«Sono stata una spia Cia» Juanita Castro si racconta cinquant’anni dopo

In libreria l’autobiografia della sorella di Fidel e Raúl. Nel ’64 lasciò Cuba per gli Usa

Nell’articolo: “Coesistenza pacifica e Contenimento”, gennaio 1969. Usa e Urss inaugurano un nuovo corso, «puntualissimi vennero da me due agenti della Cia. Si presentarono semplicemente come l’Agente A e l’Agente B». Senza preamboli e nessuna «delicatezza», le dicono questo: che il confronto tra il governo Usa e Cuba ha preso un’altra piega e quindi lei deve piantarla e anzi fare dichiarazioni consone al clima della “distensione” in atto e magari giurare che il comunismo non minaccia affatto l’America latina…

Maria R. Calderoni per “Liberazione
«Signore e signori, un cordiale buonasera. Permettetemi di presentarvi la signorina Juanita Castro Ruiz, sorella di Fidel Castro, primo ministro del governo cubano, e di Raùl Castro, capo dell’esercito di quel paese. La signorina Castro ha delle dichiarazioni da fare». E’ la sera del 29 giugno 1964, Città del Messico, conferenza stampa convocata «per tutti i mezzi di informazione nazionali ed esteri» e mandata in onda sui canali 4 e 5 della Tv messicana, moderatore «l’importante» giornalista Guillermo Vela. E alla Tv messicana c’è proprio lei in persona, la sorella di Castro, «centinaia di flashes lampeggiarono verso di me», racconta lei stessa in questo inimmaginabile libro firmato da lei medesima – I miei fratelli Fidel e Raùl. La storia segreta , Fazi editore, pp. 453, euro 19,50 -. Una “amena” autobiografia spuntata fresca fresca cinquant’anni dopo, in cui lei, la signorina Castro-sorella-di-Castro, racconta ilare e leggera come e perché fu a lungo una spia a libro paga Cia. Come e perché, cinquant’anni dopo «non mi pento. E se dovessi scegliere oggi lo rifarei».
29 giugno 1964, Città del Messico, quella che la Signorina Castro-sorella-di Castro fa alla tv messicana è una dichiarazione «che constava di sette pagine e che durò undici minuti. In quegli undici minuti i trentun’anni della mia vita ebbero un sigillo definitivo, perché la denuncia toccava temi fondamentali, dalla infiltrazione comunista alla perdita delle libertà fondamentali dei cubani». Appena. La dichiarazione-bomba deflagrò in tutto il mondo, come previsto; e naturalmente anche a Cuba. Racconta sempre la ineffabile Juanita. «Venni a sapere, per televisione, della reazione di Fidel. Rimase in silenzio per tre giorni, poi approfittò di un ricevimento offerto dall’ambasciata del Canada all’Avana per affrontare il tema davanti a decine di giornalisti cubani e internazionali. «Sapevo che mi avreste fatto una domanda sulla più grande infamia che l’imperialismo yankee abbia ordito contro la Rivoluzione cubana. Questo fatto in termini personali, per me, è molto amaro e profondamente doloroso, ma comprendo che è il prezzo che un rivoluzionario deve pagare. Voglio che registriate la mia dichiarazione testualmente: Juanita, mia sorella, è stata comprata dall’imperialismo yankee e il discorso che ha pronunciato è stato scritto nell’ambasciata degli Stati Uniti a Città del Messico».
Assolutamente vero, lo dice lei stessa, la Ineffabile Juanita. A pagina 387 del suo Ineffabile Libro. Lei ha lasciato Cuba «per sempre » – in dissenso sulla «deriva comunista» che la Revolución sta prendendo, soprattutto per colpa di quell’odioso Che – e riparato a Città del Messico: «Siccome arrivai di venerdì, non vidi Enrique, il mio contatto con la Cia, prima di lunedì». E lui, «che puntualmente ci stava aspettando, lunedì 22 giugno non perse tempo e dopo i saluti di cortesia mi consegnò la bozza che conteneva i punti più importanti. Era scritta a mano, l’aveva stilata lui stesso».
Letta e approvata, niente da aggiungere, se non un piccolo particolare che la Signorina Castro si premura di far inserire lì all’istante. Nella denuncia-versione Cia che si accinge a fare davanti all’universo mondo, «per me è molto importante includere le attività del comandante Manuel Pineiro, detto Barbarossa, perché questo individuo è responsabile dell’esportazione della guerriglia in tutta l’America Latina, lavora come direttore del Servizio di Intelligence e Sicurezza dello Stato, è molto legato al Che e sovrintende direttamente a tutte le operazioni cubane rivolte all’America latina». Sic . Una delazione in piena regola, nome e cognome, un uomo consegnato direttamente e spontaneamente ai killer dell’Agenzia.
Sconcertante. Di sua volontà, a 76 anni suonati, da Miami dove tuttora si trova, la Signorina Castro ha deciso di vuotare il sacco, e lo fa allegra e contenta, come se raccontasse una gita spensierata, senza mai sfiorare una sia pur piccola corda emotiva. Consegna alla Cia i suoi fratelli e i suoi amici, i suoi compagni del Movimento 26 Luglio e dell’assalto al Moncada, i guerriglieri della Serra che ha conosciuto da vicino e molti di persona; e lo fa freddamente, consapevolmente, doverosamente . In nome della lotta al comunismo, come si premura di «spiegare» lei stessa: «Non si fa una rivoluzione consegnandola al comunismo». Meglio consegnarla alla Cia.
Il nome e la faccia di Juanita spariscono dall’album di famiglia, Fidel la fa cancellare da tutte le foto; ma nemmeno a Città del Messico la sua delazione targata Usa la passa liscia; sono in molti anche lì a trovarla disgustosa oltre che scandalosa. All’«importante» giornalista viene sospeso il programma, e spuntano cartelli del tipo: “Signorina Castro, sappiamo che lei lavora per la Cia. Quanto la pagano?”.
Insomma, subito dopo la clamorosa performance televisiva, per lei non è aria, deve sloggiare; e per fortuna c’è Enrique (il suo vero nome è Tony Sforza): «Mi portò quindi in una villa meravigliosa a Loma Chapultepec». Niente da fare, anche lì la spia di nome Castro non è gradita, per fortuna c’è sempre Enrique, «quello stesso giorno, a bordo di un aereo privato, partimmo alla volta di Puerto Villarta». Che cara ragazza. «La mia più grande sorpresa – scrive, scrive! – fu scoprire che quel meraviglioso appartamento con vista sul mare apparteneva alla Pan American Airways, così come lo yacht che ci misero a disposizione». Non per soldi, ma per la lotta al comunismo. E lì «finalmente mi sentii protetta dagli interminabili attacchi degli alleati del regime».
Spia di lusso, a ottobre dello stesso 1964, sbarca a Miami, alloggiata all’Hotel Dupont dove la “Compagnia” ha predisposto che la sua permanenza «sia piacevole al massimo grado»; e dove il suo “contatto” si chiama Salvador Lew, «la persona migliore che abbiamo, è cubano, anticomunista a prova di bomba e ha ottime relazioni con l’esilio, nel cui seno lavora già insieme a persone che hanno lo stesso interesse per la libertà di Cuba» (leggi le organizzazioni degli esuli cubani al soldo dei servizi segreti Usa) .
E’ a posto, adesso, la Signorina Castro, è al posto giusto, è a tempo pieno nella Cia. Verrà l'”Operazione Peter Pan” (finalizzata a togliere i bambini «dagli artigli del comunismo»); verrà la “Fondazione Martha Abreu” (mascherata, come tutte le altre, da associazione umanitaria), totalmente e abbondantemente finanziata «da noi», leggi Cia.
Una vera pacchia, per la spia di nome Castro, nome in codice “Donna”. Finché arrivò la “catastrofe”, da lei riassunta nelle due nuove, deplorevoli parole : “Coesistenza pacifica e Contenimento”, gennaio 1969. Usa e Urss inaugurano un nuovo corso, «puntualissimi vennero da me due agenti della Cia. Si presentarono semplicemente come l’Agente A e l’Agente B». Senza preamboli e nessuna «delicatezza», le dicono questo: che il confronto tra il governo Usa e Cuba ha preso un’altra piega e quindi lei deve piantarla e anzi fare dichiarazioni consone al clima della “distensione” in atto e magari giurare che il comunismo non minaccia affatto l’America latina…
E’ la fine di “Donna” e anche dei lauti fondi della “Fondazione”, la Signorina Castro non serve più allo scopo, licenziata su due piedi; finisce a fare la commessa presso la Mini Price Pharmacy. Non senza grande dispiacere; e non senza aver tentato di implorare dal senatore Helms – sì proprio il promotore della legge Helms-Burton, ancora più restrittiva in materia di maledetto “bloqueo” – il mantenimento di quelle «risorse che abbiamo chiesto per combattere il comunismo e che ora ci vengono negate e ridotte senza spiegazione». Lettera firmata “rispettosamente Juanita Castro”: «Ricevetti come risposta il più totale silenzio».
Libro senza onore. La spia della Cia di nome Castro ha perlomeno dimenticato di aggiungere un’appendice alla storia qui raccontata. Magari intitolata: il prezzo del terrorismo targato Usa a Cuba. Dimenticato di segnalare, così, en passant , che quel terrorismo lì è costato lacrime e sangue, nel senso letterale del termine. Ci sono dati, numeri, rapporti ufficiali, denunce circostanziate presentate anche all’Onu. Bombe incendiarie da aerei statunitensi sganciate sul territorio cubano già a partire dal 1959; un cargo francese che nel 1960 esplode all’Avana (75 morti e oltre 200 feriti); nel ’61 sbarco (fallito) alla Baia dei Porci; e a seguire, per tutti gli anni Sessanta, è in atto quella ininterrotta campagna terroristica – interamente finanziata dalla Cia con 50 milioni di dollari l’anno – denominata “Operazione Mangusta” (saltano in aria zuccherifici, viadotti ferroviari, magazzini, campi di canna da zucchero, navi sovietiche); né mancano atti di guerra chimica e batteriologica; il 6 ottobre 1976 esplode in volo un aereo della Cubana (muoiono 73 persone, tra cui l’intera squadra nazionale giovanile di scherma); nel 1997 numerose bombe sono lanciate contro alberghi e strutture turistiche, tra le vittime anche il nostro connazionale Fabio Di Celmo; nel 2000, per mano del famigerato Posada Carriles, ennesimo tentativo – ce ne furono oltre 600 – di assassinare Castro durante una conferenza all’Università di Panama (15 chili di esplosivo e duemila studenti presenti). Tanto per citare, è di 3.478 morti e 2.099 invalidi permanenti il conto del terrorismo Cia a Cuba. Senza calcolare l’infinita ferita causata da quel “Blocco” che dura da sessant’anni (il più lungo della storia, con un danno economico intorno ai 90.000 milioni di dollari, oltre 4 milioni nel solo 2006)…
Libro chiuso. A lettura finita ci viene in mente, chissà perché, quella frase di Sartre: «L’anticomunista è un cane».

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