pensai a uno scherzo. Non capivo come potessi finire nell’opera di un famoso artista col quale non avevo rapporti. Al che l’amico mi mostrò un volume nel quale era riprodotta un’opera, peraltro a me nota. Non l’avevo mai osservata con attenzione però. Si intitolava Fondazione Oblomov e consisteva in una targa recante vari nomi. C’era anche il mio. Immeritatamente, ma c’era. La targa era affissa a un muro dell’Accademia di belle arti di Brera. Nel volume si spiegava che Cattelan aveva dato vita a una performance: raccogliere diecimila dollari da assegnare all’artista che si fosse astenuto per un anno dall’esporre. Siccome gli artisti selezionati si erano rifiutati di accettare il premio, Cattelan lo aveva incamerato d’ufficio e si era trasferito a New York col malloppo. Feci una smorfia. Il mio ricordo era un poco diverso. Ma soprattutto non avevo mai ricevuto l’esemplare che mi era stato promesso.

Un robot e 24mila fotografie sveleranno i segreti di Guernica

gennaio 25, 2012

Guernica

Un macchinario cartesiano indagherà l’opera: immagini con dettagli a 3,5 micron per conoscere lo stato di salute del capolavoro di Picasso e scoprire i disegni “nascosti” dal maestro. Intanto è polemica tra il Reina Sofia e il Prado, che vuole appropriarsi del capolavoro

da “la Repubblica

Un’indagine fotografica dettagliata come non mai, per svelare tutti i segreti della “Guernica” e accertarne lo stato di salute. Eseguita non da un umano ma da un robot. L’operazione ha preso il via in questi giorni nel Museo Reina Sofia di Madrid, dove il capolavoro di Pablo Picasso, icona artistica e non solo del Ventesimo Secolo, è esposto da sempre. La più dettagliata analisi mai realizzata su quest’opera, e la prima per mezzi usati in assoluto, coincide con il settantacinquesimo anniversario dell’opera, che il genio spagnolo creò nel 1937, a documentare da par suo gli orrori della guerra civile che portò al lungo periodo franchista.

Davanti alla tela è quindi stato installato un “robot cartesiano”, cioè capace di muoversi sui tre assi corrispondenti alle tre dimensioni spaziali:  una struttura lunga nove metri e alta 3,5 che, cioè quanto la stessa opera firmata da Picasso, che da qui a giugno scatterà oltre 24mila fotografie ad altissima risoluzione (precisione di 3,5 micron) di ogni centimetro quadrato del Guernica, a luce naturale, con gli ultravioletti, a raggi infrarossi. Il progetto “Viaggio all’ interno del Guernica”, finanziato da una multinazionale spagnola, consentirà in primo luogo, ha precisato oggi il direttore del Museo Reina Sofia Manuel Borja-Villel, di fare il punto sullo stato della tela. L’ultimo studio approfondito risale al 1998, da parte degli esperti del reina Sofia, che avevano parlato di “condizioni di conservazione molto precarie”, a causa in particolare dei numerosi viaggi compiuti dal Guernica in giro per il mondo fino al suo rientro in Spagna dopo la morte del dittatore Francisco Franco.

Picasso dipinse il suo capolavoro assoluto a Parigi per il padiglione del governo repubblicano spagnolo all’Esposizione universale del 1937, mentre nel paese era in corso il bagno di sangue della Guerra Civile. Illustra gli orrori subiti dalla popolazione civile ad opera dei ribelli di Franco e dei loro alleati tedeschi e italiani, che avevano da poco bombardato e raso al suolo la cittadina di Guernica, simbolo della cultura basca. Lo studio consentirà anche di ricostruire con esattezza i vari strati dell’opera, le prime figure dipinte da Picasso e poi coperte da altre, le pennellate, e quindi darà la possibilità di una ricostruzione in 3D del quadro. Durante i lavori di ‘dissezione’ del Guernica le visite non saranno interrotte. Il robot entrerà in funzione ogni notte dopo la partenza degli ultimi visitatori del museo.

La polemica con il Prado. E proprio la fragilità di Guernica è il motivo definitivo per non spostarla. Mai più. E’ questa la risposta implicita del direttore del Reina Sofia alla richiesta avanzata dal Prado, l’altro grande museo madrileno. Il suo direttore, Miguel Zugaza, la reclama. “Per volontà di Picasso – dice – doveva andare al Prado. “Quando Picasso espresse le sue volontà, non esisteva il Reina Sofia”. Il direttore Prado aveva già proposto l’anno scorso di spostare il Guernica al Cason del Buen Retiro, una dependance del museo, che lo aveva ospitato già nel 1981. Ma il Reina Sofia, con l’ appoggio del governo dell’allora premier Josè Luis Zapatero, aveva respinto seccamente l’idea, sostenendo che il quadro oggi è troppo fragile per potersi muovere.  Il direttore del Reina Sofia Miguel Borja-Villel, ha ribadito oggi il ‘no’ a uno spostamento del capolavoro di Picasso. “La questione è chiusa, non c’è discussione possibile”, ha replicato a Zugaza. “Guernica ha bisogno di un suo luogo proprio, contestualizzato negli anni ’30. Toglierlo da questo museo vorrebbe dire toglierlo dal suo contesto” ha tagliato corto. A giugno, poi, il Reina Sofia ospiterà una grande mostra che ruota proprio intorno a Guernica e al padiglione spagnolo dell’Expo’ del 1937.

Una carriera itinerante
. Una lunga carriera da nomade, per Guernica. Fino alla morte di Franco era rimasta fuori dalla Spagna, girando per il mondo fra Europa e America. Approdò a Madrid solo nel 1981, ospitato dal Prado come aveva auspicato Picasso – morto nel 1973 – che avrebbe voluto vederlo in Spagna solo dopo il “ritorno della Repubblica”. Nel 1992 venne spostato al nuovo Reina Sofia – intitolato alla moglie di re Juan Carlos di Borbone, certo non  un repubblicano – da dove non si è più mossa. Ma Zugaza, 10 anni di success-story al Prado, di cui ha raddoppiato numero di visitatori e spazio espositivo, non si arrende. “Se non ora, spero almeno che i miei nipotini possano vederlo vincolato alla meravigliosa collezione del Prado”.

Surfisti

gennaio 24, 2012

Francesco Longo per “Il Corriere della Sera

Gli scrittori descrivono le onde, i surfisti le disegnano con le loro tavole. Sono entrambi alla ricerca dello stile perfetto. La letteratura che narra l’incanto del surf ritrae sempre spettacoli eccezionali. La tempesta si annuncia con anticipo, il mare si scatena di notte, il volume dell’acqua si moltiplica. Quando gli eroi cavalcano le creste bianche, le tavole iniziano a vibrare e ogni volta si rinnova l’intramontabile leggenda legata a questo sport. Dominare i flutti rimanda inevitabilmente a un’esperienza divina. Certe volte però, i muri d’acqua possono essere fatali.

Non è vero che la grande virtù dei surfisti è il coraggio. I romanzi, su questo punto, sono chiari. La loro più grande abilità è l’attesa. I surfisti sono imbattibili in questa attitudine: sanno vivere sospesi. Attendono l’onda giusta, attendono la perturbazione in arrivo, sono perennemente convinti che la più imponente onda della storia si stia per abbattere sulla loro spiaggia. Alla fine, tutte le volte che all’orizzonte si profila davvero la grande onda, il tono si fa epico, e torna immancabile la stessa domanda: «C’è qualcuno in grado di cavalcarla?».

Jack London,
La crociera dello Snark
Tra gli scrittori, il primo grande pioniere del surf è Jack London. Nel 1907 approda alle Hawaii e viene stregato dagli dei di bronzo che cavalcano le onde. Eretti e forti, avanzano tra la schiuma che ribolle. I frangenti maestosi tuonano sulla spiaggia di Waikiki. La tentazione di emularli è irresistibile. I cavalloni: «Arrivano uno dopo l’altro, lunghi un miglio, con creste spumeggianti, i bianchi battaglioni dell’infinito esercito del mare». Abbandona l’ombra, indossa un costume, si impossessa di una tavola e affronta i «mostri dalla bocca di toro». I primi tentativi falliscono: «Provai e riprovai. Scalciai in maniera due volte più pazza della loro e non ce la feci». Con una tavola più adatta alla sua altezza, pesantissima e tutta di legno, sfida le onde. Le manovre migliorano, ma le difficoltà restano: «Fui lanciato in aria come una scheggia e sepolto ignominiosamente sotto il frangente di caduta».

Il giorno dopo avviene il miracolo. Impavido, va incontro alle onde: «Lottare con quei frangenti, fronteggiarli e pagaiare verso il mare sopra e attraverso di essi, era di per sé uno sport sufficiente». Queste pagine di La crociera dello Snark (Mattioli 1885) restano tra le più intense di tutto il libro. Il ricordo della prima onda è indelebile: «Non dimenticherò mai la prima grande onda che presi là fuori nelle acque profonde. La vidi arrivare, le girai le spalle e pagaiai a più non posso. La mia tavola correva sempre più veloce, al punto che le mie braccia sembrarono staccarsi». Fino alla pura felicità: «Non riuscivo a vedere niente, perché ero sepolto nel bianco spumeggiante della cresta. Ma non mi importava. Ero principalmente conscio della felicità estatica derivante dall’aver preso l’onda». La mattina dopo si sveglia ustionato, è costretto a restare a letto.

La sua definizione del surf rimane insuperabile: «Uno sport da re per i re naturali della terra».

Don Winslow,
La pattuglia dell’alba
Boone Daniels è nato su una tavola da surf. Poi è diventato un investigatore privato. Nel romanzo di Don Winslow, La pattuglia dell’alba (Einaudi), è in acqua già dalla prima pagina: «In attesa dell’onda, Boone Daniels si tiene a cavalcioni della vecchia longboard come un cowboy su un pony». Don Winslow inserisce sempre nelle sue narrazioni l’eco delle onde, e tra killer e trafficanti, non mancano mai il viavai di surfisti, le affascinanti bionde in bikini, i pick-up carichi di tavole. La pattuglia dell’alba si avvia con l’attesa di una mareggiata imminente: «Un fenomeno che capita una volta ogni vent’anni e che adesso sta avanzando verso la costa di San Diego con la potenza di un treno merci senza controllo». A metà libro la marea monta. Seguiamo i preparativi di Sunny, la più intrigante surfista della letteratura, una «leonessa», col fisico scolpito e le gambe lunghe. Quando la mareggiata finalmente arriva è esattamente «ciò che il mondo del surf aspetta da una vita: l’età dell’oro che torna nei luoghi del suo massimo fulgore». L’oceano si alza. Fin dall’alba una folla di fotografi è schierata sulla spiaggia di Pacific Beach. Sunny si tuffa e trova: «Un’azzurra parete d’acqua, le creste bianche che il forte vento di terra fa scattare come guidoni di cavalleria. Una splendida onda. La sua onda». Dopo un incidente diplomatico tra i flutti, la più grande onda della letteratura è sua. Un tubo d’acqua la avvolge completamente. Esce vittoriosa. Entra nella leggenda.

Kem Nunn, Surf City
La vita dei surfisti non è fatta solo di feste sulla spiaggia, abbronzature impeccabili, barbecue, e pomeriggi passati sulle amache a mirare tramonti arancioni che calano sull’oceano. Nella comunità dei surfisti esiste un lato oscuro. Il romanzo Surf City (Meridiano Zero) di Kem Nunn è un’esplorazione dell’anima cupa del sogno californiano. Surf City, ovvero Huntington Beach, è il covo di una comunità di surfisti minacciosi. Ike, il protagonista, cerca Ellen, la sorella scomparsa dalla città, due anni prima. Appena arriva lo mettono subito in guardia: «Vanno a fare surf al molo, la mattina. Ma ascoltami bene, non essere così stupido da andarci da solo». Quando non sono in acqua, i ragazzi sono annoiati, sbronzi, violenti. Le bande vivono acquattate nei vicoli bui, i drogati si sfidano nei locali. «Cerchi una tavola?» gli chiede un giorno un ragazzo in un negozio di surf. Ike cerca Ellen, ma risponde: «Qualcosa per imparare». E infatti tenta. Raggiunge i ragazzi sul lineup. Come al solito, le onde arrivano grandiose: «Si rompevano in lunghe linee piatte». Ike prende un’onda ma viene prontamente pestato in mare. Lo squallore generale messo in scena da Kem Nunn è bilanciato solo dallo struggente splendore della natura: «Le onde erano come pietre levigate e la schiuma bianca sembrava incendiarsi con l’alzarsi del sole». Le mareggiate durano una settimana: «La superficie dell’acqua ribolliva furiosamente, grigia e nera, striata di bianco». L’acqua è trasparente, certi surfisti sono torbidi.

Thomas Pynchon, Vizio di forma
Dov’è l’eterna giovinezza? Dov’è l’estate che non tramonta mai? Thomas Pynchon ha speso il suo ultimo romanzo, Vizio di forma (Einaudi), per celebrare il mito californiano. Il vento porta nella cittadina cadente di Gordita Beach il tonfo delle onde possenti. Le strade formicolano di pullmini Volkswagen, le radio passano solo surf band e sull’oceano, i cavalloni «sbocciano luminosi». Per Thomas Pynchon il surf è l’emblema di una malinconia inesauribile, è il fossile che evoca l’ultima stagione epica (e forse autentica) degli Stati Uniti. La ricerca di Mickey Wolfmann, uomo dell’ex moglie del protagonista (Doc), è solo un pretesto per omaggiare un’epoca gloriosa. Il surf e le onde hanno la stessa drammatica concentrazione di palpitante malinconia della sua scrittura letteraria: «L’oceano era lì, vicino, scuro e invisibile, a parte quella luminescenza nel punto in cui l’onda si infrangeva solenne come la linea di basso in qualche grande, incontenibile classico del rock». Pynchon racconta la California, le sue nuvole nere, i suoi hippie, le sue risacche, le ragazze che sgambettano nei completini da tennis; e loda il surf: inteso come la quintessenza dell’eterno grande sogno collettivo americano. Ecco le spiagge dove non si invecchia mai, ecco lo sport per i veri amanti della nostalgia.

Tim Winton, Respiro
Il mito del surf è legato alle Hawaii. Quando le onde non rombano alle Hawaii siamo in California. Se non siamo neanche in California, siamo sicuramente in Australia. Per Tim Winton (nato a Perth) il surf è solitudine ed esperienza dei limiti. Nel romanzo Respiro (Neri Pozza) la passione per le onde è amara. I due amici, Pikelet e Loonie, trascorrono l’adolescenza desiderando il mare fino a quando non scoprono i surfisti. Li vedono immergersi e poi cavalcare le onde. Uomini robusti dotati di una grazia naturale. Winton considera il surf un vizio «insensato ed elegante», un tormento meraviglioso. I ragazzi si sentono eroi, sfidano la morte, diventano dipendenti dalle onde, che in queste pagine si abbattono sulla baia come tifoni: «Ecco apparire una scia bianca sulla balza scoscesa di un cavallone grigioverde, così alto e grosso da farti tremare di paura». L’incontro con un vecchio campione di surf farà esplodere tra loro la competizione. A Sawyer Point arriva una mareggiata fatta di onde irregolari e deformi. Leggono London, Conrad e Melville. Cercano onde sempre più letali. Da Barney’s passano una giornata memorabile, tra onde «azzurre, pure e cave». A Old Smoky, montagne d’acqua mettono a rischio la vita di Pikelet. «Prendi la cresta e lasciati trasportare. Se non riesci ad arrivare fin qui — lo avverte il guru — resterai a metà strada, e l’onda successiva ti sbatterà contro gli scogli». Al Nautilus, lo aspetta «l’onda più pericolosa che avesse mai visto». Le onde di Tim Winton sono così violente che le tavole si spezzano. E le amicizie si rompono per sempre.

Il surf è uno stile di vita.
Twitter @FrancescoLongo

Le statue più erotiche? Si trovano al cimitero

gennaio 24, 2012

Dame discinte, corpi torniti, estasi estreme. Ecco cosa raccontano le fotografie sepolcrali di Valeria Paniccia: un’insolita mostra al Padiglione Italia ci racconta le tombe più hard

Marcello Veneziani per “il Giornale

Se volete provare un’esperienza, almeno visiva, di sesso estremo, vi consiglio di andare a Venezia, magari al Carnevale e andare alla Biennale, al Padiglione Italia in sala Nervi. Fino al 29 febbraio c’è una mostra singolare che ebbi la fortuna di vedere in anteprima a Civitanova Marche, città natale dell’artista-installatrice. Di che mostra parlo? Vorrei chiamarla Cimiteros, e non è un termine spagnolo, ma proprio la fusione di cimitero ed eros. Valeria Paniccia, che ha curato questa mostra con la benedizione di Vittorio Sgarbi – che visto il successo, l’ha protratta a tutto febbraio – l’ha battezzata «Erotici abbandoni». Ci sono monumenti funerari con corpi eccitati e nudi, orgasmi di granito, prodigiosi lati b, turgidi capezzoli che accompagnano il viaggio estremo di giovani donne, amatori rubati precocemente alla vita e perciò ricordati nella loro più gloriosa attività, ma anche risorgimentali senatori dai cognomi santi.
La morte, il cimitero, il marmo e il monumento sono quanto di più remoto si possa pensare a proposito delle passioni erotiche, il calore delle carni, gli affanni degli amplessi amorosi. E invece proprio lì, nei dolenti e austeri cimiteri, da Staglieno di Genova al Verano di Roma, e dal Monumentale di Milano e in altri luoghi funebri, ci sono scene erotiche di marmo da far provare l’ebbrezza di una forma nuova di rigor mortis. Naturalmente era difficile trasportare in una mostra monumenti cimiteriali, statue di marmo e lapidi: la trovata d’artista di Valeria Paniccia, davvero originale, è di aver riprodotto quei monumenti ad eros oltre la vita su lenzuola; ma lenzuola vissute, rubate alla vita, agli amici, ai famigliari, ci assicura la Paniccia. Veri sudari che hanno accompagnato atti d’amore e congedi di vita.
Il camposanto è per definizione luogo sacro, dominato da simboli religiosi. E invece qui vedi le performance estreme di Jole, Neera, Giana, Isabella, Maria, morta in amore, con una lapide misteriosa, intitolata dallo scultore Pietro da Verona Dedizione, in cui è scritto «Non dite ad alcuno perché son morta». E qui la fantasia erotica e necrofila si scatena. C’è il monumento funerario erotico dei Piaggio, a Genova, e una giunonica femminona dai seni prorompenti che accompagna il monumento dei Bardelli a Milano. Ma c’e a Roma un curioso e attraente monumento erotico risorgimentale del senatore siculo Francesco Paternostro, dove un corpo piegato sulla tomba mostra terga prodigiose, quasi parlanti, di una donna ai passanti che muoiono dalla voglia di trovarsi al posto del fortunato parlamentare. Sotto di lei, scorrono nella lapide immagini di guerre risorgimentali, camicie rosse garibaldine e soldati piemontesi. E vedendo insieme la scena, ti vien voglia di titolarla I Mille e una notte, per correlare l’epopea garibaldina e l’appeal erotico della posatrice.
Venezia, si sa, si presta a questi incontri pericolosi di Amore e Morte, Thomas Mann e d’Annunzio lo hanno magnificamente illustrato. E la letteratura simbolista e decadente tra Amore e Morte, compresa la fascinosa etimologia dell’amore come negazione della morte, A-mors, o il frutto che lega eros e thanatos, il mirto, sembra confermare l’amplesso. Ricordo l’ammirazione che negli ambienti venuti dal neofascismo circolava per esponenti politici, nazionali ma anche locali, deceduti nel pieno di un amplesso, di cui si narravano estremi turgori. Caduti con onore, si pensava, con sprezzo del pericolo, in piena virilità.
Aggiungi alla mostra cimiterotica quell’aria festosa ma vagamente necrofila del carnevale veneziano, quelle maschere che sembrano fantasmi venuti dal settecento e dai rondò, quelle ciprie e quei ceroni come di cadaveri in licenza premio. La cornice veneziana si presta come nessuna al cimiteros. Ci vorrebbe un Guido Ceronetti, acuto recensore di cimiteri e cappelle estreme, ad accompagnare il viaggio erotico mortuario e illustrarne i significati esoterici.
Ma colpisce che questi monumenti della belle époque, e comunque risalenti all’ultimo ventennio dell’ottocento e agli anni che precedettero la prima guerra mondiale, sorgano in cimiteri cristiani, cattolici e consacrati. Questa tolleranza estrema su eros e i corpi nudi, in piena città dolente e cristiana, questo alternarsi di seni nudi e crocifissi nelle stesse lapidi, un po’ sorprende. Certo si tratta di sesso sicuro, perché in marmo e granito, e di eros platonico, solo figurato, perché impossibile a consumarsi: di consumato ci sono solo i corpi dei protagonisti. Ma sorprende questa libertà di espressione davanti al ricordo dei peccati della carne; una specie di riabilitazione postuma del sesso, o perlomeno di riconsiderazione pietosa della sua umanità. Mi ricorda una sala vagamente pompeiana e assai pagana in piena città del Vaticano. Dopo aver visitato la mostra, la notte mi sognai la donna di pietra con i capelli al vento e il suo corpo disteso sulla tomba in pieno atto d’amore, mentre donava al defunto un piacere immortale e ai vicini di tomba l’invidia perenne.

BERNARD QUIRINY. LA LIBERTA’ DI PENSIERO L’ABBIAMO. ADESSO MANCA IL PENSIERO

gennaio 24, 2012

Satisfiction.me

In Francia i maggiori giornali (Le Figarò Littéraire e Lire, su tutti)  lo considerano “uno scrittore con l’inventiva rivoluzionaria di Alfred Jarry, la potenza narrativa di Roberto Bolaño,  l’umorismo di Will Self e la comicità di Borat” e il suo romanzo d’esordio Le assetate una delle metafore più potenti del ‘900 sull’accecamento degli intellettuali. 
Bernard Quiriny, docente di filosofia del diritto presso l’Université de Bourgogne e critico letterario di Le Magazine Littéraire  a soli 34 anni è considerato tra i maggiori scrittori francesi contemporanei,  capace nel romanzo di mettere alla berlina intellettuali come Bernard-Henri Lévy, Philippe Sollers, Julia Kristeva denunciando “il paradosso dell’ideologia progressista e la paralisi degli intellettuali di fronte all’incarnazione della loro utopia”.
Finalmente Le Assetate arriva anche in Italia: è in uscita il 18 gennaio per Transeuropa, che conferma ancora una volta la propria vocazione storica nel trovare nuovi talenti letterari inaugurando il proprio respiro internazionale. 
Di Bernard Quiriny Satisfiction presenta un inedito assoluto: uno tra i passaggi più caustici di questo romanzo dove le Donne hanno assoluto Potere (sarebbe giusto in un mondo ideale), hanno schiacciato il maschio (sarebbe un mondo perfetto), ma soprattutto hanno relegato gli intellettuali al loro ruolo: quello di “Eco”. In un romanzo che è una favola distopica, dove si immagina cioè un futuro alternativo e apocalittico, Quiriny racconta come “nel Belgio degli anni ’70 una rivoluzione guidata da donne sfoci in un regime totalitario, dominato dal culto della Pastora Ingrid e poi di sua figlia Judith, le cui leggi sessiste ribaltano il rapporto di forza storico tra donne e uomini. In Francia, questa Viragoland isolata dal resto del mondo suscita l’ammirazione di alcuni esponenti dell’intellighenzia parigina, colta e vanesia.”

Gian Paolo Serino

Come ogni volta in cui arrivava in una camera d’hotel, Gould, che era un po’ maniaco, appese accuratamente i suoi abiti nel guardaroba. Dopodiché, vuotate le due grandi valigie, passò al lavabo per rinfrescarsi il viso, e prendendo nel suo cappotto il taccuino e una penna, si adagiò sul letto e cominciò ad annotare le sue impressioni. La giornata non era finita, avrebbe potuto attendere la sera; ma temeva di non avere più le idee così chiare e di perdere il dettaglio di alcune cose, che avrebbe finito per ricostruire anziché trascriverle fedelmente. Bisognava buttare tutto giù sulla carta al più presto, anche in stile telegrafico, senza cura letteraria; scrivere tutto alla rinfusa, così come veniva, perché in seguito non avrebbe più avuto la stessa nitidezza. Seguiva questa disciplina in tutti i suoi spostamenti, credendo che fosse l’essenziale del giornalismo.

Al principio, scribacchiò alcune informazioni semplici, banali, di quelle che si dimenticano facilmente se non vengono annotate subito: i preparativi del mattino, il loro appuntamento nei pressi della stazione, il viaggio in treno, l’andatura dell’autista Richard… Tutto ciò avrebbe formato un blocco di piccoli fatti veri, che gli sarebbero tornati molto utili al momento di stendere il racconto del viaggio, mescolandoli ai passi salienti, agli inserti filosofici, alla teoria.
Riguardo al loro arrivo nella zona neutra e allo sbarramento di polizia di poco prima, cercò di ricordare nei dettagli l’uniforme delle soldatesse, il tipo di fucile che portavano (ma non se ne intendeva per niente di armi da fuoco), quello che gli era passato per la mente mentre lo perquisivano, e quello che, secondo lui, avevano pensato i suoi compagni. Erano tutte cose fresche nella sua memoria, poté riempire una pagina intera. Gli venivano belle espressioni, che trascriveva pensando che forse avrebbero giovato all’articolo:
«Siamo stati palpati su tutto il corpo, senza riguardi. Quelle mani di donna che correvano su di me, è stato come un primo contatto con il Paese – un primo contatto fisico.
Accidenti che carisma quelle brigadiere, guardiane severe della Rivoluzione! Mi hanno fatto proprio un grande effetto.
Siamo stati trasportati con immense automobili, auto da ministri, un lusso da favola. Ma il tragitto dal posto di blocco all’hotel era molto breve, non ne abbiamo approfittato a lungo. La notte qui è profonda. Non si vede nulla – nel vero senso della parola. Il risultato è che non abbiamo veramente visto il Belgio. Si nasconderà per svelarsi meglio domani sotto il sole? A un tratto, nel buio, appare l’albergo, sfavillante, un transatlantico sorto dal nulla, come una sorpresa.»
Quando voleva, Gould era poeta, e aveva normalmente uno stile lirico. Qui, era sobrio, quasi tecnico.
Scrisse poi alcune parole su Kristin, la loro guida. Non sapeva cosa pensare di lei. In auto, non aveva fatto molti sforzi per la conversazione, e così l’aveva trovata sgradevole; ma una volta giunti in albergo, le cose si erano appianate: d’improvviso si era mostrata adorabile, premurosa, delicata. Forse il percorso l’aveva resa ansiosa? Doveva sicuramente temere che venissero attaccati (dal loro arrivo, aveva citato Beatrix e il terrorismo: Gould ne era rimasto impressionato), e si era rasserenata solo una volta arrivati a destinazione. Questa ipotesi seduceva Gould, perché dava importanza ai francesi: temere un attacco ai loro danni, significava che non erano gente qualunque. Così la fece sua e cominciò persino a sognare un autentico attentato – un attentato senza conseguenze, naturalmente, ma spettacolare, che avrebbe conferito pathos al racconto. In mancanza di quello, pensò tuttavia che una semplice minaccia sarebbe andata già molto bene per il profilo romanzesco. Così Kristin gli apparve sotto una luce più propizia, e riconsiderò il suo parere. Non era vero che era stata brusca con lui: era preoccupata, il che era un’altra cosa. Non c’era ancora una barriera tra loro, si disse, ma tra l’Impero da un lato, nel cui campo si trovavano con lei, e i terroristi dall’altro. Annotò tutto questo, spendendo qualche parola sull’aspetto di Kristin:
«Una donna bella, alta, sui quarant’anni, capelli corti, slanciata. Ha qualcosa di rigoroso, di altero. Uno sguardo franco, diretto, che penetra in fondo agli occhi. Deve essere un tipo duro, esperto in politica, capace di prendere decisioni dolorose. Quale ruolo gioca nell’Impero? Ha detto – questo mi ha colpito – che è, cito: “Generale maggiore delle brigate, arcicancelliera al Consiglio della Rivoluzione”. Nessuna idea di quel che significa. Chiedere lumi al riguardo. In ogni caso, ha carattere. Qualcosa, inoltre, mi lascia pensare che è una donna che mente facilmente. Ma con le donne, mi sbaglio sempre.»
Pensando che potesse servire per l’articolo, prese anche appunti sulla sua camera d’albergo, che era sobria, per non dire austera. Kristin sosteneva che era un hotel di lusso: sarà stato vero, secondo gli standard imperiali, ma per i suoi, era appena decente. Tuttavia, per rispetto dell’Impero, volse la sua delusione in ammirazione, e abbozzò un principio di teoria: quella camera banale mostrava che le belghe se ne infischiavano del comfort, perché il comfort per loro non contava. Era la prova evidente della loro superiorità, e del loro senso dell’interesse nazionale. Scrisse anche due righe su ciò che saltava agli occhi non appena si entrava in camera: a sovrastare il letto, l’immenso ritratto di Judith, che avrebbe vegliato severamente sul suo sonno. Rifiutò di formulare su quel quadro dei giudizi estetici, perché li trovava irrilevanti nella fattispecie: preferì annotare a che punto lo colpiva l’evidenza che, grazie al ritratto, il viaggiatore, nell’intimità della sua camera, era perseguitato dalla politica, e la Pastora non lo abbandonava. Di fatto, sotto quell’occhio vigile di Judith, Gould non era completamente rilassato; il quadro emanava una sorta di Super Io discreto e benevolo, che lo riportava sulla retta via, come un crocifisso nella camera da letto di un cristiano.

Bernard Quiriny

Traduzione di Stefania Ricciardi

Montini, il papa ambrosiano

gennaio 22, 2012

Montini, il papa ambrosiano

Sergio Luzzatto per “Il Sole 24 Ore

C’è un dualismo nella storia dell’Italia unita – quello fra Milano e Roma – che merita di essere colto da una varietà di punti di vista, il politico, l’economico, il culturale, ma anche dal punto di vista religioso. È un dualismo non dichiarato, ovviamente, all’interno di una compagine che si pensa e si vuole unitaria, la cattolica comunità dei battezzati. Ma è un dualismo riconoscibile sotto traccia, che oppone una polarità ambrosiana e una polarità romana. Sotto la basilica di Sant’Ambrogio, il campo magnetico di un cattolicesimo per vocazione sociale più che temporale, laico più che burocratico, dialogante più che intransigente. Sotto la basilica di San Pietro, il campo magnetico di un cattolicesimo per definizione papalino e curiale, quando pure non sempre gesuitico e antimoderno.

Il fatto che dagli ultimi due conclavi siano usciti eletti, nel 1978 e nel 2005, due pontefici stranieri, papa Wojtyla e papa Ratzinger, rischia oggi di mascherare un’evidenza che potrebbe ritornare d’attualità nel conclave a venire: la storia della Chiesa nell’Italia moderna può essere interpretata anche come una storia dei modi in cui Milano cattolica si è mossa alla conquista di Roma pontificia. O piuttosto, per dirlo con minore enfasi e maggiore esattezza: la storia della vita religiosa nell’Italia moderna può essere interpretata come una storia dei modi in cui il cattolicesimo ambrosiano ha provato ad assicurarsi una forma di egemonia nei Palazzi vaticani, e fin sul trono petrino.

Nel Novecento, i momenti chiave di questa storia hanno coinciso con i pontificati di Pio XI, dal 1922 al 1939, e di Paolo VI, dal 1963 al 1978 (con l’intervallo dei regni di Pio XII e di Giovanni XXIII, l’uno più attirato dalla polarità romana, l’altro dalla polarità ambrosiana). Sia papa Ratti sia papa Montini entrarono da arcivescovi di Milano nel conclave dal quale uscirono pontefici assumendo il nome, rispettivamente, di Pio XI e di Paolo VI. E proprio il pontificato di papa Ratti va ritenuto l’epoca decisiva per la definizione del progetto di Chiesa che papa Montini avrebbe cercato di realizzare al tempo del Concilio Vaticano II: come dimostra adesso un importante volume pubblicato dal Mulino, Mons. Montini, di Fulvio De Giorgi.

Semplificando, si potrebbe dire che De Giorgi mette in campo le figure di due grandi chierici del Novecento – oltre al bresciano Giovanni Battista Montini, il milanese Agostino Gemelli – e che analizza la loro sfida (aperta o sotterranea) per contendersi il favore di un terzo gran lombardo, appunto Pio XI. Entrambi gli sfidanti condividevano con papa Ratti il progetto di una riconquista cattolica della società italiana che si fondasse non sull’antimodernità ma sulla modernizzazione: non sul bastione di un’ideologia ma sull’impatto di una pedagogia, non sull’appello integralistico alla purezza della fede ma sull’utilità missionaria delle opere di carità, non sulla tutela difensivistica di ranghi curiali ma sull’offensiva spregiudicata di gruppi laicali, non su un rifiuto pregiudiziale della civiltà laica ma sull’auspicata formazione di una classe dirigente cattolica. Tuttavia, padre Gemelli e monsignor Montini finirono per interpretare il progetto in modi troppo diversi per riuscire complementari.

A leggere quanto un Montini poco più che ventenne scriveva sul giornale degli studenti cattolici bresciani, «La Fionda», negli anni successivi alla Grande Guerra, si tocca con mano come la sua generazione – il futuro Paolo VI era nato nel 1897 – fosse uscita segnata dal conflitto mondiale quand’anche non avesse conosciuto il trauma della trincea. Con il Gemelli ultrapatriottico del 1915-18 il giovane Montini condivideva un’idea di Chiesa così volontaristica e militante da indurre De Giorgi a parlare di «arditismo cattolico». Dopodiché, all’indomani della marcia su Roma, la disfatta stessa di quel Partito popolare del quale il padre di Montini, Giorgio, era stato cofondatore e deputato, avrebbe persuaso il figlio della necessità di combattere per la riscossa della Chiesa scendendo direttamente nell’arena sociale d’Italia, e traducendo in opportunità religiosa l’atrofia politica indotta dal regime fascista.

L’autore di Mons. Montini non esita a qualificare il pontificato di papa Ratti come un esperimento di «modernizzazione totalitaria». Ma De Giorgi ha cura di distinguere, nell’entourage di Pio XI, ciò che rese monsignor Montini rappresentativo di una sensibilità di minoranza rispetto alla sensibilità di maggioranza rappresentata da padre Gemelli. Alleati nel sostegno dell’ambiziosissima creatura di quest’ultimo, l’Università Cattolica del Sacro Cuore, oltreché del sodalizio laicale di vita consacrata dei Missionari della Regalità di Cristo; uniti anche nell’impegno per la milizia laica di massa dell’Azione cattolica, di contro alla centralità ecclesiale della Curia, Gemelli e Montini si trovarono divisi dal problema dell’atteggiamento verso il regime: indulgente (ai limiti del complice) l’approccio dell’uno, severo (ai limiti del refrattario) quello dell’altro.

Una prima crisi intervenne nel 1933. Montini fu costretto a dimettersi dalla guida della Fuci, la Federazione universitaria dei cattolici italiani, rimpiazzato da un fiduciario di Gemelli che offriva al fascismo ben migliori garanzie di osservanza. Ma la crisi spiritualmente più grave intervenne nel 1938. Allora – ormai da braccio destro del cardinale Pacelli ai vertici della Segreteria di Stato vaticana – Montini dovette riconoscere una volta per tutte le implicazioni politiche e morali del programma gemelliano di una riconquista cattolica dell’Italia da compiersi a costo di sottoscrivere le peggiori derive del fascismo, dall’invasione militare dell’Abissinia alla persecuzione legale degli ebrei

QUANDO KURT COBAIN SCRISSE A WILLIAM BURROUGHS. IL CARTEGGIO INEDITO

gennaio 22, 2012

Kurt Cobain

“Satisfiction.me

La passione di Kurt Cobain per William Burroughs non è mai stata un mistero. Il leader della band dei Nirvana, scomparso nel 1994, nutriva per lo scrittore statunitense un’ammirazione che secondo  qualcuno sfiorava l’ossessione. Fra i protagonisti della Beat Generation, corrente alla quale Cobain si sentiva particolarmente legato, l’autore de Il Pasto Nudo è stato senza dubbio quello che più di ogni altro ha influenzato la sua musica e il suo immaginario. 

Nell’autunno del 1992, senza ancora essersi mai incontrati personalmente, i due collaborarono alla realizzazione del singolo The “Priest” They Called Him: un brano registrato a distanza, in luoghi e momenti differenti, in cui la chitarra di Cobain accompagnava un reading di Burroughs. L’esperienza rappresentò per il musicista di Seattle il coronamento del sogno di una vita  e lo entusiasmò al punto di aspirare a un coinvolgimento ancora maggiore del suo mito letterario all’interno della sua produzione artistica.  Nell’estate del 1993, in occasione dell’uscita di In Utero – terzo e ultimo album della band, dopo il successo planetario di Nevermind – Kurt Cobain scrisse a William Burroughs chiedendogli di apparire insieme a lui nel videoclip del singolo Heart-Shaped Box. In una prosa sorprendentemente sobria ed essenziale, Cobain esprime a Burroughs tutta la sua ammirazione, cercando di comunicargli il valore profondo che avrebbe avuto per lui l’opportunità di una loro reale collaborazione e confidandogli le reticenze e le paure che lo spingono a temere che il significato intimo e personalissimo della sua richiesta possa essere frainteso.

La lettera, integralmente inedita in Italia, è apparsa finora soltanto negli Stati Uniti all’interno del sito Realitystudio, un progetto critico di archivio e di ricerca dedicato alle opere e alla memoria di William Burroughs. 

Il video sognato da Cobain non venne mai realizzato a causa del rifiuto dello scrittore, che non manifestò mai particolare interesse né apprezzamento per la musica di Nirvana ma che accettò finalmente di incontrare di persona il musicista, due mesi dopo aver ricevuto il suo messaggio.

Kurt Cobain morirà suicida nell’aprile dell’anno seguente,  appena ventisettenne, sparandosi un colpo di fucile in testa.  Burroughs, che gli sopravviverà di soli tre anni, si dichiarerà profondamente rattristato dalla sua scomparsa.

Claudia Bertozzi

Quando Kurt Cobain scrisse a William Burroughs. Il carteggio inedito.

2 Agosto 1993

Caro William,

è un po’ strano scrivere a qualcuno che non ho mai incontrato, ma con il quale ho già registrato un disco. Mi ha fatto davvero piacere avere questa opportunità: è un grande onore essere ritratto al tuo fianco sul retro della copertina. Ti scrivo ora riguardo alla possibilità che tu appaia accanto alla mia band, i Nirvana, nel primo video del nostro nuovo album “In Utero”. Anche se so che Michael Meisel della Gold Mountain Entertainment  (l’agenzia che mi rappresenta) ha già parlato con James Grauerholz, volevo avere la possibilità di spiegarti personalmente perché vorrei che tu fossi presente nel video. Soprattutto, vorrei che sapessi che questa richiesta non nasce dal desiderio di sfruttarti in alcun modo. Mi rendo conto che le chiacchiere della stampa riguardo il mio uso di droghe potrebbero farti pensare che questa richiesta provenga dal desiderio di instaurare una sorta di parallelismo fra le nostre vite. 
Permettimi di assicurarti che non è affatto così.
 Come ammiratore e studioso del tuo lavoro, sarei deliziato dalla possibilità di lavorare direttamente con te. Capisco che tu possa voler evitare qualsiasi utilizzo diretto della tua immagine (proprio per evitare di offrire alla stampa qualunque appiglio per le speculazioni menzionate poco sopra). Per questo, sarei ben felice se il mio regista utilizzasse tecniche di trucco in grado di mascherare la tua identità. 
Io sarei orgoglioso di avere William Burroughs nel mio video nel ruolo di se stesso, e sono molto più interessato ad avere l’opportunità di lavorare con te piuttosto che pemettere che il pubblico lo venga a sapere. 
Detto questo, lascia che ti ripeta quanto sarei contento se questo potesse realizzarsi. 
Mentre lascio spazio a Michael e James di continuare a discuterne fra loro, sarei disponibile a parlarne direttamente con te quando e come lo riterrai opportuno.
Ti ringrazio di cuore per la tua considerazione.
Un caro saluto,

Kurt

COS’È LA VITA PER ME

gennaio 22, 2012

Jack London

satisfiction.me

Non aveva ancora trent’anni il Jack London che scrisse questo appassionato, tremendo, apocalittico e scioccante saggio. Scelse di chiudere così la raccolta di saggi Rivoluzione del 1910: un incontro tra ideali, visione razionale e sociale, desiderio per sé e per tutti di emancipazione. E dolore, molto dolore. London rimane unico perché lanciava sfide a carte scoperte. Aveva detto “trasformerò il giornalismo in letteratura”: e così aveva fatto conquistando il mondo con Il richiamo della foresta
Erano poi arrivati gli scritti politici, nei quali egli stesso aveva bisogno di credere in qualcosa, e l’ultima cosa – come confesserà nel 1913 nella sua confessione capolavoro John Barleycorn. Memorie di un bevitore– sarebbe stato “il popolo”. 
London è stato un uomo e un artista che si metteva continuamente alle corde, costringendosi a scrivere ciò che, nella sua immensa lucidità mai intrisa di cattiveria, sapeva descrivere senza risparmiare nulla. Neppure (a) se stesso.

COS’E’ LA VITA PER ME. 

Sono nato proletario. Ho scoperto presto l’entusiasmo, l’ambizione e gli ideali e per poter ottenere queste cose esse sono diventate il problema di tutta la mia infanzia. Vengo da un ambiente rude, volgare, duro. Non avevo un orizzonte davanti a me: direi piuttosto un confine. Il mio posto in questa società era sul fondo, dove la vita offriva squallore e sventura alla carne e allo spirito.
Sopra di me troneggiava il colossale edificio della società e nella mia testa l’unica direzione era in salita. Dall’interno di questo edificio presi la decisione di arrampicarmi verso l’alto, dove gli uomini indossavano vestiti neri e camice inamidate e le donne erano vestite con abiti meravigliosi. Lassù c’erano cose da mangiare buone e in abbondanza. Questo per la carne. Poi c’era lo spirito. Sapevo che sopra di me stavano l’altruismo, il pensiero nobile e pulito, la sagace vita dell’intelletto. Lo sapevo perché avevo letto tanti romanzi alla biblioteca sul lungomare e in quei libri, ad eccezione dei cattivi e delle avventuriere, uomini e donne esprimevano pensieri bellissimi, parlavano un linguaggio meraviglioso e le loro gesta erano gloriose. In breve, ogni giorno accettavo l’alba e con essa l’idea che sopra di me c’era ogni bella cosa nobile e armoniosa, tutto ciò che rendeva dignitosa e decente una vita che valesse la pena di essere vissuta come giusta ricompensa per i travagli e le miserie.
Ma non é così semplice rampar fuori e lasciare il proletariato, specialmente se si é menomati da ideali e illusioni. Vivevo in un ranch della California per cui venni subito sbattuto davanti alla scala che avrei dovuto salire: era dura. Dentro di me la vita reclamava più di una magra esistenza tra stenti e rinunce. A dieci anni feci lo strillone per le strade di una grande città. Tutto quello che mi riguardava era sempre fatto di squallore e sventura: sopra di me c’era lo stesso paradiso in attesa di essere conquistato ma la scala da risalire era di un altro genere. Era la scala degli affari. Perché risparmiare e investire in bond dello stato visto che mi bastava comprare due giornali a cinque centesimi per rivenderli a dieci centesimi con un semplice movimento del polso, raddoppiando il capitale? La scala degli affari era la mia scala. Fu allora che la visione di me stesso nei panni di un principe del commercio.
Il titolo di “principe” me lo ero già guadagnato a sedici anni, mi era stato appioppato da una banda di tagliagole e ladri che mi chiamavano “Il principe dei pirati di ostriche.” Avevo salito il primo piolo della scala degli affari, ero un capitalista. Possedevo una barca e un perfetto completo da pirata di ostriche e  sfruttavo i miei simili: avevo un equipaggio composto da un marinaio. In qualità di capitano e di proprietario prendevo due terzi del bottino e ne lasciavo un terzo all’equipaggio, anche se l’equipaggio lavorava duro come il sottoscritto e come il sottoscritto rischiava vita e libertà.
Quest’unico piolo fu l’altezza massima che riuscii a salire nella scala degli affari. Una notte partii per un raid tra i pescatori cinesi. Non sbagliamoci, era una rapina: precisamente lo stesso spirito del capitalismo. Il capitalista prende le proprietà dei suoi simili magari servendosi di un rimborso, tradendo un fondo fiduciario, comprando senatori e giudici della corte suprema. La differenza è che io ero volgare: usavo il fucile.
Quella notte l’equipaggio dimostrò l’inefficienza contro la quale il capitalista ha l’abitudine di lanciare i suoi strali: simili inefficienze fanno lievitare le spese, riducendo i dividendi e il mio equipaggio ottenne entrambe le cose. Non ci furono dividendi quella notte e i pescatori cinesi furono più ricchi grazie alle reti e alle corde che non eravamo riusciti a rubare. Mi ritrovai in bancarotta, lasciai all’ancora la barca e partii per un raid lungo il fiume Sacramento. Ma mentre ero via, un’altra gang di pirati della baia fece una scorribanda e portò via qualsiasi cosa dalla mia barca. In seguito recuperai lo scafo alla deriva e lo rivendetti a venti dollari. Ero scivolato dall’unico piolo che avevo salito. Non ritentai più la scala degli affari.
Da lì in poi venni spietatamente sfruttato da altri capitalisti. Io avevo i muscoli e da questi muscoli loro spremevano denaro mentre io ricavavo un sostentamento insignificante. Fui marinaio, scaricatore di porto e manovale. Lavorai nei conservifici e nelle fabbriche, nelle lavanderie, a tagliar prati, pulire tappeti e lavare finestre: mai una volta che potessi godermi il frutto della mia fatica. Guardavo la figlia del proprietario del conservificio sulla carrozza e sapevo che quella carrozza era anche opera dei miei muscoli, che avevano contribuito a trascinarla in giro.  Ma non provavo risentimento: faceva parte del gioco, i forti erano loro. Ma bene: siccome io ero forte, decisi che mi sarei trovato a forza un posto accanto a loro. Il lavoro non mi spaventava, amavo il lavoro duro.
Un colpo fortunato mi fece trovare un datore di lavoro che la pensava allo stesso modo: io ero disposto a lavorare e lui era più che disposto a farmi lavorare. Credevo che avrei imparato un mestiere e invece scoprii che stavo sostituendo due uomini. Io credevo che lui avrebbe fatto di me un elettricista e invece lui, sfruttandomi, faceva cinquanta dollari al mese. Gli uomini che avevo sostituito prendevano quaranta dollari al mese e io facevo il lavoro di loro due per trenta dollari al mese.
Troppo lavoro mi fece venire la nausea. Decisi che non volevo più lavorare per tutta la vita e fuggii. Feci il vagabondo, elemosinando per gli Stati Uniti tra bassifondi e prigioni. Ero nato proletario e a diciotto anni ero in un punto ben più basso di quando ero partito. Ero nelle profondità sotterranee della miseria della quale non é bello parlare. Ero nella buca, nell’abisso, nel pozzo nero, nel mattatoio, nell’ossario della civiltà: la parte dell’edificio che la società sceglie di ignorare.
Dirò solamente che le cose viste laggiù mi hanno terribilmente spaventato: al punto da riflettere e riconoscere le crude verità della complicata civiltà nella quale vivevo. La vita era una questione di cibo e riparo, e per ottenere ciò gli uomini vendono le cose. Il mercante vende scarpe, il rappresentante del popolo, tranne rare eccezioni, vende fiducia: quasi tutti vendono onore. Era tutta merce, ogni persona comprata veniva rivenduta.
Ma c’era una differenza. Scarpe, fiducia e onore si rigenerano. Il muscolo no. Mentre il commerciante di scarpe vende le scarpe, intanto rifornisce il magazzino. Ma non c’é alcun modo di rinnovare il magazzino di muscoli: più il lavoratore vende muscoli meno ne restano a lui. I muscoli erano l’unica merce che possiede ma ogni giorno diminuisce e alla fine, se prima non muore, svende: una bancarotta muscolare e quindi non resta che tornare nelle cantine e perire miseramente.
Appresi così che anche il cervello é merce, diversa dal muscolo: a cinquanta o sessant’anni, un venditore di cervello é ancora agli inizi e i suoi articoli vengono pagati bene. A cinquant’anni un lavoratore è esaurito. Se non potevo vivere dove c’era il salotto della società, avrei provato almeno nel sottotetto. Certo la dieta era magra ma l’aria era pura: presi una decisione. Non avrei più venduto i muscoli. Avrei venduto il mio cervello.
A questo punto ebbe inizio una frenetica conquista della conoscenza. Equipaggiato per diventare mercante di cervella, fu inevitabile approfondire la sociologia. In questa materia trovai semplici concetti già elaborati da solo. Altre menti ben più grandi avevano elaborato tutto quello che avevo pensato, e anche molto di più. Fu così che scoprii di essere un socialista.
I socialisti erano rivoluzionari: lottavano per rovesciare la società del presente e partendo dal mondo materiale, per costruire la società del futuro. Anch’io ero un socialista e un rivoluzionario. Mi unii ai gruppi dei rivoluzionari proletari e intellettuali e per la prima volta ebbi a che fare con la cultura. Qui scoprii menti acute e brillanti dotate di qualità eccezionali, conobbi membri della classe lavoratrice forti, le cui menti erano pronte e le mani callose; c’erano anche predicatori spretati dal cristianesimo a causa delle loro vedute troppo ampie; professori spezzati dalla ruota della subordinazione universitaria alla classe dominante.
Qui trovai anche una calorosa fede nell’idealismo umano, conobbi la dolcezza e l’altruismo, la rinuncia e il martirio: tutte le splendide e penetranti cose dello spirito. Dove stavo adesso la vita era pulita, nobile, viva e riabilitata, e io ero felice di essere vivo. Ero entrato in contatto con anime grandi che esaltavano carne e spirito invece di dollari e centesimi. Erano anime per le quali il flebile lamento del figlio affamato dei bassifondi significava ben più della pompa e della circostanza legata all’espansione commerciale dell’impero mondo. Tutto attorno a me c’erano nobiltà di intenti, sforzi eroici e i giorni e le notti erano la luce del sole e delle stelle, tutto fuoco e rugiada: davanti ai miei occhi, sempre acceso e scintillante, stava il Sacro Graal, il Graal di Cristo, il calore umano da troppo tempo in sofferenza e maltrattato, che finalmente veniva soccorso e salvato. E io, povero stupido me, decisi che queste erano solo un piccolo assaggio delle gioie della vita che, una volta salito, avrei ritrovato nella società al piano superiore.
Come mercante di cervello fui un successo. La società mi aprì le sue porte. Entrai giusto al piano del salotto e la disillusione procedette a passo spedito. Andai a cena con i padroni della società, le mogli e le figlie dei padroni della società. Ammetto che le donne erano agghindate in maniera meravigliosa ma che ingenua sorpresa quando scoprii che erano fatte della stessa creta con la quale erano fatte tutte le donne che avevo conosciuto nelle cantine.
Ma non fu questo a scioccarmi, più che altro fu il loro materialismo. É vero, queste donne bellissime vestite in maniera sontuosa cinguettavano dolci ideali e piccole care scienze morali: ma per quanto cinguettassero la chiave dominante della loro vita era il materialismo. E poi sentimentalmente erano veramente egoiste! Si prestavano a tutte le belle iniziative di carità, non mancando mai di farlo sapere bene a tutti ma intanto il loro cibo e i loro vestiti erano frutto dei dividendi macchiati dal sangue del lavoro infantile, del sudatissimo lavoro e della prostituzione. Quando accennavo a fatti simili, nella mia innocenza mi aspettavo che queste sorelle di Judy O’Grady si sarebbero immediatamente strappate gioielli e vesti insanguinate. Invece loro si alteravano, si infuriavano e mi davano lezioni sulla mancanza di parsimonia, sul bere e sull’innata depravazione che provocavano l’attuale miseria nelle cantine della società.
Coi padroni non mi andava meglio. Mi ero aspettato di trovare uomini limpidi, nobili e vivi, di ideali altrettanto limpidi, nobili e vivi. Mi aggirai tra gli uomini seduti sui gradini più alti – predicatori, politici, uomini d’affari, professori, editori. Mangiai alla loro tavola, bevvi il loro vino e li studiai. É vero, ne trovai tanti che erano limpidi e nobili ma tranne rare eccezioni, non erano vivi. Quando non erano vivi di marciume, svelti nella vita sporca, erano solo morti insepolti, limpidi e nobili come le mummie conservate, ma non erano vivi.
Conobbi uomini che invocavano il nome del principe della pace nel corso delle diatribe contro la guerra e che intanto mettevano i fucili in mano ai Pinkerton per abbattere gli scioperanti nelle loro fabbriche. Conobbi uomini talmente indignati di fronte alla brutalità del pugilato da perdere il controllo e che intanto erano i primi ad adulterare il cibo che ogni anno uccideva più neonati di qualsiasi sanguinario Erode.
Parlai in grandi alberghi, club, case, pullman e piroscafi con diversi capitani d’industria meravigliato dal loro brevissimo viaggio nel regno dell’intelletto. Nel rovescio della medaglia scoprii che il loro intelletto era sviluppato in maniera abnorme in senso affaristico. Scoprii pure che quando si parlava di affari la loro moralità era azzerata.
Un editore mi diede del demagogo canaglia perché gli dissi che la sua economia politica era antiquata e la sua biologia la stessa di Plinio. Lo stesso editore pubblicava la pubblicità di medicinali brevettati ma non osava stampare la verità sugli stessi medicinali per paura di perdere la pubblicità.
Era ovunque la stessa cosa: crimine e tradimento, tradimento e crimine, uomini vivi ma niente affatto limpidi e nobili.Oppure uomini limpidi e nobili che però non erano vivi. Poi c’era una massa enorme e senza speranza né nobile né viva, che era semplicemente limpida. Non peccava deliberatamente o con mano sicura: peccava passivamente in maniera ignorante adeguandosi semplicemente all’immoralità corrente traendone un profitto. Fosse stata nobile e viva non sarebbe stata ignorante e si sarebbe rifiutata di spartirsi i dividendi del tradimento e del crimine.
Mi resi conto che non mi piaceva vivere sul piano dove c’era il salotto della società. Ero intellettualmente annoiato, moralmente e spiritualmente nauseato. Mi ricordai dei miei intellettuali e idealisti, i miei predicatori spretati, i professori squattrinati e i lavoratori dalla mente lucida con una coscienza di classe. Ricordai le notti e i giorni del sole e delle stelle dove la vita era meraviglia dolce e selvaggia, un paradiso spirituale di avventure generose e di idillio etico. E davanti a me vidi rifulgere nuovamente infuocato il Sacro Graal.
Così tornai alla classe lavoratrice nella quale ero nato e alla quale appartenevo. Non mi interessava più risalire. L’edificio della società che incombeva sul capo non conteneva alcuna gioia per me. Sono le fondamenta dell’edificio che mi interessano. Poiché lì sono contento di lavorare, palanchino in mano, a fianco di intellettuali, idealisti e lavoratori con una coscienza di classe, per usare ogni tanto un bel piede di porco con cui far traballare tutto l’edificio. Un giorno, quando avremo più braccia e palanchini per lavorarci bene l’edificio, lo capovolgeremo e con esso rovesceremo tutti quei morti insepolti, la vita marcia, il mostruoso egoismo e l’ottuso materialismo. Dopodiché, ripuliremo la cantina e costruiremo una nuova abitazione per l’umanità nella quale non ci saranno piani con un salotto e dove le stanze saranno tutte luminose e arieggiate e l’aria limpida, nobile e viva.
Questo é il mio orizzonte: attendo con ansia il tempo in cui l’uomo compirà un progresso verso qualcosa che valga e che sia più importante dello stomaco, il tempo in cui l’uomo sarà spinto all’azione da un incentivo migliore di quello odierno, lo stomaco. Continuo a credere nella nobiltà e nell’eccellenza. Credo che la dolcezza spirituale e la generosità conquisteranno la volgare golosità odierna. Infine, la fede nella classe lavoratrice. Come disse un francese, “la scala del tempo riecheggia sempre il suono dello zoccolo che sale e dello stivale lucido che scende.”

Questo inedito è apparso su Satisfiction n. 1 nel  novembre 2007 curato e tradotto da Davide Sapienza.

Operazione Qumran

gennaio 20, 2012

Lo uadi Qumram, dove tra il 1947 e la metà degli Anni 50 sono stati ritrovati, in undici grotte, i celebri rotoli. Il sito si trova sulla costa nord-occidentale del Mar Morto

Da febbraio a Gerusalemme un’équipe italiana al lavoro sui materiali archeologici rinvenuti negli Anni 50. Sveleranno gli ultimi misteri dei Rotoli del Mar Morto

Maurizio Assalto per “La Stampa

La storia era una di quelle a cui si crede volentieri. Il pastorello beduino che pascola il gregge, una pecora che se ne va per conto suo, lui che la insegue in una grotta e dentro alcune giare di terracotta trova un tesoro. I Rotoli del Mar Morto: la più grande scoperta archeologica del secolo scorso, assieme alla tomba di Tutankhamon, ma ben più densa di implicazioni politico-religiose, conflitti accademici, intrighi internazionali. Il racconto «funzionava», un misto di Alì Babà e della parabola evangelica della pecora smarrita.

«Peccato che la realtà fosse un po’ più complicata», fa notare Marcello Fidanzio, coordinatore scientifico dell’Istituto di Cultura e Archeologia delle Terre Bibliche di Lugano, professore di Ebraico biblico alla Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale a Milano. Insieme con Riccardo Lufrani, Fidanzio è a capo dell’équipe italiana che dal 1˚ febbraio sarà a Gerusalemme, incaricata di studiare e pubblicare i materiali scavati negli anni 50 nel sito di Qumran, sulla costa nord-occidentale del Mar Morto, presso le grotte dei famosi rotoli che contengono, tra l’altro, alcuni tra i più antichi manoscritti della Bibbia. L’archeologia è la chiave per comprenderli meglio, dopo sessant’anni di ricostruzioni fantasiose.

Il ritrovamento, secondo la versione ufficiale, risale al 1947. Merito di un certo Muhammad ed-Dibh («il Lupo») e forse di un altro paio di beduini ta’amireh. Ma in realtà pare che si debba risalire più indietro, agli ultimi mesi del ’46. E forse quei beduini non erano tanto pastori, quanto contrabbandieri in cerca di nascondigli per la loro mercanzia. «Ma il fatto più triste», dice Fidanzio, «è che tutte le prime testimonianze convergono su uno stesso punto: che la pergamena di cui è fatta la maggior parte dei rotoli era un materiale molto utile per fabbricare i legacci dei sandali…». Con ogni probabilità alle grotte che punteggiano la falesia di Qumran avevano già attinto altri in passato, come è suggerito anche dalla constatazione che molte giare vennero rinvenute vuote. Del resto in questa zona già nel III secolo d.C. erano stati ritrovati manoscritti biblici: lo riferisce Eusebio di Cesarea nella Storia ecclesiastica (324 circa), raccontando che Origene se ne sarebbe servito per redigere la sua Esapla .

Quel che è certo è che, con le 24 sterline ricavate dalla vendita del bottino a un mercante di nome Kando che aveva la bottega nella piazza della Mangiatoia a Betlemme, Muhammad il Lupo si comprò un fucile, venti capre e una moglie e cambiò vita. L’antichità dei manoscritti era stata riconosciuta da Eleazar Sukenik, insigne archeologo dell’Università ebraica di Gerusalemme, nel novembre del ’47. Da quel momento la caccia ai rotoli, quelli nascosti nelle altre grotte di Qumran, poteva dirsi aperta. Pochi giorni dopo, però, il 29 novembre, l’Onu votò la partizione della Palestina tra arabi e ebrei. Seguì il 14 maggio ’48 la dichiarazione unilaterale che sancì la nascita dello Stato di Israele. E, il giorno dopo, lo scoppio del primo conflitto arabo-israeliano. Per un paio di anni, fino a quando la Cisgiordania venne annessa dalla Giordania, la zona di Qumran fu off-limits. Cessate le ostilità, le ricerche potevano riprendere, con gli archeologi di tutto il mondo (ma con l’importante esclusione degli israeliani, ossia i più interessati) pronti a contendere il tesoro ai beduini, che erano avvantaggiati dalla conoscenza dei luoghi. Alcune grotte erano raggiungibili soltanto calandosi per una trentina di metri sul fianco della falesia, altre distavano fino a due chilometri dal sito.

In mezzo a tutte queste complicazioni, l’incarico di condurre gli scavi fu affidato a un domenicano francese, Roland de Vaux, ferratissimo storico e archeologo direttore dell’École Biblique et Archéologique Française di Gerusalemme. I lavori si protrassero fino al 1956, quando la seconda guerra arabo-israeliana, conseguente alla crisi di Suez, impose un nuovo stop. Ma il grosso era fatto: centinaia di grotte erano state ispezionate, e undici di queste avevano restituito importanti rotoli, per un totale di circa 900 manoscritti in decine di migliaia di frammenti. Restava da studiarli e pubblicarli. Nel 1959 De Vaux, che in tutti quegli anni aveva pubblicato periodici rapporti sullaRevue biblique , propose la sua teoria: Qumran era il sito comunitario degli Esseni, una setta che intorno al 150 a.C. si era staccata da Gerusalemme, in opposizione all’«empia» ellenizzazione dell’ebraismo, per praticare il lavoro, la preghiera e l’osservanza della purità rituale; e i rotoli erano la loro biblioteca, nascosta nelle grotte per metterla in salvo, al tempo della rivolta antiromana culminata nella distruzione del Tempio, nel 70 d.C.

«La teoria sembrava convincente», osserva Fidanzio, «perché molti dei primi manoscritti erano relativi alle norme della vita comunitaria essenica. Ma, proseguendo gli studi, si constatò che solo una parte dei documenti rimandava agli Esseni, gli altri attestavano tendenze religiose diverse e anche divaricanti. Qualcuno, poi, risaliva addirittura al III secolo a.C. Il limite di De Vaux fu di mischiare la descrizione e l’interpretazione». Riesaminando i materiali, dopo la sua morte prematura, nel ’71, si aprirono molti interrogativi. Per esempio: come spiegare le tracce di decori architettonici – mosaici, fregi, colonne, ceramica fine – in una comunità pauperista di celibi? E l’abbondanza di monete, che sembra attestare un’attività economica rilevante? E perché nella necropoli alcuni corpi, anziché essere sepolti in un telo, secondo l’usanza ebraica, erano composti entro bare, indizio probabile che vennero trasportati qui da un altro luogo?

Per rispondere a queste domande sarebbe stato necessario un esame approfondito dei materiali archeologici. Ma intanto un’altra guerra, quella dei Sei giorni, nel giugno ’67, aveva nuovamente capovolto la situazione e bloccato tutto. Al termine del blitz Israele aveva occupato, tra l’altro, la parte Est di Gerusalemme, dove i reperti erano depositati nel Museo Rockefeller. Non essendo stata riconosciuta l’annessione, per vent’anni nessun archeologo vi mise piede. Intanto i rotoli erano stati portati nel Museo d’Israele, oggetto di tensioni con la Giordania che periodicamente li rivendica. Il gruppo internazionale e interreligioso creato da De Vaux per lo studio dei manoscritti procedeva a rilento, alimentando illazioni (circolò anche una «teoria del complotto», secondo la quale nei rotoli erano contenuti documenti scottanti che il Vaticano voleva tenere nascosti). All’inizio degli anni 90 fu così istituita una nuova commissione che è finalmente riuscita a pubblicare tutti i manoscritti realizzando microfiches e foto all’infrarosso.

Per quanto riguarda i materiali di scavo, rimasti «dormienti» dalla metà degli anni 50, nel 1987 l’École Biblique incaricò dello studio un altro frate domenicano, l’archeologo Jean-Baptiste Humbert, sotto la cui supervisione opererà dai prossimi giorni la squadra italiana. La sua ipotesi è che Qumran abbia attraversato diverse fasi: nella prima metà del I secolo a. C. vi sarebbe sorta una residenza di tipo ellenistico (la pianta è la stessa della Casa del Governatore a Dura Europos, in Siria), sulle cui rovine si era in seguito insediato un piccolo gruppo permanente dedito all’ospitalità dei pellegrini, che nei giorni della Pasqua si rifiutavano di compiere i riti al tempio di Gerusalemme. Nell’imminenza dell’arrivo dei Romani, sarebbero stati nascosti qui tanto documenti propri dell’insediamento, quanto materiale proveniente da più lontano. Per Fidanzio e colleghi, in attesa di qualche sponsor che sostenga la loro ricerca priva di finanziamenti pubblici, il lavoro si prospetta lungo, con la possibilità di aprire scenari del tutto nuovi anche per quanto riguarda l’interpretazione dei testi. «Faremo come per i rotoli: cercheremo di pubblicare ogni cosa il più rapidamente possibile, in modo che gli studiosi di tutto il mondo possano dare il loro contributo».

Il Processo

gennaio 20, 2012

Karl Adolf Eichmann

Quella mostra su Eichmann che ribalta le tesi della Arendt. Alla vigilia del Giorno della Memoria, la storia del criminale nazista in un´esposizione a Firenze

Susanna Nirenstein per “la Repubblica”

Si intitola Il processo. Eichmann a giudizio, ma potrebbe quasi chiamarsi “Processo ad Hannah Arendt” la mostra che arriva da Berlino ed è pronta ad aprirsi negli spazi delle Murate, le ex-prigioni di Firenze, il 23 gennaio (fino al 18 febbraio), quattro giorni prima del Giorno della Memoria. La visione e la lettura dei numerosi video e documenti del procedimento che iniziò l´11 aprile 1961 a Gerusalemme dopo il clamoroso rapimento da parte del Mossad, l´11 maggio 1960, del direttore del Dipartimento Affari Ebraici IV B 4 delle SS rifugiato in Argentina – dell´organizzatore prima dell´espulsione degli ebrei dalla Germania, del loro trasferimento ad Est e poi dei trasporti verso i campi di sterminio da tutta l´Europa occupata –, la lettura proposta dai curatori tedeschi, dicevamo, si differenzia infatti dalla diffusa interpretazione della filosofa tedesca che seguì (ma solo in parte!) l´avvenimento epocale nella capitale israeliana per il New Yorker e vide in Eichmann “la banalità del male”. Il Male che Eichmann incarna non ha niente di “banale”, come mette in luce il percorso creato dalle fondazioni berlinesi Topografia del Terrore e Memoriale degli Ebrei Assassinati in Europa, la statura di Eichmann non è affatto quella di un grigio burocrate incastrato nel motore della tirannia come una qualsiasi rotella inconsapevole e necessaria al meccanismo. La visione della filosofa tedesca era senz´altro legata alla sua tesi sulla cappa psicologica invincibile del totalitarismo, e serviva forse a salvare dalla colpa collettiva il popolo tedesco in mezzo a cui si era formata e forse persino Heidegger, il suo maestro, che al nazismo aveva aderito. La Arendt alla fin fine così si dimostrava aperta alla tesi della difesa di Eichmann: «ho solo obbedito agli ordini, sono stato solo un dente di un ingranaggio, non sono mai stato antisemita», senza attribuire la giusta importanza né allo svelamento inedito dei testimoni, né alla personale convinzione ideologica nazista che aveva spinto lui come milioni d´altri “volenterosi carnefici” al genocidio.
Ecco invece subito nell´esposizione portata in Italia dalla Regione Toscana e, attraverso la cura di Camilla Brunelli, dalla Fondazione Museo e Centro di documentazione della Deportazione e Resistenza di Prato, le tappe della sua biografia: legato fin da giovanissimo alla destra austriaca che chiedeva l´annessione alla Germania e si nutriva di antisemitismo, presente nell´estremismo militante, lettore attento fin dalla fine degli anni Venti di giornali nazional-socialisti, parte di quel misero 3% che nel ´30 in Austria votò per il partito nazista a cui aderisce definitivamente nel ´32. Nel Reich dal ´33, all´indomani della vittoria di Hitler, Eichmann riceve una formazione paramilitare nelle SS e nel ´34 entra nel Servizio di Sicurezza del Reichfuehrer Himmler, e ben presto con gradi sempre più alti nell´unità “Affari ebraici”, dedita a forzare gli ebrei a lasciare la Germania. Alla conferenza di Wansee del ´42 che mise a punto il piano della “soluzione finale” fu uno degli organizzatori (e lì, lo vediamo dire in tribunale, si sentì sollevato come Ponzio Pilato perché erano stati “i protagonisti, i papi del Reich” a decidere, anche se era lui stesso a prospettare le soluzioni possibili). Himmler lo definì “lo specialista” quando nel ´44 lo chiamò come sempre a deportare velocemente mezzo milione di ebrei ungheresi ad Auschwitz, un “maestro” della spoliazione, dell´emigrazione forzata, e ben presto del trasferimento nei lager. Persino nella sua deposizione nel ´61 in Israele Eichmann chiama gli ebrei “parassiti”.
Cosa ci vide di “banale” Hannah Arendt? La sua intuizione, o la sua forzatura, che tanto ha condizionato la riflessione sulla Shoah come di un evento fatale perpetrato da uomini senza volto, non funziona (fu l´autorevole Raul Hilberg a dirlo per primo, seguito ben presto tanti altri storici): una mappa mostra gli infiniti spostamenti di Eichmann in tutti i luoghi caldi dello sterminio, la storiografia più recente riportata in catalogo in bel saggio di Gerhard Paul ne certifica le continue iniziative, la partecipazione attiva alla macchina della morte, la conoscenza esatta di quel che stava avvenendo, l´antisemitismo convinto (il comandante di Auschwitz Rudolf Hoess l´aveva definito “ossessionato dalla questione ebraica”). Un quadro confermato anche dall´intervista data nel 1957 da Eichmann a Willem Sassen, un giornalista ex SS (in Italia nel ´61 la pubblicò Epoca).
Ma la mostra, che dedica una parte curata da Valerie Galimi alla ricezione del processo in Italia e alla Shoah italiana anche con la registrazione inedita della deposizione in aula di Hulda Campagnano, unica testimone nata nella penisola, non si occupa solo della colpevolezza di Eichmann. Nell´esposizione si affrontano tutte le tappe e gli uomini del processo, le battaglie legali, i capi d´imputazione, la volontà del procuratore generale Hausner di farne un evento che documentasse ogni fase e aspetto della persecuzione dal ´33 al ´45 (come ricorda David Cesarani in catalogo), attraverso gli uomini e le donne che l´avevano vissuta, per dare ai fatti, a differenza di Norimberga che aveva usato soprattutto documenti scritti, una dimensione umana e un impatto drammatico.
Il processo fu trasmesso da tutte le radio e le televisioni del mondo. La Shoah uscì dalla sua aura fantasmica e divenne volti, lacrime, svenimenti, racconti puntuali. Per la costruzione della memoria nacque una nuova era, quella del testimone, delle voci che non si possono più cancellare, un rapporto vivente che parlava anche agli stessi giovani di Israele ponendo fine al silenzio che aveva circondato i sopravvissuti, ridandogli un´identità fondamentale, come spiega assai bene il saggio di Annette Wieviorka in catalogo. Sono parole e sguardi che potremmo ascoltare e vedere in parte nella mostra. Ed è importante ora che i testimoni se ne stanno andando. Deborah Lipstadt, vinta la causa contro lo storico negazionista Irving, ha scritto un libro proprio sul processo ad Eichmann. Perché? le è stato chiesto. Perché il negazionismo non è affatto scomparso e nel mondo arabo va per la maggiore, ha risposto, perché i testimoni sono fondamentali, perché bisogna ascoltare chi minaccia un popolo di sterminio: le parole deliranti del ´33 divennero fatti.
Eichmann fu condannato il 15 dicembre 1961, giustiziato a mezzanotte del 31 maggio 1962, cinquanta anni fa esatti. Il suo corpo fu cremato in un luogo segreto e le sue ceneri disperse nel Mediterraneo.

Diritti Globali

Da Vermeer a Kandinsky. Le affinità elettive dei capolavori

gennaio 20, 2012

Goldin: ho preferito mescolare le carte, così si parlano tra loro dipinti lontani di secoli. Nelle sale di Castel Sismondo Bacon dialoga con Tintoretto e Jacopo Bassano. Quattro secoli di arte in una mostra a Rimini che mette a confronto i grandi maestri. Così “Linea d´Ombra” festeggia i suoi 15 anni di attività

Lea Mattarella per “la Repubblica”

Linea d´ombra, la società creata da Marco Goldin per l´organizzazione di eventi espositivi compie 15 anni. E alla sua festa ha invitato una sessantina di opere dei più grandi artisti attivi in Europa dal Cinquecento al Novecento. Che sono arrivate a Castel Sismondo a imbastire un appassionante viaggio nella storia dell´arte: la mostra intitolata Da Vermeer a Kandinsky. Capolavori dai musei del mondo a Rimini, curata dallo stesso Goldin, che spiega: «Vorrei che il visitatore avesse la sensazione di sfogliare le pagine non di un libro, ma di un museo. Così inizialmente avevo pensato di allestire le opere per scuole regionali e in ordine cronologico: Venezia nel Cinquecento, i Paesi Bassi nel Seicento, il paesaggio inglese ecc. E invece ho deciso di mescolare queste carte che compongono il meraviglioso racconto dello sguardo occidentale e di far parlare tra loro dipinti anche geograficamente lontani, separati da secoli». Che di cose da dirsi ne hanno davvero molte.
I casi più clamorosi di questo dialogo a distanza si trovano nell´ottava sala dell´esposizione, una delle ultime del percorso, dove tutto è tenuto insieme dalla rappresentazione del corpo. Uno di fronte all´altro vi sono le Deposizioni eseguite da Tintoretto e da Jacopo Bassano, due protagonisti della pittura veneziana del Cinquecento, e un´infuocata e drammatica triade di dipinti di Francis Bacon, datati 1988 che compongono l´ultimo trittico eseguito da questo grande cantore del dolore dell´uomo, del suo tragico stare al mondo. Ma c´è una sofferenza anche nei due quadri del Cinquecento, in quei Trasporti di Cristo che esprimono, in contrasti di luce e ombre, la tragedia della morte di un Dio che si è fatto uomo. Le figure di Bacon che ghignano, gridano, sono deformate e menomate, hanno una fratellanza antica con il vortice e la vertigine che emerge dal quadro di Tintoretto, dove la Vergine svenuta ha la testa che sembra uscire dalla cornice, tanto è potentemente gettata verso lo spettatore. Al punto che ti viene quasi di sorreggerla, di accarezzare il velo che le cinge la fronte. A pochi metri ecco Picasso e Veronese, quattro secoli di differenza, ma in comune un´agitata composizione verticale.
Un altro incontro tra due mondi che si riconoscono è quello tra il San Francesco, spoglio, solenne, tutto risolto in una fissità dominata da un´ombra che pare la quintessenza dello spirito, eseguito da Francisco Zurbarán in Spagna tra il 1640 e il 1645 e la Cantante di strada dipinta da Edouard Manet nella Parigi della seconda metà del XIX secolo, mentre sorgeva l´alba della modernità. La donna ritratta in questo quadro molto amato da Emile Zola è Victorine Meurent, la modella preferita di Manet, la stessa che farà scandalo con la sua nudità priva di orpelli nella Colazione sull´erba esposta con grande clamore al primo Salon de Refusés nel 1863. Eppure tra la chanteuse intenta a mangiare le sue ciliegie da un cartoccio e la sacralità del santo di Zurbarán ci sono molte cose in comune. Sono due sinfonie in grigio, con le figure in verticale che emergono dal buio. E chiunque conosca un po´ di storia dell´arte sa quanto la pittura spagnola abbia da sempre sedotto Manet, che a differenza di Monet e compagni, non rinuncerà mai all´uso del nero perché era il colore che lo teneva unito a Velázquez per il quale stravedeva.
Diego Velázquez lo si incontra poche sale prima con un quadro che ha qualcosa di inquietante e misterioso: Don Baltasar Carlos, primogenito di Filippo IV, ritratto a tre anni in compagnia di una nana di corte. Un capolavoro di stoffe, velluti e broccati ma anche di una crudele dimensione psicologica. Lo accompagna il ritratto di Fratello Hortensio Félix Paravicino di El Greco, l´opera, proveniente dal Museum of Fine Arts di Boston, che ha il più alto valore assicurativo dell´esposizione: 70 milioni di euro. Un quadro mozzafiato, costruito sui bianchi e sui neri, dove la figura seduta su una sedia con una leggera asimmetria ha sguardo vibrante e labbra screpolate. Lo stesso monaco quando vide il dipinto scrisse un sonetto “O greco divino!”. Nella stessa sala ecco il Vermeer giovanile, Cristo in casa di Marta e Maria, che arriva da Edimburgo. Dei 36 quadri conosciuti del pittore di Delft questo è il più grande di dimensioni e l´unico con un soggetto evangelico. La resa della luce nell´interno della casa è già quella del Vermeer maturo.
Continuando a sfogliare le affinità elettive create da Goldin, ecco il vedutismo settecentesco di Canaletto e della sua spettacolare inquadratura di Venezia che si confronta con la pittura di paesaggio inglese di Constable e Gainsborough. E poi una carrellata di volti e gesti maschili: su una stessa parete, uno accanto all´altro, cardinali, suonatori, gentiluomini che tengono in mano lettere e libri. Si devono al pennello di Savoldo, Sebastiano del Piombo, Moretto, Moroni e Tiziano. Anche qui la sapienza con cui sono raffigurati vesti e abiti si accompagna all´introspezione psicologica del personaggio, sempre rivelato in tutta la sua individualità.
C´è un bellissimo quadro di Lorenzo Lotto, una Sacra Conversazione in cui le teste sono tutte volte in direzioni differenti, così che la quiete che solitamente accompagna questo soggetto è abbandonata per una soluzione movimentata e palpitante, con il meraviglioso particolare del bambino che sembra spaventarsi del santo in preghiera di fronte a lui. E poi ecco una di fronte all´altra le due teste bibliche saltate per volontà femminile: quella di San Giovanni Battista si deve a Mattia Preti, mentre Oloferne decapitato da Giuditta è opera di Francesco Cairo. Siamo tra i caravaggeschi, italiani ma anche fiamminghi, come Gherardo delle Notti, celebre appunto per la sua predilezione nei confronti del buio. Si chiude all´insegna del colore con la felicità cromatica di Matisse e di Kandinsky. E con un altro dialogo sotterraneo: quello tra Mondrian, che aveva finito per semplificare sempre di più il paesaggio in un´armonica composizione astratta per eliminare il tragico dell´esistenza, e la natura informale di Nicolas De Staël con le sue pennellate materiche cariche di pathos. Si leverà la vita nel 1955, l´anno dopo aver dipinto questa tessitura che diventa luce. Aveva 41 anni.

Diritti Globali

I mille volti di Pessoa per cogliere la realtà

gennaio 18, 2012

Fernando António Nogueira Pessoa (Lisbona, 1888–1935) è considerato uno dei maggiori poeti portoghesi e, per il suo valore, è comparato a Camões. Il critico Harold Bloom lo definì, con Neruda, il poeta più rappresentativo del XX secolo

«Sentire in tutte le maniere, vivere da tutti i lati». Così iniziò il suo cammino di spersonalizzazione

Marzio Breda per “Il Corriere della Sera

Un uomo sale su un tram e osserva i viaggiatori che gli siedono di fronte. In realtà li guarda senza distinguerli, perché gli interessano soltanto i «dettagli». Dunque si concentra in particolare su una ragazza, separando mentalmente il vestito che indossa «dalla stoffa di cui è fatto e dalla lavorazione che è stata necessaria a cucirlo». Lo colpisce «il ricamo leggero che orla il colletto», una linea verde scuro sul verde chiaro dell’abito, e subito «vede» la filanda dove la fibra di seta è stata ottenuta, le sezioni della fabbrica, le macchine, gli operai, le sarte, gli uffici, i contabili, i dirigenti. In un velocissimo flusso di percezioni, entra nelle case di quelle persone, in regioni lontane, e intuisce il significato delle esistenze di ognuno, gli amori, i segreti, il loro spirito. È un attimo. La testa gli gira. Scende dal tram esausto e sonnambulo. Ha «vissuto tutta la vita».

Questo squarcio rivelatore del Libro dell’inquietudinelascia capire i meccanismi con cui si accendeva e prendeva energia la sensibilità quasi sciamanica di Fernando Pessoa (Lisbona 1888-1935) e ci permette di intuire come funzionava l’inafferrabile enigma della spersonalizzazione e della compresenza. «Sentire tutto in tutte le maniere, / vivere tutto da tutti i lati, / essere la stessa cosa in tutti i modi possibili allo stesso tempo / realizzare in sé tutta l’umanità di tutti i momenti / in un solo momento diffuso, profuso, completo e distante». Ecco: è con tale processo di lampeggiamenti simultanei che certi «inquilini sconosciuti» rischiaravano le ombre della sua mente in un continuo dialogo con lui, che come un medium li aveva chiamati – in modo di essere «non tanto uno scrittore quanto un’intera letteratura» – da un altrove che stava già dentro di sé. Erano gli eteronimi. Cioè, letteralmente, «altri nomi», nuclei vitali di individui autonomi e diversi da lui, pur essendo proiezioni del suo pensiero. Dei figli-fratelli generati dal Pessoa ortonimo, cioè il Pessoa lui-stesso, a sua volta allievo di un eteronimo. Una folla di alter ego del poeta (tra eteronimi e semieteronimi ne sono stati censiti una cinquantina, ma per alcuni sarebbero addirittura più di settanta), affiorati da un continuo gioco di autofecondazioni, reincarnazioni, dissociazioni. Ciascuno con propria dimensione, pronta a interferire con quella degli altri. Concepiti con fisionomie fisiche, schede anagrafiche, professioni, biglietti da visita, stili, idee politiche e morali, manie e persino segni zodiacali differenti.

C’è un giorno preciso in cui questa identità vertiginosa comincia a manifestarsi, l’8 marzo 1914, quando Pessoa colto da una specie di «estasi» compone di getto trenta poesie, firmandole come Alberto Caeiro. E immediatamente dopo gliene escono altre sei, di altra musicalità e ritmo, a sua firma. È l’inizio di un vortice di continui sdoppiamenti, scissioni, sottrazioni, amputazioni che trova più di una analogia nella storia della letteratura. Infatti, se il portoghese definiva la propria ansia di totalità e la propria anima multilaterale spiegando di sentirsi «multiplo» come «una misteriosa orchestra», l’americano Walt Whitman delle Foglie d’erba non molti anni prima aveva scritto di sé: «I am large, I contain multitudes».

Ma quelli di Whitman (di cui non a caso è discepolo l’eteronimo Álvaro de Campos) come di Hölderlin e di qualche altro sono solo pallidi precedenti, rispetto alla potenza del «drama em gente», dramma fatto persona, che è la cifra dell’opera plurale e con un quid anche esoterico di Pessoa. «Mio Dio, mio Dio, a chi assisto? Quanti sono io? Chi è io? Cos’è questo intervallo che c’è fra me e me?» E confessa ancora: «Per creare, mi sono distrutto; mi sono così esteriorizzato dentro di me che dentro di me non esisto se non esteriormente. Sono la scena viva sulla quale passano svariati attori che recitano svariati drammi».

Insomma: il conflitto tra sincerità e simulazione, con una progressiva disgregazione dell’io, in lui si risolve con un visionario scavo nella sfera tra coscienza e incoscienza e nell’idea – modernissima – di «letteratura come menzogna». E qui scatta l’amletismo geniale di chi non si basta, ma vissuto in una maniera così mostruosamente tormentata che qualcuno ha preteso di derubricarla al rango di sconfinamenti patologici, esiti da isteria cronica. «Il poeta è un fingitore. / Finge così completamente / che arriva a fingere che è dolore / il dolore che davvero sente».

Un percorso al termine del quale, comunque la si pensi sull’origine della sua poetica, restano esiti lirici commoventi. Come scoprì chi per primo affondò le mani dentro il baule da biancheria nel quale, otto anni dopo la sua morte, furono pescati più di 27 mila testi sconosciuti: poesie, frammenti di diario, sequenze di racconti, progetti di libri appuntati dalle sue tante repliche, eteronimi maggiori o minori, o che aveva attribuito direttamente a se stesso. Una miniera di pagine dalle suggestioni inaspettate, dato che in vita Pessoa si era protetto con una monotona e scialba routine da impiegato. Scrivendo però molto, quando la sera si chiudeva nella sua camera ammobiliata o nelle taverne in cui si stordiva di alcol e fumo, e sempre fuori da ogni disciplina accademica: «Ubbidisca alla grammatica chi non sa pensare ciò che sente». E, pur frequentando la società letteraria portoghese, pubblicando poco (ma non così poco come si è spesso detto) su effimere riviste a bassissima tiratura di quella Lisbona allora assai marginale rispetto a Parigi o Londra, dove fermentavano le grandi avanguardie artistiche.

Dal giorno di quel ritrovamento Pessoa continua a parlarci, «con la civetteria di uno che si è voluto quasi tutto postumo», come ha detto Andrea Zanzotto. La sua voce resta tra le più acute e profetiche nella percezione del dolore, dell’assurdo, della solitudine, pur in un’apparente indifferenza. Come gli succede in certi «giorni di luce perfetta ed esatta, / nei quali le cose hanno tutta la realtà che possono avere» e nei quali però la stessa bellezza «non significa nulla». Come nei versi della «Tabaccheria», quando dalla finestra di casa scruta il padrone del negozio di fronte, che va e viene sulla porta, e riflette: «Lui morirà ed io morirò. / Lui lascerà l’insegna, io lascerò dei versi. / A un certo momento morirà anche l’insegna, e anche i versi. / Dopo un po’ morirà la strada dov’era stata l’insegna, / e la lingua in cui erano stati scritti i versi. / Morirà poi il pianeta ruotante in cui è avvenuto tutto questo».

Il Don Giovanni segreto: cuore nero senza riscatto

gennaio 18, 2012

Pietro Citati

Distante da Goethe e Molière, non calcola né recita

Pietro Citati per “Il Corriere della Sera

Non esiste, forse, personaggio che Mozart abbia rappresentato con più precisione di Don Giovanni:
in testa egli ha un cappello / con candidi pennacchi: / addosso un gran mantello / e spada al fianco egli ha.
La cosa più spiritosa è che questo ritratto non è disegnato dalla spietata Donn’Anna, o dall’appassionata Donn’Elvira, o da Leporello, che è lo storico e il ritrattista in titulo del suo padrone. Chi rappresenta l’ardimentoso e baldanzoso cavaliere dai «candidi pennacchi» è lo stesso Don Giovanni, che verso l’inizio dell’atto secondo guida la torma dei contadini e delle contadine e dei servi che vorrebbero bastonare o uccidere Leporello, mascherato coi vestiti del suo signore.

Un secondo ritratto, che Mozart avrebbe volentieri controfirmato, ci è fornito da Hoffmann, quando, nella meravigliosa parte prima dei Pezzi di fantasia alla maniera di Callot, ci mostra il gentiluomo di Siviglia mentre «apre il manto e si mostra nello stupendo costume di velluto rosso con ricami d’argento». Una figura possente, superba – insiste Hoffmann: viso d’una bellezza virile, naso aristocratico, occhi penetranti, labbra morbide e sensuali.

Non possiamo dimenticare che il cavaliere dalle labbra morbide, che le donne spagnole porteranno per sempre nella memoria, non si vede mai, o quasi mai, alla luce del giorno. Il dissoluto punito, rappresentato per la prima volta, a Praga, nell’ottobre 1787, si svolge nell’atmosfera intensa e calda di una notte spagnola. Tutto è notturno: l’assassinio, i balli, le bevute, le vendette, le macchinazioni amorose, i travestimenti, la festa, il banchetto, l’apparizione finale del Commendatore, il fuoco. Solo una volta si vede la luce della luna, chiarissima sulle statue del cimitero.

Qualcuno potrebbe aggiungere che Don Giovanni non è una figura tenebrosa: tenebrosa è la statua di sasso del Commendatore. Don Giovanni è un fuoco impetuoso, vivace, brillante, che attraversa il palazzo e la campagna. Ma questo fuoco è pieno di notte: emana scintille e barlumi notturni, che verranno spazzati via dal «vortice di fuoco» dell’ultima scena.

Malgrado la precisione del ritratto, il Don Giovanni di Mozart resta misterioso: tanto più misterioso quanto più gli scrittori e gli studiosi cercano di avvicinarlo ad altre figure del tempo. Don Giovanni – viene detto – è un seduttore libertino, o un fratello gemello di Faust. In realtà, Mozart ha fatto il possibile per allontanare il suo eroe dalle figure libertine della storia passata e presente: Don Juan Tenorio di Tirso de Molina, Dom Juan di Molière, Lovelace di Richardson e Valmont di Laclos, che aveva cominciato le sue insidie qualche anno prima.

L’eroe di Tirso chiama orgogliosamente se stesso «l’ingannatore di Siviglia»: vuole ingannare e stuprare; il suo inganno non è una passione sensuale, ma una crudele arguzia intellettuale, che si propone degli scopi, e li realizza a ogni costo, senza provare piacere né divertimento né gioia. L’eroe di Molière è il signore del calcolo, dello stratagemma, della finzione, della dissimulazione, che recita la parte di Tartufo; e insieme a tutti i possibili Tartufi della terra forma una specie di società segreta, che si nasconde dal mondo e conquista il mondo.

Ora, il Don Giovanni di Mozart non ragiona, non calcola, non dissimula, non recita; e solo qualche volta, con una specie di condiscendenza e quasi di pietà verso gli uomini, accetta di ingannare le sue innumerevoli Donne Elvire.

Quanto a Faust, le somiglianze sono ancora minori. Mentre Faust aveva letto tutti i libri e cercava di possedere le chiavi occulte dell’universo, Don Giovanni è vittima e preda di un’incultura totale. Forse non ha mai letto un libro (o soltanto i libracci pornografici che suppongo legga Leporello), non ha idee né dottrine; e non medita mai su quello che fa. Se Faust desidera perennemente l’infinito, inseguendolo in tutte le sue possibili incarnazioni, Don Giovanni ignora qualsiasi forma di infinito. Non conosce l’illimitato, il sovrannaturale, il celeste; o li disprezza. Il mondo, per lui, è materia limitata: quello che si può afferrare, e letteralmente abbrancare con le mani. Faust si trasforma, cambia natura, è sempre un altro, vive in una condizione di perenne metamorfosi, bevendo alle sorgenti venerabili della Natura. Don Giovanni non muta: muta solo il nome e il numero delle sue donne. All’inizio del dramma, è identico al personaggio che diverrà alla fine, malgrado vicende che dovrebbero cambiarlo completamente.

Il segreto di Don Giovanni sta in una parola ch’egli ripete insaziabilmente, furiosamente, freneticamente, come se volesse scavarla e portarne alla luce tutto ciò che contiene. «Non vedete che voglio divertirmi». «Troppo mi premono queste contadinotte. Le voglio divertir finché vien notte». «Giacché spendo i miei danari, io mi voglio divertir»; e poi, sempre girando attorno allo stesso tema, «Vivan le femmine! Viva il buon vino! Sostegno e gloria d’umanità». «Lasciar le donne! Pazzo! – dice a Leporello – Lasciar le donne? Sai ch’elle per me son necessarie più del pan che mangio, più dell’aria che respiro». «Mi pare sentir odor di femmina»; e non smette di fiutare e di odorare quel profumo meraviglioso, quel balsamo incomparabile, che conosce come nessuno.

Cosa significa questa parola: divertimento? Sebbene Don Giovanni non legga libri e non ami riflettere, egli sa, inconsciamente, che contiene moltissime cose, che forse in parte gli sono ignote, ma per le quali sa di possedere «un fertile talento». Come dice l’intelligentissima e amorosissima Donn’Elvira, non è il semplice inganno di Don Juan Tenorio: ma un cimento, cioè una prova, un azzardo, che può impegnare tutta una vita, sino in profondo. Divertirsi significa accelerare, sino quasi alla follia, il ritmo e la velocità della vita; non sostare nemmeno un istante in un luogo o nell’altro, perché ci si diverte sempre altrove; vivere solo nel presente, o in quell’attimo di futuro che si muove subito dopo il nostro attimo; apprendere in ogni amore cose oscurissime, che solo lui e le donne conoscono («voi sapete quel che fa», dice Leporello); percorrere tutte le fasi e le ombre di ogni passione, dal furore alla dolcezza e dalla dolcezza al furore (perché Don Giovanni può essere dolcissimo e tenerissimo); non progettare nè architettare nè prevedere nè anticipare, ma desiderare, gioire, godere, possedere, e poi abbandonare, e poi di nuovo desiderare e gioire, perché il piacere è questa unione incessante e mobilissima di desiderio, possesso e abbandono.

«Voglio divertirmi» significa moltiplicare le donne. In Italia Don Giovanni ne ha avute seicento e quaranta, in Lamagna duecento e trentuna, cento in Francia, in Turchia novantuna, in Ispagna (dove è appena arrivato) mille e tre; e intanto la lista delle donne sta crescendo (o dovrebbe crescere) via via che noi ascoltiamo l’opera, e le danze si scatenano furiosamente sulla scena e dietro la scena. Caccia le donne in ogni luogo, in ogni città, in ogni paese, inseguendo le contadine, le cameriere, le cittadine, le contesse, le baronesse, le marchese, le principesse: la bella e la brutta, la bionda e la bruna, la grassotta e la magrotta, la grande e la piccola, la matura e persino la vecchia e, soprattutto, la giovane principiante.

Il fuoco notturno di Don Giovanni resta sempre acceso e scintillante, quale sia il grado, la forma, l’età, il carattere, il temperamento, la natura delle creature mobilissime e odorose, che egli tiene strette, e qualche volta si soffermano, innamorate, e qualche volta gli scivolano via tra le mani, perché anche la fuga e l’abbandono sono una forma (forse la più incantevole) di divertimento amoroso. È un universo illimitato (se non infinito), dal quale Don Giovanni rischia di restare continuamente travolto. Ogni Zerlina è un rischio; ogni Donn’Anna un pericolo mortale. Ma egli non sarà travolto dalle cose terrene, che adora: soltanto da quelle celesti e infernali, che lo annoiano o non lo interessano affatto.

Don Giovanni ha compreso che la meta, che egli insegue, è molto più vasta del semplice divertimento amoroso, oppure che questo si allarga, si dilata, fino a smarrire ogni confine e a perdersi nell’indistinto. Tutto, per lui, è divertimento: la danza, il fandango, la calabrese, la furlana, il minuetto, la polacca, la seguidilla; ma le danze devono essere condotte, senza ordine e quasi senza ritmo, dagli abitanti colorati della notte, nobili, servi, camerieri e contadini e contadine e giovinotti leggeri di testa, che cantano e bevono senza fine, inseguendo il piacere e obbedendo allo stesso ritmo furibondo del loro signore. Un altro divertimento è il cibo, servito nella casa illuminata di Don Giovanni, mentre gli archi, i flauti, gli oboi, i clarinetti, i fagotti, i corni, le trombe intonano l’allegro vivace, l’allegretto, l’allegro assai.

Ma anche il delitto è un divertimento. Quando Don Giovanni uccide, sempre nella tenebra, il Commendatore, lo fa senza impegno, con un rapido colpo di spada, quasi per gioco, come se dovesse dare la battuta d’inizio della festa scatenata e indiavolata.

Così Don Giovanni, indossando il suo sfavillante costume di velluto rosso e i suoi candidi pennacchi, non rifiuta nessun piacere della terra: «la terra, solo la terra, ma tutta la terra», come scriveva un eccellente critico musicale russo del diciannovesimo secolo. Come direbbero i Greci, è trascinato dalla hybris, divorato dalla hybris, accecato dalla hybris: dal furore e dalla dismisura.

Malgrado questo, Mozart ama la sua creatura seducentissima, come lo ama Donn’Elvira. Segue con una strana simpatia il suo cimento: il divertimento, il piacere, la follia, il furioso coraggio contro le pretese del Cielo e dell’Ade. Ma, al tempo stesso, con la stessa devozione dei Greci, sa che la hybris è fatta per gli dèi, non per gli uomini. Se Apollo pecca e viola tutti i possibili limiti, gli uomini, con discrezione, attenzione, cautela e pazienza, devono rispettare i limiti che le leggi naturali e divine hanno imposto loro.

Nella prima scena dell’opera, Don Giovanni uccide con la spada il Commendatore, che in Tirso de Molina portava il nome di Gonzalo de Ulloa. Il Commendatore moribondo è soltanto un anziano e decoroso gentiluomo spagnolo: la figlia, Donna Anna, adora in lui il padre e la madre; il dolcissimo e tenerissimo fidanzato, Don Ottavio, non placa il suo desiderio di vendetta, né il suo furore di ghiaccio. Verso la fine del dramma, sono passate pochissime ore, il Commendatore riappare. Ora non è più un gentiluomo spagnolo, né il suo spettro; ma la Statua, l’Uomo di sasso, il Convitato di pietra. Sembra che non possegga nessuna passione, nemmeno quella della vendetta: tutto, attorno a lui, respira l’atmosfera remota e assente di un altro mondo, non sappiamo quale. Non è più che voce e passo, entrambi di pietra. Il passo terrorizza persino l’impavida Donn’Elvira. La voce – monotona, solenne, profonda, immobile, fosca – ci sembra la disumana voce di sasso, con la quale si esprime la Morte, quando parla con gli esseri umani.

Don Giovanni viola e offende i limiti tra la vita e la morte: forse non li vede nemmeno; oltraggia profondamente il Commendatore invitandolo a cena, come se fosse soltanto un convitato qualunque, invece che la Morte, o il signore dei morti. L’Uomo di Sasso non tollera questa audacia e questa violenza: non sopporta l’invito a cena, o vuole trasformarlo in una vendetta definitiva; ed esecra il divertimento erotico di Don Giovanni, che non rispetta né le donne nè gli uomini, né il cielo né la misura. A questo punto, non sappiamo se attribuirgli un altro nome. Forse non è la Morte, ma soltanto, o soprattutto, un messo e un vendicatore di Dio, del quale, finora, non abbiamo nemmeno ascoltato il nome. «Non si ha bisogno di luce, quando si è condotti dal cielo», aveva detto nel Festin de Pierre di Molière: «Non si pasce di cibo mortale chi si pasce di cibo celeste», ripete nell’opera di Mozart. Ma non siamo certi del vero nome del convitato di pietra. Quando lo contempliamo sulla scena, e ascoltiamo il suo passo funereo e la sua voce funerea, ci chiediamo se sia davvero un messo di Dio, o un signore degli Inferi e dei fiumi sotterranei, come in Don Juan aux enfers , una delle più antiche e belle Fleurs du mal di Baudelaire.

In questo momento, ci torna alla memoria il testo di Tirso de Molina, dove soltanto alla fine, dopo aver manifestato i suoi rifiuti e le sue furie, Don Juan Tenorio si pente: «Lasciatemi chiamare un prete che mi confessi e mi assolva»; e l’Invitato di pietra annuncia che non c’è più tempo: «ormai è troppo tardi per pentirsi». Don Giovanni, invece, possiede, manifesta e ostenta il proprio coraggio fino all’ultimissimo istante del dramma. Come vogliono Mozart e il Commendatore, e non vuole Don Giovanni, che continua a sognare una vita piena di donne, di danze e di «eccellenti marzimini», l’opera meravigliosa si avvia rapidamente verso la fine. Don Giovanni cena, da solo, nella sua grande sala illuminata; la mensa è preparata, i suonatori suonano, i camerieri portano il fagiano, il vino, e chissà quali altre delizie seguiranno. Come osserva Leporello, Don Giovanni mangia «con barbaro appetito»; è pieno di «divertimento» e di gioia; e ha completamente dimenticato (gli uomini del presente dimenticano volentieri) di aver invitato a cena il Convitato di pietra. Prima Donn’Elvira, poi Leporello escono dalla sala, e gettano un ah! di terrore. Leporello balbetta: «Ah!… signor… per carità… Non andate fuor di qua… L’uom… di… sasso… l’uomo bianco… Se vedeste… che… figura… Se… sentiste… come… fa: Ta, ta, ta, ta». Infine, preceduto da un andante di archi, flauti, oboi, clarinetti, fagotti, corni, trombe, timpani, tromboni, entra il Convitato di pietra: «Don Giovanni! a cenar teco m’invitasti e son venuto… Tu m’invitasti a cena: il tuo dover or sai. Rispondimi: verrai tu a cenar meco?».

Quando il Commendatore chiede in pegno la mano di Don Giovanni, questi gliela porge, senza nessuna pietà verso se stesso. La mano del Convitato di pietra è gelidissima: è il gelo della morte definitiva, che afferra al cuore il cavaliere dai candidi pennacchi, che grida forte. Il Convitato di pietra gli chiede, anzi gli ordina: «Pentiti, cangia vita: è l’ultimo momento! Pentiti, scellerato. Pentiti». Don Giovanni rifiuta: non si pentirà mai, a nessuna condizione, a nessun costo, in nessun tempo futuro. Ma siamo alla fine dei tempi: fuoco, terremoto, vortici pieni di orrore, strazio, smania, inferno, terrore; un coro invisibile di sotterra intona voci cupe, sui temi che fin dall’inizio aveva introdotto il Commendatore. Don Giovanni sprofonda nel fuoco. Il Convitato di pietra sparisce, non sappiamo dove: forse in cielo, forse nel regno dei morti, dove ci aveva introdotto il Don Juan di Baudelaire; forse è un’ombra che sfiora rapidamente Donn’Elvira, che ritorna sulla scena del teatro.

Dopo l’«Ah!» terribile di Don Giovanni, appaiono di nuovo sulla scena Leporello, Donn’Elvira, Donn’Anna, Don Ottavio, Zerlina e Masetto; incalzano, ripetono, abbozzano buffonerie: «Resti dunque quel birbon con Proserpina e Pluton. E noi tutti, o buona gente, ripetiamo allegramente l’antichissima canzon: questo è il fin di chi fa mal!». Qualcuno avrebbe voluto abolire tutto l’allegro assai, sostenendo che la coda distrugge la tragicità della grande opera. Non lo credo. Mozart giunge all’estremo del peccato, della condanna e della tragedia; e poi si riserva un ultimo tocco, un ultimo guizzo di irrazionale buffoneria e letizia, suggerendo che c’è sempre (almeno a teatro, o sul suo teatro) qualcosa di invisibile, che va oltre la notte e il fuoco, senza rafforzarli nè diminuirli.