Boris Vian, chansonnier dell’antimilitarismo

imagesScrittore, musicista, autore di romanzi hard-boiled. Moriva 50 anni fa

Racconta la cronaca, o forse la leggenda chissà, che quando durante i suoi strepitosi concerti, nei locali fumosi di una Francia conflittuale e presa nella ricostruzione di una nuova identità, attaccava con la canzone Le diserteur , forse la più celebre del repertorio, nonché censurata, accadeva spesso qualcosa di unico.
Accadeva che fra gli ascoltatori scoppiassero risse furibonde. Da una parte chi si incazzava contro una canzone che indicava chiaramente una presa di posizione antimilitarista rispetto ai conflitti in Indocina e Algeria, dall’altra chi non credeva più nel mito coloniale della grandeur francese. Allora, Boris Vian, che di questa splendida canzone era l’autore, scendeva dal palco, mollava la sua tromba, e si gettava nella rissa, perché a lui la guerra, le guerre, i tifosi delle guerre, non erano mai piaciuti. E la cantava rivolgendosi all’onnipotente Charles De Gaulle: «per cui se servirà/ del sangue ad ogni costo/ andate a dare il vostro/ se vi divertirà/ e dica pure ai suoi/ che vengono a cercarmi/ che possono spararmi/ io armi non ne ho».
Si trattava di una canzone che in breve tempo attraversò l’Europa, cantata non solo da Magàli Noel, una delle muse di Boris, ma portata in Italia da Serge Reggianì e da Luigi Tenco poi, una canzone che attraversò l’Atlantico, interpretata anche da Joan Baez e risuona degli echi della fantastica Masters of the war di Dylan. Una canzone non dimenticata, tanto che alla fine degli anni Novanta, la riprese e la ricantò Ivano Fossati, spesso senza altro strumento che la propria voce, a corollario di concerti che risentivano delle nuove ondate pacifiste.
Ma Boris Vian, che moriva di infarto a 39 anni, il 23 giugno del 1959, in un cinema mentre proiettavano la versione cinematografica di uno dei suoi capolavori letterari, Sputerò sulle vostre tombe , non è stato solo cantante, autore, traduttore di Chandler, scrittore di hard boiled e di poesie, ingegnere, trombettista, amico di Miles Davis e di altri grandi jazzisti. È stato un meteorite che ha attraversato il panorama intellettuale francese negli anni Cinquanta, indisciplinato, mai ascrivibile ad una appartenenza, mai incasellabile.
Chissà cosa ci si aspettava dalla sua “trompinette”, la piccola tromba con cui si esibiva nel celebre “Tabou”, club (ormai chiuso) situato nella Rue Dauphine, a due passi da Saint-Germain des Prés, a Parigi? Musica di certo, ma anche denuncia, sarcasmo, dichiarazioni di amore eterno ed effimero per belle donne, accenni delle sonorità del “Duca”, Duke Ellington e quel fiato che ogni tanto mancava, che lo costringeva ad interrompersi, a cercare un respiro che si faceva affannato. Boris Vian era nato nel 1920, sapeva da tempo di avere una malformazione congenita al cuore, avrebbe dovuto smettere di bere e di fumare, di cantare e di inseguire ragazze da sogno, ma non accettava una vita mutilata, aveva fretta di vivere e di creare, di ridere, amare, incazzarsi.
Sapeva e non accettava di avere davanti una vita breve.
Cantava e scriveva di donne incompatibili con certi versi melensi e banali allora in voga. Donne carnali e violente, ironiche e sensuali, per nulla disposte a sentirsi sottomesse, tanto da incantare dive del calibro di Giuliette Grecò, donne e uomini che sapevano vivere l’amore oltre le convenzioni.
Non vorrei crepare scriveva in un una magnifica poesia (di cui si riporta in pagina la traduzione) e presto portata anche in musica. Un inno alla vita fino all’ultimo istante. Un intercalare in cui elencava le cose che aveva intenzione di fare prima di andarsene, i sogni collettivi e individuali che avrebbe voluto veder realizzati, immagini surrealiste e lampi di impegno sociale e politico, afflati di amore fisico e desiderio di conoscenza, di andare oltre quello che la vita intera consente ad un essere umano.
Ma di canzoni ne ha scritte oltre 400, molte cantate con il gruppo “Pizza Musicale”, altre dai migliori interpreti dell’epoca, e poi poesie, dieci romanzi, quattro di genere hard boiled firmati “Vernon Sullivan” (che definiva il suo “alter-negro”) per aggirare la rigida censura francese, altri più complessi e spesso intraducibili come L’autunno a Pechino , L’erba rossa fino all’indimenticabile La schiuma dei giorni , una incredibile storia d’amore in cui Van sembra raccontare tutto il suo microcosmo, dalla musica alla buona cucina. Gran parte dei romanzi e dei racconti sono stati tradotti in Italia e ripubblicati da “Marcos y marcos”, che ha curato anche una raccolta delle sue poesie e di alcune canzoni.
Era fondamentalmente anti: antimilitarista, anticolonialista, antinucleare, antiperbenista ma soprattutto non sopportava gli imbecilli. «Non mi interessa la felicità di tutti – soleva dire – ma quella di ciascuno». Una genialità indomabile quella di Boris Vian, amata da Queneau e di Eluard, in un'”Accademia dei patafisici” (la scienza delle soluzioni immaginarie), che voleva rivoluzionare l’idea stessa di conoscenza e di cultura. Abbandonare i salotti raffinati e paludati e sporcarsi con la polvere della strada, prenderne la ricchezza e il sudore, infilarsi in tuguri fumosi, guardare alle fabbriche e ai padroni, cercare una insurrezione culturale e umana capace di creare nuova umanità quando la guerra mondiale era da poco finita e altre guerre si combattevano in nome del dominio e del profitto. E allora Vian tirava fuori un sarcasmo violento. Immaginava in un’altra canzone, di uno zio pazzo che aveva inventato una piccola bomba atomica, con una portata limitata. Immaginava che questo zio, dopo tanto rimuginare avesse trovato l’idea giusta: radunare i potenti della terra, quelli che avrebbero dominato il pianeta avendo in mano tale scoperta. Immaginava di rinchiuderli nella stamberga in cui aveva creato il suo piccolo ordigno e di farli saltare per aria, togliendo così a chiunque i sogni di potere. Odiava i mercanti di armi a cui ha dedicato i suoi versi più taglienti, dal Tango dei macellai a Vendiamo armi , amava i rapinatori e ne raccontava gesta sgangherate in assurde storie carcerarie, odiava gli scarponi dei gendarmi e arrivò a scrivere un musical sulla “Banda Bonnot”, il celebre gruppo di rapinatori anarchici destinato a trasformarsi in mito eterno. Scriveva romanzi acidi, catapultati nel sud degli Usa, e racconti teneri, crudeli, ironici. Saltava da un genere all’altro nella musica come nella letteratura, con spaventosa naturalezza, giocava con le parole, con la vita propria e altrui, centrifugando fantascienza e rock’n roll, surrealismo e noir, denuncia sociale e gesti plateali. Amava la fantascienza, gli piaceva immaginare un futuro pirotecnico come la sua vita, ma quando poi la vedeva portata al cinema, altra grande passione, ne usciva spesso deluso come se le immagini, i tentativi di stupire con effetti speciali distruggessero ogni volta una illusione troppo grande rispetto alle aspettative.
E anche quando cominciava a sentire più vicina, l’ombra inquietante di quello stop al cuore che lo avrebbe travolto, non si era dato per vinto. Da ingegnere si era messo a progettare uno strumento per regolare i ritmi cardiaci, un pace maker ante litteram insomma, ma anche nel suo progetto era in anticipo con i tempi, troppo in anticipo, troppo di corsa. E si torna alla leggenda, a quell’infarto. Si era indignato al cinema e aveva già chiesto di rimuovere il suo nome dalle locandine che pubblicizzavano il film. Ma era andato a vederlo, controvoglia, al cinema Marbeuf, di mattina. Dopo 5 minuti era sbottato: «E questi dovrebbero essere americani? Col cazzo!». Un attimo dopo il cuore si fermava.

Stefano Galieni

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