Conversazione in una Puglia “reaganiana”

25902_30216_lapresse_r_1727983_mediumNICOLA LAGIOIA. Un convincente romanzo di formazione e di perdizione, per ritrovare il senso dell’appartenenza a un Paese, l’Italia, attraversato da sogni catodici (tv commerciale) e spettacolari tragedie collettive (Heysel). Famiglie in lotta per un successo personale che spesso miete vittime tra i più piccoli, che un giorno si vendicheranno. Sui figli degli altri.

Riportando tutto a casa di Nicola Lagioia, da oggi in libreria per Einaudi, è un viaggio nella Bari degli anni ’80, quando l’italica periferia dell’impero americano viene invasa dell’edonismo reaganiano. Filtrata, con nostalgia ma senza malinconia, attraverso la Bari di oggi, quella dei sopravvissuti, tra cui il protagonista, la voce narrante. Festini, droga, ragazze, appalti, faccendieri… suona familliare? Il romanzo involontariamente irrompe nell’attualità, mostrandoci però la struttura profonda del nostro paese, non la superficie.

Antropologia, non gossip. Tanto per tagliare la testa al toro, non figura mai la parola Berlusconi, né i suoi derivati. Eppure, è proprio la storia di come lo siamo diventati tutti, guardando le televisioni del Biscione, sognando di essere come Agnelli, applicando con euforia da anni ’80 l’imperativo egotico del ’68 e degli anni ’70: la fantasia al potere e il diritto ad avere tutto e subito. Lagioia produce, in un paio di paragrafi, la migliore fenomenologia di Drive in e il suo impatto sulle menti italiane, dalle più sane alle minorate. La grande risata che continua a seppellirci, in forma di un presidente del Consiglio che racconta barzellette orribili e, a volte, incarna egli stesso una barzelletta.

Se Drive in è il cavallo di Troia, della «Cosa nuova» («non si chiamava ancora televisione commerciale»), Antonio Ricci è il novello Ulisse. «Durante il Maggio francese aveva avuto diciott’anni, e aveva naturalmente manifestato e ciclostilato e cineforumizzato e solidarizzato con il lancio delle uova alle prime della Scala… il suo programma degli anni Ottanta non fu il tradimento della sua vita precedente, semmai al contrario la sua realizzazione più profonda – così come ci si era avvolti nel vento caldo della contestazione, adesso si tendevano le vele per sfruttare il vento gelido, che di quel vento caldo era stato il mandante, il vero soffio d’alimento».

I comici erano «una vittoriosa antitesi delle facce d’attori d’avanspettacolo», il capo comico Ezio Greggio, «un monumento al niente», mentre le ballerine, «che poi non erano vere ballerine, bensì ragazze di bella presenza con una disperata vocazione all’anonimato, si travestivano da ragazze fastfood».
Il prodotto? Un’esilarante, gassosa negazione di Molière e Pirandello. «Li vedevi, quei comici che non facevano ridere, e ridevi lo stesso. Le loro battute sovvertivano la comicità così come la comicità si era andata sviluppando, e cioè nient’altro che il sentimento del contrario passato indenne lungo i secoli – fortificato dalla peste, il sentimento del contrario, fortificato dagli anatemi e dalle scomuniche – per andarsi a rovesciare nel variopinto crematorio del Drive In. Non più il sentimento del contrario, ma dell’identico». Si piange con il cuore ma si ride con il cervello, recitava Molière, ma basta repliche: «Anche il cervello, come il cuore, è trasformato in un organo del tutto involontario. Per questo anche l’ultima figlia di Annina scoppiava a ridere, per questo i paesi sperduti, la provincia, forse anche un intero continente iniziava a risuonare di singhiozzi. La risata che ci avrebbe dovuti seppellire tutti quanti era arrivata».

Questo romanzo è la terza prova narrativa di Lagioia. Dopo l’esordio minimal di Tre modi di sbarazzarsi di Tolstoj senza risparmiare se stessi, Minimumfax, e Occidente per principianti, Einaudi, storia di un giovane e scafato rappresentante del quarto stato intellettuale che tanto bene conosceva Luciano Bianciardi. Il romanzo, strepitoso per buoni tratti iniziali, girava attorno alla ricerca del primo amante di Rodolfo Valentino, per poi perdersi un po’ nel secondo tempo, picaresco, nei dintorni di Bari. Qualche critico snob parlò di on the road in dialetto barese. Riportando tutto a casa ha gli stessi momenti felici, sul piano del ritmo e delle immagini, della prima parte di OPP, senza però i cali della seconda parte, anche perché sono innervati in una trama di rapporti psicologici ed enigmi quotidiani che si trasforma in tessuto nervoso vivido e scattante. C’è meno fiction, più romanzo. A tratti grande, romanzo.

Anche senza il permesso dell’autore, possiamo rinvenire in questa terza prova narrativa di Nicola Lagioia, la sensibilità del Calvino della Giornata di uno scrutatore nel raccontare, sospendendo ogni giudizio politico o morale, sulle famiglie piene di figli handicappati che irrompono nella scena, all’inizio del romanzo. La carnalità delle visite familiari che si dischiudono al protagonista e al suo genitore, qui un padre, che assomiglia al giro delle iniezioni del protagonista di Conversazione in Sicilia di Vittorini. E se non sono astratti, qui i furori attraversano elettricamente buona parte del romanzo, che è essenzialmente un romanzo di formazione visto con gli occhi malinconici indulgenti di chi sa che la conoscenza è esperienza, che «non si perde quello che non si è mai avuto, non si ha quello che non si è mai perso».Un romanzo di perdizione, e di ritorno, alla vita. A casa, anche se si emigra. La casa, in fondo, è ovunque ci si possa contagiare di risate.

Ecco Annina, ha cinque figlie mongoloidi che lavorano, benissimo, pizzi e merletti che il padre del protagonista rivende in giro per l’Italia. «Il loro regno era una continua ubriacatura di sorrisi senza denti, casse da morto, bisbigli incomprensibili, conigli scuoiati in una specie di sgabuzzino sacrificale che ricordavo molto bene: l’anno prima, dopo aver sentito uno squittìo oltre la porta chiusa sul retro della cucina, mi ci ero avventurato spinto dalla curiosità. Quando ne uscii avevo gli occhi traboccanti di lacrime, e loro – Annina, le figlie mongoloidi, le altre ricamatrici – iniziarono a sommergermi di risate. Ridevano fragorosamente, contagiosamente, a singhiozzi, scoprendo le gengive, battendosi le mani sulle cosce. Io mi calmai all’istante perché c’era, nella larghezza di quelle risate, il più potente contravveleno dello scherno, cioè la comprensione. Per loro era assolutamente normale che un bambino di città scoppiasse a piangere davanti allo sgozzamento di un coniglio – ridendo, cercavano di offrirmi una patente di appartenenza alla vita, con tutta la sua naturale impudicizia, la sua oscena irreversibilità. Io smisi subito di piangere. Loro smisero di ridere. Un minuto di raccoglimento per la sorte dei roditori». Fuori dalla casa di Annina, scrive Lagioia, «il nostro rapporto non avrebbe potuto definirsi se non col nome di sfruttamento. Ma dentro… dentro si consumavano questi bonsai di scene bibliche».

Se la vicenda romanzesca pugliese può persino ricordare un altro giovane scrittore emigrato dalla Puglia a Roma, Mario Desinati e il suo drammatico Il paese delle spose infelici (Mondadori), autore che sì, dichiaratamente, si muove sotto la stella di Vittorini e del suo impegno sociale, la temperatura emotiva di Riportando tutto a casa è quella dell’adolescenza alla Stephen King, esattamente il King di Stand by me – ma senza il pulp del nostro Ammaniti -, indimenticabile romanzo di formazione di quattro ragazzi che varcano la linea d’ombra della loro difficile infanzia viaggiando alla ricerca di un cadavere. Per vedere la morte in faccia, diventare famosi e, in realtà, scoprirsi fragili, con i loro fantasmi implacabili. Nel romanzo di Lagioia, la morte da guardare in faccia è quella dei tossici che, all’alba di una nuova era, con la caduta del Muro, la fine del comunismo e il trionfo del capitalismo, con l’aria nuova arriva, soprattutto nel quartiere Japigia, una marea di eroina tagliata male.

A volte, però, la linea d’ombra è una zona grigia che ti invade. Il romanzo di formazione diventa la confessione di una debolezza, di una adesione passiva. Come quando il giovane protagonista, la sua famiglia e simili, assistono alla finale di Coppa Campioni dello stadio Heysel. Al gol juventino, «Michel Platini iniziò a esultare come forse non aveva mai fatto in vita sua (…) il pugno chiuso alzato verso il cielo e la faccia… un sorriso impazzito di gioia che era uno schiaffo ai morti, ai vivi, ai sopravvissuti, agli stessi hooligan ma non alla somma di tutto questo: la prima notte in cui la morte e lo spettacolo salirono i gradini di una scala planetaria tenendosi per mano». Il protagonista viene investito dall’onda, anomala, di festa: «Anch’io, senza sapere cosa stessi facendo, mi unii al barrito al grugnito al raglio che affratellava mio padre ai suoi amici al cupo risuonare che arrivava dai palazzi circostanti; un sisma fatto di sole voci che sembrava voler negare il male pur mettendo a sua disposizione un lungo ponte acustico che da Bari arrivava probabilmente su fino a Torino – e poi di nuovo giù, nello splendore tumefatto di Palermo –, e in questo grido che non aveva nulla di veramente ragionevole ma realizzava l’aspirazione potentemente disastrosamente umana di fabbricarsi una cattiva coscienza, sentii per la prima volta un lampante inaggirabile senso di appartenenza al mio paese».

La famiglia, del protagonista e dei suoi compagni di scuola e dis-avventure, è la cellula base dell’irrequieta società barese degli anni 80, di cui Lagioia racconta le parabole socio-economiche. Ci sono ambitissime famiglie di notabili, ci sono famiglie in odore di malavita, ci sono famiglie che stringono piccoli patti coniugali. La famiglia è il tema che l’autore svolge, al meglio, con ottima padronanza del lessico famigliare, segnalandosi anche per ricchezza di sintassi, analisi della postura, tono di voce, persino un’analisi psicologica dell’arredamento. «I miei non ne avevano mai fatto parola: frequentavo i Di Liso, trascorrevo pomeriggi, notti (…) in casa loro, e nessuno aveva mai sprecato una sillaba per sottotitolare il gigantesco labiale con cui anche i muri testimoniavano l’assenza della mamma di Daniele». Nella stanza di Daniele, ci sono due «letti gemelli allineati di fronte alla finestra», anche se Daniele è figlio unico: «La presenza del secondo letto era drammatica, capii man mano che iniziammo a frequentarci: Daniele era figlio unico proprio come me, e dunque si sforzava di invertire agli occhi del mondo il nesso tra solitudine e autarchia, ma questo secondo letto, sempre perfettamente rifatto, era un grido di aiuto scolpito nel frassino e rivestito di piuma d’oca».

Come svago, ovviamente, ci sono i giochi di società, in genere consumati tra pochi amici, che rappresentano i tasselli frattali del mondo degli adulti. C’è Cluedo, il gioco degli investigatori, e ovviamente Risiko, la geopolitica su cui riversare attraverso nazioni proprie manie suicide o di grandezza, e i videogiochi il cui continuo aggiornamento, agonistico, sembrava «l’unica garanzia di sopravvivenza emotiva della specie».
L’educazione sessuale, tra padri misogini e madri bellissime ma un po’ castranti, è affidata a pratiche di masturbazione di gruppo, davanti a Skorpio. Dove Helene Hanson e Valeria Golino si mostravano «di un’impudicizia superiore a quella del suo sesso spalancato», con messaggi subliminali del tipo. «Eccomi, sono indifesa, è questo il mio coraggio, sono qui perché voi approfittiate di me». Davanti a lei «facevamo su e giù senza guardarci negli occhi e senza mai cambiare formazione – io Mimmo e Daniele, mai io e Daniele da soli: un terzo ci serviva per escludere l’eccessiva intimità». Tre, sarà il numero perfetto sia per gli amici d’infanzia che per quelli di adolescenza.

La vita liceale è un’impennata di vizi e virtù. Lagioia indugia un po’ nel ricordo di volti e nomi, che però tornano tutti o quasi nei conti finali, quando il protagonista indaga sulle oscure manovre del fascinoso anti-Amleto della loro adolescenza, un giovane ribelle di buona famiglia e pessime compagnie. Ci regala, però, uno spaccato turbolento e vivido delle anime perse nell’adolescenza veloce e ignara. I giochi si fanno più pesanti, ma sono sempre figli del bombardamento psico-commerciale: «I dischi e gli abiti di marca e le auto sportive e le campagne pubblicitarie a cui l’anima di un intero decennio si era entusiasticamente già venduta, si ponevano con l’eroina in un rapporto di discepolo a maestro».

Ovviamente, non mancano le prime pomiciate e scopate, che però passano tutte per una pratica atavica di cui Lagioia produce una avviluppante digressione: la «sega alla vergognosa». Una pratica sessuale di masturbazione altruistica che, in un monologo da Molly Bloom mutuato da due canzoni, What She Said degli Smiths, Joe le Taxi di Vanessa Paradis, Lagioia definisce come «nuova padronanza delle cose che sbeffeggiava il goffo autocontrollo delle prime feste, uno speaker’s corner di pochi centimetri quadrati che la ragazza si costruiva nell’ombra per poter dire senza parole a noi e a se stessa: “Così facevano le nostre nonne e forse anche le più sprovvedute delle nostre mamme”»: Un gustoso compromesso, sicuro e a prova di Hiv, tra la ricerca d’amore e la voglia di sesso.

Luca Mastrantonio

http://www.ilriformista.it/stories/Culture/98089/

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Una Risposta to “Conversazione in una Puglia “reaganiana””

  1. Serafino Says:

    tra l’altro, la ‘sega alla vergognosa’, già pasoliniana 😉

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