ARCIPELAGO SALAMOV

DOCUMENTI DALL’INFERNO DEL GULAG

Il nome di Varlam Salamov occupa ormai una posizione centrale nel panorama letterario russo del XX secolo: un’affermazione che si è rivelata lenta e difficile, come lento e difficile è stato ed è ancora il processo di scoperta, ricostruzione e lettura del suo retaggio letterario, oltreché di ridefinizione del tragico tessuto biografico ad esso sottostante. Eppure il disincantato cantore della Kolyma, il cronachista senza speranze (ma non disperato) del mondo concentrazionario del GULag, si eleva, tragico e maestoso iconografo dell’inferno, come uno dei massimi autori della letteratura russa. Nella sua riflessione su una realtà crudele, dove il lager si pone come il male assoluto, Salamov tende a superare il concetto stesso di «letteratura», attraverso la brevità, la semplicità, la chiarezza dell’esposizione. Ne deriva una sorta di etnografismo basato sul dettaglio quotidiano, dietro il quale si cela l’idea che «ciò che si soffre con il proprio sangue si realizza sulla carta come documento dell’anima».
Accanto alle Memorie di una casa di morti di Dostoevskij e all’Arcipelago GULag di Aleksandr Solzhenicyn, autore e compagno di sventura con cui Salamov ebbe un rapporto sofferto, i suoi Racconti di Kolyma costituiscono una testimonianza irripetibile, tanto da spingere il grande regista Andrej Tarkovskij ad annotare nei suoi Diari. Martirologio: «Salamov ci racconta della sofferenza con una verità e un’integrità tali, le sue uniche armi sono queste, che ci costringe a soffrire con chi è stato all’Inferno e inchinarci a lui. Dante era temuto e rispettato perché era stato all’Inferno! Ma era un inferno immaginario il suo, mentre Salamov ha conosciuto l’Inferno vero. Ed è risultato ben più terribile». Un inferno, il lager, che per Salamov è fatto a somiglianza del mondo, così che lo scrittore – a differenza di Solzhenicyn – non sviluppa nei suoi testi invettive o considerazioni politiche, ma indaga il processo di disumanizzazione di cui è permeato l’universo concentrazionario.
L’apertura degli archivi
Alcune mie vite è il titolo che Salamov, attribuì alla propria autobiografia – autobiografia che esiste in diverse varianti, così come caratteri autobiografici, talvolta documentari, percorrono tutta l’opera, in prosa e in versi, dello scrittore. La scelta di questo titolo (con il sottotitolo Documenti segreti e racconti inediti) da parte dei curatori della nuova edizione italiana (Mondadori, pp. 304, euro 25) è motivata dalla scansione cronologica e biografica della raccolta, che si poggia sui documenti relativi ai tre procedimenti giudiziari istruiti contro Salamov, rispettivamente degli anni 1929, 1937 e 1943, e dalla disposizione cronologica dei racconti o brani di racconto inseriti nelle tre sezioni (1929-31, 1937-42 e 1943-51) che si identificano appunto con le diverse vite dello scrittore (cui si aggiungono per il periodo 1956-69 i rapporti degli informatori della polizia segreta raccolti dal funzionario dell’Archivio del Fsb Sergej Poceluev).
Curato da Francesco Bigazzi, Sergio Rapetti e Irina Sirotinskaja, il volume riproduce la documentazione già uscita in Russia, nel 2001 su «Znamja» (in occasione della definitiva riabilitazione dello scrittore avvenuta nel 2000, come racconta Sirotinskaja nella breve nota introduttiva) e nel 2004 nell’antologia Novaja kniga, nonché racconti, frammenti e note autobiografiche desunti da edizioni precedenti a partire dal 1989. Ripercorrendo la storia del recupero dei testi dei procedimenti penali relativi a Salamov, Bigazzi rievoca con limpidezza e passione i giorni in cui gli archivi sovietici cominciarono ad aprirsi inondando di materiali segreti e sconosciuti i tavoli delle redazioni di giornali, delle case editrici, degli esperti di cose russe e sovietiche. Nel suo ritratto di Salamov uomo e scrittore, Rapetti descrive con grande efficacia il padre sacerdote, Tichon, e la provincia russa di Vologda, dove Salamov nacque. È proprio questo mondo lontano non solo nello spazio, ma anche nel tempo per i tanti fili che lo legano alla Rus’ moscovita di Ivan il Terribile e alla sfera dei vecchi credenti, a offrire una prospettiva profonda sul patrimonio culturale e umano di Salamov, ben evidenziato dallo studioso italiano, che affronta i temi centrali dell’esperienza spirituale e creativa dello scrittore (la natura, l’amore, la poesia stessa), riproponendo il noto parallelo tra Salamov e il capo spirituale dei vecchi credenti, Avvakum, cui lo scrittore dedicò versi molto intensi. Il saggio di Rapetti costituisce così uno strumento affinatissimo per avventurarsi nel mondo artistico e spirituale di Salamov, descrivendone la complessa e rigida struttura morale, dall’entusiasmo del giovane rivoluzionario alla essenziale, laconica, precisione del prigioniero nel suo accostarsi alla memoria, al mondo, alla vita.
Articolato in senso cronologico, il volume nella prima sezione – 1929-31. Dagli entusiasmi rivoluzionari alla condanna come «elemento socialmente nocivo» – offre, insieme ai documenti relativi al primo procedimento giudiziario, un assaggio di come funzionavano le forze inquirenti dell’Ogpu (Salamov fu interrogato da uno stretto collaboratore del cekista Jakov Agranov, «curatore» dell’intelligencija sovietica), e mette in evidenza l’insensata meticolosità di operazioni decise a tavolino, come la stessa condanna di Salamov non in base all’articolo 58 come «politico» (l’arresto era stato disposto con l’accusa di aver diffuso il Testamento di Lenin), bensì come criminale comune, «elemento socialmente nocivo», cosa che ritarderà in modo kafkiano la definitiva riabilitazione dello scrittore addirittura all’anno 2000. A questi documenti si accompagnano brani narrativi, nei quali l’entusiasmo giovanile per il nuovo ordine sociale rivoluzionario e le dispute letterarie lasciano il posto al primo imprigionamento di Salamov nel carcere moscovita di Butyrki e poi al trasferimento al campo sul fiume Visera sugli Urali con una condanna a tre anni.
Al secondo arresto, intervenuto dopo un breve periodo trascorso a Mosca, durante il quale Salamov aveva lavorato come giornalista e ripreso la sua attività di scrittore (uno dei suoi primi racconti, Le tre morti del dottor Austino, fu pubblicato nel 1936 sulla rivista «Oktjabr’»), è dedicata la seconda sezione: 1937-42. Condannato alla deportazione alla Kolyma come «controrivoluzionario». Il procedimento, assai più voluminoso, riporta anche tutte le testimonianze d’accusa («attività controrivoluzionaria trockista», perché Salamov aveva incontrato vecchi compagni dell’opposizione con i quali aveva militato nel periodo precedente al primo arresto). Sono pagine impressionanti, percorse da una luce vivida, che offrono uno spaccato eloquente sulla psicologia e sul comportamento di aguzzini, informatori, semplici vittime dell’ingranaggio negli anni del Grande Terrore. L’inquirente Botvin e i colleghi di Salamov chiamati a testimoniare sono poi riproposti dallo scrittore nel racconto L’arresto, seguito dalle terribili pagine de La strada per l’inferno, dedicata al trasferimento a Kolyma e Il trentotto, vero e proprio capolavoro letterario e umano, nel quale Salamov descrive con la precisione del cronista e il distacco del naturalista la vita della Kolyma, il destino del dochodjaga, il funzionamento delle gerarchie del campo, tra guardie, delinquenti comuni, politici, uomini sani e invalidi, medici e malati.
Sotto l’occhio della polizia
La terza parte, 1943-51. Fame, freddo, lavoro forzato e la terza condanna, documenta, se fosse possibile, una ulteriore discesa nella scala dell’inferno, il terzo procedimento contro Salamov all’interno del campo con ulteriori accuse di «ostinazione trockista» e per giunta di sentimenti disfattisti e filotedeschi (siamo nel 1943, in piena guerra). Salamov fu condannato a ulteriori dieci anni per «propaganda antisovietica» e anche per aver definito Ivan Bunin un «classico della letteratura russa». Il quadro offerto è ancora più impressionante, non solo per il racconto autobiografico dello stesso Salamov (Il mio processo e il bellissimo brano Il guanto), quanto per la ricca documentazione processuale, con le testimonianze degli accusatori, quando le coraggiose repliche dell’imputato risuonano a difesa non solo della propria verità, ma della dignità umana. Tornato libero nel 1951 e poi riabilitato nel 1956 Salamov poté dedicarsi alla sua vocazione letteraria.
Tra i tanti contatti, ancora più dell’incontro con Solzhenicyn nel 1962 e con Nadezhda Mandel’stam nel ’65, fu decisivo quello con Pasternak, che aveva risposto nel ’52 alle lettere di Salamov inviate dal lager e che Salamov visitò appena giunto di passaggio a Mosca nel 1953. A questo proposito, l’editore Archinto ha da poco riproposto in una nuova edizione (la prima era del 1988) la corrispondenza tra i due scrittori: Boris Pasternak-Varlam Salamov, Parole salvate dalle fiamme. Ricordi e lettere (a cura di Luciana Montagnani, pp. 199, euro 16).
Stabilitosi a Mosca, Salamov cominciò a far uscire i suoi versi su importanti riviste, come «Znamja» e «Moskva» (presso la quale per un certo periodo collaborò), e pubblicò diverse raccolte poetiche, tra il 1961 e il 1972: L’acciarino, 1961, Il fruscio delle foglie, 1964, La via e il destino, 1967, Le nuvole di Mosca, 1972. (Da segnalare, in traduzione italiana, la bella raccolta di versi Il destino di poeta, a cura di Angela Dioletta Siclari, La Casa di Matriona, 2006). Nel 1973 Salamov fu ammesso nell’Unione degli Scrittori. Negli stessi anni cominciarono a diffondersi nel Samizdat brevi narrazioni sulla vita del GULag, mentre i Racconti della Kolyma, scritti tra il ’54 e il ’73, apparvero all’estero a partire dal 1966 (la prima edizione organica uscì a Londra nel 1978). Nel 1971 terminò il libro autobiografico La quarta Vologda, negli stessi anni lavorò a Visera. Antiromanzo. Ma Salamov rimase sempre sotto l’occhio vigile della polizia segreta. Proprio i rapporti dei vari confidenti e delatori agli organi di polizia sono riportati nella parte finale del libro e offrono una ulteriore prospettiva, certo parziale e di parte (senza la compartecipazione emotiva che emerge nel recente film tedesco La vita degli altri), ma di sicuro valore documentario. Nel ’79 per le sue condizioni fisiche lo scrittore venne trasferito in un pensionato per anziani, nel gennaio del 1982 fu trasferito con la forza in un ospedale psichiatrico, dove morì pochi giorni dopo.

Stefano Garzonio

Il Manifesto

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Una Risposta to “ARCIPELAGO SALAMOV”

  1. rabuccia Says:

    L’ha ribloggato su daisuzoku.

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