The Nation in rosso

Marco d’Eramo per “Il Manifesto

Quando domenica scorsa ho letto sul New York Times che il settimanale The Nation era in crisi, per un istante mi ha sorriso l’idea di andare a trovare i nostri amici per una volta con la compunzione di cui noi del manifesto siamo tanto spesso oggetto. Subito però, è ovvio, ha preso il sopravvento la preoccupazione: ogni voce della sinistra che si affievolisce ci lascia più soli e più deboli. Tanto più che The Nation, pur se piccola nel panorama dei media americani, è l’espressione, riconosciuta e centenaria, del progressismo newyorkese, rispettata nel resto del mondo: a titolo di esempio, sia l’attuale vice primo ministro inglese, leader del partito liberaldemocratico Nick Clegg, sia il nuovo segretario del partito laburista, Ed Milliband, sono stati in gioventù stagisti a The Nation.
Ma al settimanale erano tutti un po’ irritati con il New York Times: «Ha commesso un errore fattuale. E oggi ha pubblicato una rettifica», mi dice nel suo ufficio vicino a Union Square la direttrice Katrina vanden Heuvel; «in compenso, da quando è uscito l’articolo, in cinque giorni abbiamo avuto 350 nuovi abbonamenti».

«È vero che le vendite sono diminuite negli ultimi anni, dal picco di 187.000 del 2006, mentre ora siamo a circa 150.000 copie. Ma negli anni ’90 vendevamo 20.000 copie e ancora nel 2001 eravamo intorno alle 100.000», mi dice Victor Navasky, davanti a un’insalata nel ristorante Artisanal a Midtown. Victor ora insegna giornalismo alla Columbia University, è presidente della Columbia Journalism Review, ma la sua figura è legata a The Nation di cui è stato direttore per 17 anni dal 1978 al 1995, e poi editore e direttore editoriale per altri dieci (dal 1995 al 2005). Victor è il padre spirituale di The Nation, anche se il settimanale ha 145 anni (fu fondato nell’anno in cui finì la guerra di secessione) e già comincia a preparare i festeggiamenti per il suo secolo e mezzo di vita nel 2015. «Ma è chiaro che quando al governo ci sono gli avversari, per noi la vita è più facile. La mia battuta è che quel che è cattivo per il paese è buono per la Nazione (The Nation)». Sembra pensarla così anche il caporedattore Roane Carey che, al telefono, confida nella riconquistata potenza dei repubblicani per rianimare quel «popolo di Obama» che oggi è deluso e frustrato: «Con le sue inchieste il magazine può esporre in pubblico la miseria e la corruzione di questa». 

Dal 2001 al 2003 le vendite aumentarono da 101.000 a 149.000 copie «in gran parte alimentate dalla rabbia per l’elezione presidenziale rubata da George Bush (con la complicità dei giudici conservatori della Corte suprema, ndr) e poi dalla guerra in Iraq» dice Katrina vanden Heuvel.
Per districarmi tra i dati, telefono alla presidentessa del magazine, Teresa Stack, che mi dice: «Il magazine The Nation ha 45 dipendenti, di cui circa la metà giornalisti: non conto i collaboratori e i free-lance. Ha un fatturato annuo di 12 milioni di dollari. Ma a differenza degli altri giornali, dove la pubblicità costituisce il grosso delle entrate, da noi la pubblicità conta solo per circa il 10%, mentre le donazioni si avvicinano al 25% del fatturato (ammontano a 2,7 milioni di dollari l’anno) e la fetta più importante viene dalle vendite in edicola (solo 1.500, ndr) e dagli abbonamenti (145.000 nel primo semestre, ndr). È vero, come ha scritto il New York Times, che abbiamo un deficit operativo di mezzo milione di dollari, ma negli anni ’90 era molto peggio, il nostro deficit era dell’ordine del milione di dollari. Comunque, tutte le pubblicazioni politiche – di destra e di sinistra – hanno un piccolo deficit strutturale, anche The Atlantic. E poi dove il Times si sbaglia è sulla pubblicità. Intanto fornisce una cifra inesatta (quella che ha dovuto rettificare, ndr): abbiamo perso il 5 %, non il 30% delle inserzioni, come hanno scritto loro. E questo calo è in linea con quello degli altri magazine ed è dovuto alla recessione. E poi la pubblicità incide solo per un decimo all’incirca del fatturato, per cui un suo calo del 5% pesa dello 0,5% sul totale. Certo, abbiamo una crisi, ma ne abbiamo conosciute di peggiori, e altre ne vedremo».
Tutti mi fanno notare che il peggioramento dei conti negli ultimi anni è dovuto all’aumento delle tariffe postali, che contano molto per un magazine che si basa sugli abbonamenti. Le tariffe postali agevolate sono l’equivalente Usa dei nostri sussidi pubblici per la stampa. Negli ultimi anni i rincari postali hanno aggravato i costi per circa 400.000 dollari l’anno, coperti con sottoscrizioni: ma – fa notare Victor Navasky – il terzo anno che batti cassa dai lettori, non puoi raccogliere quanto il primo.

Un’altra difficoltà nasce da un problema legislativo specifico degli Stati uniti. Negli Usa le donazioni possono essere detratte dalle tasse, ma solo se donate a enti senza fini di lucro. Fu proprio in base a questa disposizione che negli anni ’80 il reaganismo cercò di far fuori la pubblicazione progressista californiana Mother Jones. Così The Nation si è divisa in due: da un lato c’è The Nation Magazine che è una società con scopi di lucro, e dall’altra c’è la fondazione, The Nation Institute, che è no profit. La gente donava all’Istituto che poi contribuiva al magazine. Ma dopo vari scandali societari, nel 2002 fu varata la legge Sarbanes-Oaxley che stabiliva tra l’altro che non più del 30% dei fondi raccolti dall’associazione no profit potesse poi confluire in quella for profit. Il risultato paradossale è che molti donatori regalano soldi all’Istitute perché leggono il magazine, ma il magazine non può usufruirne, se non in parte. O allora le donazioni vanno fatte direttamente al magazine, ma in questo caso non procurano detrazioni fiscali.

Inevitabilmente questa situazione provoca divaricazioni tra le due entità, anche se tutti mi giurano sulla concordia più armonica del mondo. L’Institute prende una serie di iniziative anche con altri media: per esempio finanzia il progetto Tom Dispatch (www.tomdispatch.com) di Tom Engelhardt. In ogni caso l’Institute paga gli stagisti di The Nation, e stanzia un fondo per il giornalismo investigativo, le cui inchieste – per esempio come quella sul ruolo dei mercenari nelle guerre Usa – poi finiscono sulle pagine del magazine e a volte forniscono materia persino per commissioni d’indagine parlamentare.
Dove la differenza è enorme rispetto al manifesto è nella spigliatezza delle iniziative e nell’uso delle nuove tecnologie. The Nation ha una sua carta di credito Visa, appoggiata su una banca locale (non di Wall street), per cui ogni titolare di carta di credito, ogni volta che fa un acquisto, finanzia The Nation con lo 0,3% del valore dell’acquisto. Poi vi sono le crociere in Alaska in compagnia delle firme di prestigio del settimanale o di esponenti politici della sinistra. E queste crociere apportano quasi 300.000 dollari l’anno. Poi vi sono i lasciti testamentari di persone della sinistra che preferiscono dare i soldi a una fucina di idee piuttosto che all’avido parente. L’idea è quella dei mille rivoli, non del grande fiume di denaro.

Le firme di The Nation appaiono spesso nelle varie tv, in particolare ospiti di trasmissioni di sinistra come per esempio il Rachel Meadow Show sul canale Msnbc. Poi ci sono le nuove tecnologie. Sia Katrina, sia Victor mi dicono che il sito (appena ridisegnato) di The Nation ha avuto un incredibile effetto moltiplicatore sugli abbonamenti cartacei. Ora The Nation dispone anche di un’app (applicazione) sul telefono Ipad della Apple, e il lettore può ricevere messaggi su Twitter da @KatrinaNation e può conversare con gli altri lettori su twitter.com/thenation. Uno spot tv è diffuso non solo sui canali tv, ma anche via YouTube e ha procurato 10.000 nuovi sostenitori al programma Nation Associates (sono 30.000 i sostenitori che con le loro donazioni contribuiscono quasi al 20% del fatturato). Non solo, ma il sito contribuisce allo svecchiamento del pubblico di The Nation (i lettori cartacei hanno un’età media di 52 anni, età rimasta abbastanza stabile negli anni, a indicare un ricambio generazionale).
Rimane il problema della collocazione politica di The Nation, in particolare in questa seconda parte del mandato di Barack Obama. «A ogni elezione», dice Victor, «in redazione si discute se votare democratico, oppure no. Nel 2000 la redazione era spaccata tra chi votava Al Gore e chi Ralph Nader. Ma queste discussioni sono fisiologiche. Per me The Nation deve essere il luogo del dialogo tra radicals e liberals», cioè tra i progressisti e invece la sinistra più radicale. «Dopo queste elezioni», dice Katrina, «noi di sinistra dobbiamo trattare Obama e la sua presidenza con lo stesso pragmatismo, realismo, con la stessa durezza con cui Obama tratta noi».

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