Da “La Colata”, Milano: Ligresti alla conquista del Parco Sud

Estratto da La colata. Il partito del cemento che sta cancellando l’Italia e il suo futuro di Ferruccio Sansa, Andrea Garibaldi, Antonio Massari, Marco Preve, Giuseppe Salvaggiulo – a cura di Ferruccio Sansa. Collana: Principio Attivo pp. 544 – euro 16,60

(dal capitolo “Milano: Ligresti alla conquista del Parco Sud”)

Il Duomo e la cascina

Il Duomo, certo. La Madonnina. Ma il simbolo della Milano di oggi è anche un altro: cascina Campazzo. Nessun altro luogo meglio di questa vecchia costruzione di campagna, stretta fra i palazzi come tra le morse di una tenaglia, racchiude lo spirito di una città che si sta svendendo al cemento. Che ettaro dopo ettaro sta perdendo ogni spazio verde e affida al mattone le sue prospettive di sviluppo.

Milano oggi è un cantiere, il panorama muta ogni giorno. Nuovi grattacieli cambiano lo skyline sotto lo sguardo confuso degli abitanti, le gru fanno ormai parte del paesaggio. Si costruisce, prima ancora di riqualificare una città che avrebbe tanto bisogno di rimediare ai danni della crescita selvaggia del dopoguerra e degli anni della Milano da bere (e da mangiare).

No, questo non è – come qualcuno vorrebbe far credere – un atto d’accusa contro l’architettura e contro l’innegabile necessità che le città debbano mutare. Qui si mette in discussione l’equivalenza tra sviluppo e cemento, si punta il dito su progetti che rischiano di compromettere definitivamente la qualità della vita dei cittadini.

Le cronache milanesi parlano di una miriade di grandi opere: ecco allora sorgere – tra le proteste dei comitati e l’approvazione delle amministrazioni sempre pronte a sostenere i costruttori – i grattacieli di CityLife, poi il megainsediamento di Santa Giulia impantanato per le vicissitudini del gruppo Zunino, e ancora Porta Garibaldi, la nuova sede della Regione con cui Roberto Formigoni vuole lasciare un segno ai posteri del suo passaggio. Per non parlare del Pir di Ligresti, della nuova sede del Comune, del progetto per l’Isola (quel quartiere che, appunto come un’isola, resisteva in mezzo al mare di nuove costruzioni). Fino alle Varesine. Decine di nuovi edifici e di milioni di metri cubi, tutti griffati da grandi progettisti: Hadid, Libeskind, Isozaki, Pei, Cobb, Boeri e lo studio Kohn, Fox e Pedersen. Architetti che, viene il dubbio, sono stati usati talvolta come paravento per far passare una sola cosa: il cemento.

Ma ci vorrebbe un libro a parte per raccontare la fame da calcestruzzo della Milano di oggi. Per descrivere il groviglio di società e di conflitti di interesse che nella patria del Cavaliere sono ormai liquidati con una scrollata di spalle. Per esempio il caso della Expo 2015, la società che dovrà gestire miliardi di euro pubblici per la costruzione di strade, residenze e padiglioni in vista dell’esposizione universale del 2015. Ebbene, la società è guidata da Diana Bracco, già presidente degli industriali milanesi, che ha ottenuto dal Comune di Rho, dove ha sede la fiera, il cambio di destinazione d’uso di un’area industriale di proprietà del suo gruppo per costruirvi un albergo e un centro commerciale. No, non possiamo raccontare tutto. Non possiamo ricostruire la battaglia senza quartiere che in questi mesi si sta combattendo intorno al Pgt (il piano di governo del territorio) che il Comune di appresta ad adottare. Meglio concentrarsi su una storia che ne racchiuda tante altre. Che sia il simbolo di una Milano che ha deciso di costruire sacrificando la qualità della vita dei suoi abitanti. Qualcuno ci guadagna, molti ci perdono. Il danno sarà definitivo, perché la capitale morale d’Italia si sta mangiando i suoi ultimi spazi liberi.

Allora ecco il Parco Sud, che per i milanesi è l’ultimo polmone verde della città e per i costruttori la frontiera da superare per costruire. Un battaglia che non è soltanto urbanistica. Qui sono in gioco l’identità stessa di Milano, le sue radici umane e culturali che affondano anche nella campagna.

Come tutte le storie, questa è prima di tutto la vicenda di due uomini: Andrea e Salvatore. Andrea Falappi, cinquantotto anni, è un agricoltore; da quando è nato ha trascorso ogni giorno della sua vita al Campazzo. Intanto, senza che quasi se ne accorgesse, tutto gli cambiava intorno: l’orizzonte con i palazzi che si facevano ogni giorno più vicini, l’aria in cui all’odore del grano si sostituiva lentamente quello acre della città, i colori sempre più tendenti al grigio. Insomma, Andrea è nato in campagna e oggi si ritrova in città, come se la sua cascina, sempre uguale, con i tetti di tegole e coppi, si fosse trasferita in centro. E invece no, era la metropoli che si muoveva, che avanzava.

Salvatore ha settantotto anni e altri non è che Ligresti: un cognome diventato, soprattutto a Milano, un sostantivo. Significa il re del mattone, l’uomo che con i suoi palazzi ha modificato il panorama di Milano.

Difficile immaginare due vite tanto diverse: una spesa a coltivare una manciata di ettari di campo, l’altra trascorsa a sognare e realizzare palazzi immensi, a contare miliardi come fossero spiccioli. Eppure le parabole di Andrea e Salvatore oggi si incontrano proprio intorno alla cascina. Già, perché il Campazzo, la cascina del Settecento dove Falappi vive da quando è venuto al mondo, nel 1984 è stata comprata dalla Altair, gruppo Ligresti, che l’ha acquistata dall’Ente comunale assistenza Milano. Un’inezia, una briciola nell’immenso patrimonio immobiliare dell’imprenditore di Paternò, se non fosse che, appunto, questa fattoria nel cuore del Parco del Ticinello è diventata un simbolo: da una parte c’è Andrea che si ostina a coltivarne i campi, dall’altra c’è Salvatore che ogni due mesi gli manda gli ufficiali giudiziari con uno sfratto esecutivo. E da anni finisce sempre nello stesso modo: proteste, sollevazioni popolari, rinvii.

«Non si può vivere così, è un incubo, sempre con la minaccia dello sfratto che ci pende sopra la testa. Questa vita da precari ti consuma» sospira Andrea dopo l’ennesimo assalto respinto, e sembra quasi sul punto di cedere. Ma poi no, continua la sua battaglia che ormai ha coinvolto comitati, associazioni, gente del quartiere. Centinaia di persone che Andrea richiama aprendo le porte della sua cascina a mezzo mondo. Bisogna andarci alle sue feste, bisogna provare il disorientamento di sentirsi in campagna mentre sei a quattro chilometri dal Duomo di Milano.

Tanti, tantissimi si sono mobilitati per il Campazzo e chissà se lo fanno perché pensano seriamente di vincere o perché vogliono partecipare a una nostalgica battaglia di cui si conosce già l’esito: alla fine Andrea – piegato dagli sfratti esecutivi o dalla stanchezza – se ne andrà. Come decine, centinaia di agricoltori che sono stati costretti a lasciare le loro cascine di fronte alla città che avanza inesorabile. Allora Salvatore potrà aggiungere un tassello all’elenco delle sue proprietà.

Milano perde la sua anima padana

A guardare la mappa catastale dei terreni a sud di Milano si resta di sasso: è una scacchiera con decine di caselle colorate di scuro. Sono le terre che Ligresti in anni e anni di paziente lavorio ha comprato, una dopo l’altra. Appena un proprietario mostrava segni di cedimento, ecco che le società di Salvatore si facevano avanti. Davvero incredibile: il più grande costruttore di Milano è anche probabilmente la persona che possiede più terreni agricoli, più cascine. Un impero che ha il suo centro nella zona intorno a via Ripamonti, quella strada dritta e stretta che parte dal centro di Milano, corre in mezzo ai palazzi sempre più bassi, sempre più radi e all’improvviso si ritrova tra i campi.

Ecco, tutto intorno sono terre di Ligresti. Ma perché un uomo con un fiuto così eccezionale per gli affari immobiliari ha deciso di investire in una zona vincolata a parco? Possibile che dopo aver costruito decine di milioni di metri cubi si sia convertito al verde e all’agricoltura? No, nessuno ci crede, Ligresti il cemento ce l’ha nel sangue. Per lui, arrivato dalla Sicilia con quattro spiccioli in tasca, è il simbolo del riscatto. Del successo. Niente è più concreto e definitivo di un palazzo.

Ma allora perché? «Ligresti ha cominciato a comprare da anni, decenni. Sperava che i vincoli, come troppo spesso succede in Italia, cadessero, capiva che quella macchia di terreno ancora vuoto a sud di Milano prima o poi sarebbe diventata la nuova frontiera della città» spiega Renato Aquilani, presidente dell’Associazione per il Parco Sud. E forse Salvatore ci ha visto giusto: le ruspe hanno cominciato a tracciare solchi sulla terra dove fino a pochi anni fa marciavano i trattori. Ma c’è anche un’altra possibilità: il Comune ha deciso di attribuire ai terreni del parco un indice di edificabilità dello 0,2. Insomma, si potrebbe costruire. Almeno sulla carta, perché subito sindaco e assessori hanno fatto una promessa: gli indici sono per così dire «fittizi»; in pratica i proprietari delle terre, grazie al meccanismo delle perequazioni (o compensazioni), potranno sfruttare altrove i diritti di edificazione di cui godono nel parco. Un meccanismo complesso, per noi comuni mortali. In pratica è una sorta di gioco delle tre carte per dare ancora via libera al cemento: tu mi dai i tuoi diritti sulle zone agricole e io ti lascio costruire in un’altra zona.

Insomma, Ligresti può stare comunque tranquillo: se non costruirà a sud, lo farà a nord. Cambia poco. Del resto ormai Milano la sua scelta per il cemento l’ha compiuta da tempo: basta vedere che fine hanno fatto le aree «recuperate» negli ultimi anni. Prendiamo l’area che ospitava la vecchia Fiera. Dopo il trasloco degli spazi espositivi a nord-ovest, verso Rho, si sono liberati 36 ettari a due passi dal centro. Un tesoro, per una città strangolata dal traffico e dal cemento. «Diventerà il Central Park di Milano» promise l’allora sindaco Gabriele Albertini. Non è andata così: al posto dei vecchi ed eleganti padiglioni si realizzerà il grande progetto City Life (anche qui Ligresti è della partita). Invece del polmone verde promesso dai politici e chiesto dai cittadini stanno nascendo tre grattacieli che proietteranno la loro ombra su mezza Milano: una torre a forma di banana alta 140 metri uscita dalla matita dell’architetto americano Daniel Libeskind, una torre di 170 metri disegnata dall’irachena Zaha Hadid e un colosso di 209 metri partorito dal giapponese Arata Isozaki. Dovevano essere il simbolo della Milano proiettata verso il mondo e invece ci sono voluti due architetti come Vittorio Gregotti e Leonardo Benevolo per accorgersi che l’opera di Isozaki è un grattacielo di seconda mano, un progetto già utilizzato per una città giapponese e poi tirato fuori dal cassetto per Milano. Altro che città internazionale, questo è il trionfo del provincialismo.

Ma non c’è soltanto City Life, ci sono anche Porta Garibaldi, la nuova sede della regione e Santa Giulia. Ovunque cemento, milioni di metri cubi, magari conditi dalla moda del momento: i grattacieli. Meglio se firmati da architetti come Cesar Pelli.

Questa, però, è un’altra storia. Il punto è un altro: dopo la cementificazione degli anni Cinquanta e Sessanta – che per lo meno era dettata dallo slancio del boom economico e dal desiderio di lasciarsi alle spalle le distruzioni della guerra – adesso Milano ha deciso di mangiarsi gli ultimi spazi disponibili. […]

Il Parco Sud sotto assedio

Costruire, dunque, è la parola d’ordine. Ma dove? I grandi costruttori milanesi nei loro peggiori incubi vedono davanti a sé la mappa di Milano: a nord è una distesa ininterrotta di palazzi, non c’è un centimetro quadrato libero per chilometri e chilometri. Le poche chiazze verdi, i cosiddetti parchi urbani, fanno sorridere se confrontati ai veri parchi, come Villa Borghese a Roma. Allora che fare?

E qui torniamo al Campazzo, al Parco Sud. Era l’inizio degli anni Ottanta quando i milanesi si accorsero che la loro città stava soffocando. Che non era possibile dover fare duecento chilometri in auto per respirare una boccata d’aria pulita. E allora, con quel senso civico e quel desiderio di partecipare che soltanto Milano sa avere, si lanciarono in una battaglia per salvare almeno la zona sud della città. Furono anni di mobilitazione, di manifestazioni e di raccolte di firme (oltre trentamila). Cittadini e agricoltori uniti, un caso più unico che raro. Ma c’erano ostacoli da superare: i grandi imprenditori avevano progetti già pronti nel cassetto, come Berlusconi che con la sua Edilnord voleva costruire il centro di Lachiarella.

Alla fine anche gli amministratori dovettero cedere: prima la Provincia presentò un suo progetto, molto ridotto rispetto alle speranze dei cittadini, comunque un primo passo. Poi nel 1990 arrivò la legge regionale. Certo, vengono escluse enormi fette di aree agricole, come quel milione e 600.000 metri quadrati a Lachiarella. Vero anche che le norme tecniche consentono ai comuni di realizzare le previsioni di sviluppo contenute nei loro piani regolatori. Insomma, altro cemento in vista. Ma agricoltori e ambientalisti riescono comunque a mettersi in tasca un risultato: nasce il Parco Sud, una cintura verde (nonostante le tante macchie) che da Arluno, a ovest, abbraccia tutto il territorio meridionale della provincia e prosegue a est, oltre l’aeroporto di Linate, fino a Gorgonzola. Un semicerchio di 46.300 ettari che ricade nel territorio di 61 comuni, con Milano, ovviamente, che fa la parte del leone. Caso chiuso? Nemmeno per idea, perché in Italia non c’è niente di meno definitivo di un vincolo urbanistico. A ogni deliberazione della Regione e della Provincia c’è qualcuno che cerca di inserire postille per ammorbidire i limiti. Ma il nodo della questione è soprattutto un altro, come sostiene Aquilani: «Quella grande macchia verde disegnata sulle mappe è per tanti, troppi, soprattutto bianca. È una zona libera dove bisogna cercare in ogni modo di costruire».

Le cascine contro i palazzi. Gli agricoltori contro gli amanti del cemento e dell’asfalto. Così a ovest arriva la Boffalora-Baggio (Nuova tangenziale ovest), 20 chilometri per 420 milioni di euro. A est invece sarà realizzata la Tangenziale esterna est (Tem), 35 chilometri per 1,6 miliardi di euro (di questi due progetti parleremo in un altro capitolo). Una morsa micidiale per il parco, perché poi dove costruisci le autostrade, lo sanno tutti, arrivano le case.

Ma non è finita, perché nel territorio protetto stanno sorgendo anche l’ampliamento dell’Ieo (Istituto europeo di oncologia) e soprattutto il Cerba (Centro europeo di ricerca biomedica), le creature del professor Umberto Veronesi. E qui la questione diventa complessa e delicata. Perché non si parla di condomini, ma di istituti dove si cura il cancro. Centri di eccellenza che si occuperanno di tanti di noi. Di questo va tenuto conto. Però non bisogna nemmeno rischiare che l’importanza sociale dei progetti costringa ad accettare soluzioni che per certi aspetti possono sembrare discutibili.

Alla radice di tutto le disposizioni contenute nella legge che prevedeva l’istituzione del parco. Che vietava le costruzioni residenziali, ma lasciava di fatto il via libera ai servizi e alle infrastrutture. La parola «parco» non definisce adeguatamente i quasi cinquantamila ettari alle porte di Milano. Questo è un luogo davvero unico dove la terra si mischia, si scontra con la città. Dove l’anima antica, agricola, della Lombardia si confonde con quella nuova, legata all’industria e ai servizi.

Il confine tra i due mondi è difficile da tracciare: percorrendo via Ravenna, parallela al raccordo per l’Autostrada del Sole, si corre tra palazzi, capannoni, poi basta una curva e ci si ritrova in mezzo ai campi. Ma la città e la campagna sono sempre presenti, insieme. Sei in una distesa di grano e l’orizzonte a nord ha la forma dentellata dei grattacieli. Entri nel cortile di un condominio e tra gli spigoli dei palazzi parte un sentiero che attraversa un canale e ti porta tra le balle di fieno.

Forse il luogo migliore per esplorare il Parco Sud è l’abbazia di Chiaravalle. A poche centinaia di metri dall’abitato disordinato di San Donato Milanese ci si trova proiettati nel passato. Addirittura nel xii secolo. […] I rumori rari che provengono dal laboratorio dei frati ti rimandano alla ricchezza spirituale e culturale della città. È una terra di nessuno, assediata dai palazzi e dal presente, e però fuori dal tempo: così ecco che arrivando dal centro, dopo aver calpestato per settimane l’asfalto, ti ritrovi sotto i piedi una terra morbida, scura. […] E mentre sopra la testa ti sfrecciano gli aerei che atterrano a Linate osservi le macchine che tagliano il fieno, che mettono insieme le balle. Ecco il Parco Sud di Milano, migliaia di ettari su cui premono la città e il tempo, eppure ancora relativamente salvi. Strade che corrono tra canali, che lambiscono le cappellette dove una volta ci si fermava sulla strada dei campi.

No, non si tratta di un santuario, ma di un campagna vera, anche se tanto contaminata: «Nel parco – racconta Paolo Lozza di Legambiente – sono ancora attive 1400 aziende agricole che danno lavoro a 4000 persone. La coltura più diffusa e caratteristica è quella dei cereali (43 per cento della superficie del parco), ma c’è anche il riso (22 per cento), che in primavera trasforma la campagna in laguna (qualcuno l’ha definito un “mare a quadretti”) e le splendide cascine in improvvise isole». È una terra viva, che a seconda dei tempi del raccolto si colora delle tinte dei girasoli e della soia, ed è disegnata dagli orti e dai vivai. Poi le distese ordinate dei pioppi e i prati (16 per cento).

Certo, a chi è abituato alla città sembrano luoghi deserti, ma sono invece ben vivi: l’allevamento di bovini e suini interessa un terzo del parco e dà vita a 305 imprese. Il centro di tutto è la cascina lombarda che è abitazione, ma anche strumento di lavoro. Le esigenze della terra e dell’allevamento ne hanno disegnato la forma quadrata, con l’edificio per gli uomini e gli altri destinati agli animali e al fieno.

Proprio come cascina Gaggioli, dove dal 1948 vive la famiglia Bossi. Sono tre fratelli con la madre: c’è Giuditta (medico), Francesco (agronomo) e Paolo (veterinario). E poi Carla, la mamma, che ha ottant’anni. Contadini che hanno fatto l’università, che conoscono la città, ma che non hanno voluto mai lasciare la loro cascina dove adesso vivono con mariti, mogli e figli che si aggirano vocianti nel cortile. A guardarlo da fuori potrebbe essere un luogo perfetto: sei in campagna, con gli aironi che ti passano sopra la testa con il loro volo lento, precario, con le cicogne, le civette e le poiane. Ma sei anche a cinque chilometri dal Duomo, molto più vicino (la fermata del tram è a trecento metri) delle migliaia di milanesi che vivono negli alveari di cemento della periferia nord.

Le quattro tappe del degrado

Quella del Parco Sud è ancora una campagna viva, nelle sue coltivazioni, negli allevamenti, ma anche nel tessuto sociale che stringe rapporti con la vicina città. È ancora Nicolò Reverdini che racconta dei Gas, i Gruppi di acquisto solidale, che ormai raccolgono centinaia di famiglie. Una rete che aiuta gli agricoltori, ma anche la gente di Milano. «Il meccanismo è semplice» spiega Nicolò. «Gruppi di famiglie si uniscono per acquistare insieme i prodotti delle nostre terre, venendo direttamente a comprarli dagli agricoltori. Con vantaggi per tutti. Per noi ovviamente, ma anche per chi acquista a prezzi più bassi, saltando gli intermediatori, e trovandosi sulla tavola prodotti freschi, appena raccolti e coltivati senza alcun additivo chimico. Questa è la prova che il Parco Sud è vivo.»

Ma non è tutto così facile. Senti che la tua casa da un momento all’altro potrebbe sfuggirti via, come è successo a tanti tuoi amici che abitavano qui intorno: «Molti se ne sono andati» racconta Giuditta Bossi affacciandosi fuori dalla corte. Già, è una lotta lenta, silenziosa, contro un avversario inesorabile: «Vede, gli affitti una volta erano almeno ventennali, avevi il tempo di progettarti una vita. Adesso durano dieci anni, anche meno. Ma come fai a pianificare degli interventi, a investire, se hai paura che presto potresti essere costretto ad andartene?». Difficile, quasi impossibile. Succede qui come al Campazzo. «E noi siamo fortunati, i proprietari della cascina sono gente che vive qui, degli amici» sorride Giuditta Bossi. «E però è dura, perché la città ogni anno si mangia fette di campagna sotto i tuoi occhi» spiega Giovanni Gottardi del Wwf. Vincoli o non vincoli, poco importa.

Il professor Paolo Pileri del Politecnico di Milano da anni si sta occupando del consumo del suolo nella Pianura padana. E in particolare nella zona del Parco Sud. Leggendo le sue ricerche trovi conferma, dati alla mano, alle impressioni di Giuditta: il cemento aumenta. «Tra il 1999 e il 2007 all’interno del parco circa 873 ettari sono stati urbanizzati.» Insomma, le costruzioni si sono mangiate l’1,9 per cento delle aree comunali destinate al parco. Non solo: nei comuni sotto i cinquemila abitanti il rapporto è di 231 metri quadrati di nuove costruzioni pro capite. Nelle cittadine tra cinque e diecimila abitanti saliamo addirittura a 470 metri quadrati a persona. I comuni si sono infilati nella fessura lasciata aperta dalla legge che istituiva il parco: hanno applicato le norme tecniche che consentono alle amministrazioni di realizzare le previsioni di sviluppo contenute nei loro piani regolatori.

Ma non ci sono soltanto le piccole e medie operazioni immobiliari che hanno ottenuto il semaforo verde. Il nemico più insidioso per il Parco Sud è quello che il consigliere comunale verde Enrico Fedrighini chiama «costruzione del degrado». E quello che Stefano Rossi – giornalista de «la Repubblica» che con le sue accuratissime inchieste ha sempre seguito le vicende del polmone verde di Milano – descrive così: «Le tappe del degrado sono quattro. Si parte da una azienda agricola funzionante e stabile grazie a contratti di lungo periodo: almeno vent’anni. La proprietà perciò accorcia i contratti degli affittuari, rendendo più onerosi gli investimenti (il rientro deve avvenire in tempi brevi) e più incerte le prospettive: l’agricoltura d’impresa si trasforma in agricoltura di sopravvivenza. Il terzo passaggio è l’abbandono: il contadino va in pensione o getta la spugna, la proprietà non riaffitta. E quindi il gran finale: sui terreni lasciati a se stessi si insinuano attività abusive. Arrivano gli sfasciacarrozze, proliferano le discariche».

Ma a che cosa serve? «Alla valorizzazione immobiliare dei terreni – sostiene Fedrighini – perché i proprietari non sono imprenditori del settore alimentare, ma di mestiere costruiscono palazzi.» E qui torniamo a Giuditta che cammina per i suoi campi e si strofina le mani, non per il freddo, ma per un brivido che le monta dentro mentre ascolta le novità da Palazzo Marino (la sede del Comune), con il Pgt che potrebbe assegnare un indice di edificabilità dello 0,20 ai terreni coltivati: «L’indice agricolo è dello 0,03. Con lo 0,20, sui nostri 40 ettari verrebbero 80.000 metri quadrati di case, hai voglia quante sono». Giuditta si guarda intorno e punta il dito appena oltre la strada: «Quella cascina è di Ligresti. Adesso è coltivata, poi chissà…».

«Con la sola Immobiliare Costruzioni – spiega Stefano Rossi – Salvatore Ligresti possiede ettari ed ettari di aree agricole inedificabili fra Cerba e dintorni. Cosa se ne fa? Li coltiva, certo. Però il Pgt assegna alle aree agricole un indice virtuale. La scommessa è che la proprietà lo riversi su altre aree (edificabili) e in cambio ceda gratuitamente l’area al Comune. È la cosiddetta “compensazione”. Ma

gli immobiliaristi sembrano voler puntare sul “degrado costruito”, grazie al quale porteranno a casa l’8,15 per cento di aree edificabili in più nelle zone del Parco Sud comprese nei piani di cintura urbana. Perfino la Provincia, che governa il parco, lo ritiene un sacrificio necessario per salvare il resto con gli oneri di urbanizzazione. Ma a questo punto, perché compensare? Conviene accettare l’indice di edificabilità e lasciar fare al degrado il suo lavoro. Poi si risanerà costruendo». […]

A Milano Ligresti conta quasi quanto un sindaco. Anche se negli ultimi tempi le sue società stanno affrontando le acque agitate della crisi che ha colpito proprio il mondo del mattone. Ligresti perciò ha puntato sui grandi progetti che diventeranno i simboli della Milano dell’Expo, come, appunto, CityLife e Isola-Garibaldi dove l’imprenditore ha calato il jolly di Impregilo e i soldi di Fondiaria-Sai. Poi c’è l’altro fronte, quello del Parco Sud. Qui Ligresti ha puntato su una grande opera, il Cerba, e sulle speculazioni sui terreni della periferia – in particolare a margine delle zone verdi di Trenno, Forlanini e Parco Sud – dove si è mosso attraverso Sinergia e la galassia di controllate della Imco (Immobiliare Costruzioni). Ma l’asso nella manica del costruttore siciliano, sempre che il Comune giochi dalla sua parte, sarà la valorizzazione di cascine, campi, fienili, stalle e fontanili. Ecco il «capolavoro» di Ligresti, preparato per anni con la massima discrezione guardando al futuro. Così parcelle rurali ed edifici a volte diroccati, acquistati magari per due spiccioli, diventeranno tesori se arriveranno le autorizzazioni a costruire. Così sarà segnato il destino della cascina Campazzo nel Parco del Ticinello e quello della grande cascina Ambrosiana nel Parco Sud, poi toccherà ai prati della Bellaria e del Belgioioso al margine del verde di Trenno. Fino alle stalle della Canavese e della cascina Casanova al Forlanini. Già, il destino del Parco Sud è nelle mani di Ligresti il contadino.

Il Cerba, un discorso scomodo

Intanto le ruspe di Ligresti sono arrivate nel Parco Sud per realizzare il Cerba (il Centro europeo per le biotecnologie avanzate) progettato dall’architetto milanese Stefano Boeri. Un complesso che sorgerà su 620.000 metri quadrati di terreni in zona Ripamonti di proprietà di Sinergia e Imco. Un progetto da 900 milioni su un’area costata poco meno di 10 milioni. Insomma, per Ligresti un affare d’oro. Il Cerba, come abbiamo detto, è un centro di eccellenza che crescerà a poca distanza dall’Istituto europeo di oncologia che già lambisce il Parco Sud. Nel maxipolo saranno eseguiti 45.000 ricoveri l’anno e 27.000 interventi chirurgici. Una struttura dove lavoreranno oltre 4000 persone. Oltre all’ospedale e ai centri di ricerca ci saranno anche 7000 posti auto, edifici residenziali e ricettivi per i pazienti, i loro parenti, gli studenti e i medici.

Secondo Letizia Moratti e Roberto Formigoni, «il Cerba farà di Milano e della Lombardia la capitale europea della ricerca». In base all’accordo, la Fondazione Cerba si impegna a realizzare in cambio un parco attrezzato di 320.000 metri quadrati (18 milioni di euro), che gestirà per trent’anni (risorse necessarie, altri 25 milioni). Altri 42 milioni serviranno per infrastrutture e riqualificazione ambientale.

L’intero piano costerà un miliardo e 226 milioni e verrà finanziato dai privati: verrà creato anche un fondo immobiliare etico, garantiscono i soci della fondazione. Ma chi ne farà parte? Mediobanca, Intesa San Paolo, Unicredit, Allianz, Rcs, Pirelli. Insomma, oltre allo stesso gruppo Rcs, c’è metà del patto di sindacato che governa appunto la Rizzoli e il «Corriere della Sera». E ci sono istituti di credito – alcuni già impegnati in operazioni immobiliari come CityLife – e imprenditori del settore immobiliare (Carlo Alessandro Puri Negri è amministratore delegato della Pirelli Re e membro della Fondazione Cerba), oltre ovviamente alla Fondiaria Sai di Ligresti.

Quale sarà l’impatto di un complesso di queste dimensioni sulla zona del Parco Sud? Stefano Boeri, il progettista, definisce così il Cerba: «Abbiamo pensato a un’enorme piastra sotterranea con i laboratori di ricerca. Sopra ci saranno l’ospedale e gli spazi per ospitare i pazienti e i loro parenti. Ma abbiamo cercato di condensare il più possibile gli spazi per dare alla città anche un grande parco, aperto e fruibile. Questo sarà il regalo del Cerba a Milano. L’idea è soprattutto di realizzare una sorta di città giardino, con spazi esterni dove il verde avrà il ruolo fondamentale, con un grande viale alberato che collegherà i reparti. Ci sarà anche molto verde sulle coperture e sui tetti».

Difficile giudicare, per adesso bisogna accontentarsi dei rendering. Che però qualcosa dicono: ecco sei grandi parallelepipedi colorati che ospiteranno i reparti, poi una torre, altri tre edifici di forma rettangolare e tre circolari dove saranno ospitate le residenze per i parenti dei malati. Un progetto curato, non c’è dubbio, ma anche l’impatto sul paesaggio è evidente. Soprattutto, il Cerba sposta ancora avanti il confine della città. È questo il timore: che dietro il cavallo di Troia del Cerba poi arrivino altri palazzi, altre residenze, altre infrastrutture. A quel punto la battaglia per salvare il Parco Sud rischierebbe di essere definitivamente persa.

E qui ecco le domande che tanti a Milano si fanno, anche se sottovoce, dato che il Cerba resta comunque una realizzazione importante: perché sono stati scelti proprio i terreni di Ligresti per realizzare in una zona vincolata il megacomplesso? E ancora: non era proprio possibile farlo altrove?

«Il Parco della medicina […] non potrebbe trovare collocazione altrove» si legge nelle Linee generali di intervento presentate dal Comune. Ma proprio questo punto è contestato dalle associazioni ambientaliste: «È un’affermazione apodittica. Al contrario, posto l’incontestato valore ambientale del parco e la disciplina che ne regolamenta la gestione, la localizzazione delle opere avrebbe dovuto costituire oggetto di attenta valutazione e ponderazione degli interessi in gioco».

Delicato mettere in discussione un’operazione che avrà benefici per la salute. Così come risulta spinoso sollevare questioni di opportunità quando di mezzo c’è un personaggio come Umberto Veronesi, che alla scienza e alla ricerca sul cancro ha dato tanto.

Eppure forse il padre dell’Ieo e del Cerba, cresciuto sui territori di Ligresti, dovrebbe spiegare perché ha scelto i terreni di un costruttore con cui condivide interessi imprenditoriali. Veronesi infatti, secondo le visure camerali, è stato fino al 2007 membro del consiglio di amministrazione di Genextra, una società specializzata nello sviluppo delle biotecnologie che raccoglie tutti i nomi della Milano che conta, nonché di una fetta del mondo dell’imprenditoria del mattone e dalla sanità privata. Non solo: la Fondazione Umberto Veronesi e l’Istituto europeo di oncologia Srl, ci dicono le visure, sono ancora azionisti di Genextra. Niente di male, ovviamente, ma il capitale sociale è così suddiviso: Intesa San Paolo (9,34 per cento), Marco Tronchetti Provera (4,37 per cento), Caltagirone Bellavista, Montezemolo e Della Valle (2,92 per cento ciascuno), Ligresti, Toti e Angelucci (tutti al 4,37 per cento) e gli istituti Interbanca e Banca Popolare di Milano (anch’essi 4,37 per cento). Insomma, della Genextra fanno parte banche che sono anche nella fondazione Cerba, diverse famiglie di immobiliaristi e soprattutto il solito Ligresti. Già, Genextra e la Fondazione Cerba hanno tanti nomi in comune.

In fondo, però, non c’è poi nemmeno troppo da sorprendersi, vista la situazione stagnante del capitalismo italiano e di quello lombardo in particolare. Qualcuno, poi, potrebbe sovrapporre una ulteriore lista, quella dei soci della cordata Alitalia, dove ritroviamo Intesa San Paolo, Caltagirone Bellavista (che, per inciso, ha coperto le coste di mezza Italia con i suoi porticcioli) e appunto, Ligresti. Tanto che qualcuno in quell’occasione ha messo in relazione le due operazioni: Alitalia e Cerba – Parco Sud. «Viene il dubbio che Ligresti, sostenendo l’operazione voluta da Berlusconi per salvare la compagnia di bandiera, sperasse di garantirsi la gratitudine delle giunte di centrodestra che devono dare il via libera a tutte le operazioni immobiliari sui terreni agricoli a sud di Milano» sostengono i difensori del parco. Niente di illecito, ma anche il dubbio – se basato sui fatti – è legittimo.

Insomma, ritorna in mente la domanda delle associazioni ambientaliste milanesi: ma davvero il Cerba non si poteva collocare fuori dalle terre di Ligresti? Lui non ha dubbi e taglia corto: «Evitiamo di dire che si fa una speculazione edilizia. Le aziende per sopravvivere devono guadagnare. Non siamo la Banca d’Italia, che stampa soldi».

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Una Risposta to “Da “La Colata”, Milano: Ligresti alla conquista del Parco Sud”

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