Amos Oz: “Prendo il caffè con i miei morti”

images“A 14 anni mi ribellai alle idee politiche di mio padre. Lui non c’è più, ma ogni tanto discutiamo ancora”

ALAIN ELKANN
GERUSALEMME
Nel romanzo Una storia di amore e di tenebra, tradotto da Feltrinelli nel 2003, Amos Oz racconta la sua giovinezza e il rapporto con la città natale, Gerusalemme.

Che cosa è cambiato dagli Anni 40-50 che descrive nel suo libro?
«Gerusalemme è cambiata completamente, era una piccola città con molti quartieri e ogni quartiere aveva il suo carattere e il suo ciclo vitale. Oggi è una metropoli, è una città di oltre 750 mila abitanti ed è molto più movimentata, ma è ancora piena di tensioni come quando ero bambino».

Che relazioni hanno gli israeliani con Gerusalemme?
«È impossibile dare una risposta, perché ogni israeliano ha la sua Gerusalemme. C’è la Gerusalemme dei religiosi e quella dei “secolari”, quella dei nuovi insediati e quella di coloro che ci sono da molte generazioni, quella Gerusalemme degli ebrei e quella degli arabi…».

Ma perché lei è andato a vivere altrove?
«A 14 anni mi sono ribellato contro il mondo di mio padre. Lui era uno studioso e io sono diventato un’autista di trattori, lui era di destra e io sono diventato socialista, lui era un intellettuale e io volevo essere un contadino. Così a 14 anni mi sono trasferito in un kibbutz e successivamente mi sono spostato in un altro kibbutz nel deserto. Da allora sono tornato a Gerusalemme molte volte, ma mai come residente. È la città dove sono nato, dove molti miei romanzi si svolgono».

Li ambienta lì perché lo scrittore deve conoscere bene il luogo che descrive?
«Ho bisogno però della distanza, non posso dipingere con il naso inchiodato alla tela. Ho preso le distanze anche perché oggi trovo la città piena di estremisti di ogni genere: musulmani, ebrei religiosi e nazionalisti, tutta la città come un grande punto interrogativo».

Lei ha visto nascere lo Stato di Israele, che adesso ha 61 anni. Cos’è cambiato? Il paese è più forte o più debole di allora?
«Israele è nato dai sogni, non dalla geografia o dalla demografia. C’erano molti diversi sogni: i sogni dei padri e delle madri di Israele. Alcuni sognavano di ricostruire i giorni della Bibbia, alcuni sognavano di creare una replica delle città ebraiche dell’Europa dell’Est, certi sognavano di creare una copia dell’Austria-Ungheria in Medio Oriente, altri volevano una Scandinavia socialdemocratica, altri ancora miravano a un paese marxista. Quei sogni si sono cancellati l’uno con l’altro e non potevano essere raggiunti. Dopo 60 anni Israele ha un senso come di delusione, precisamente perché è nato da un sogno. Ma non è una disillusione sulla natura di Israele, bensì sulla natura dei sogni. L’unico modo di mantenere un sogno perfetto e bello è di non cercare mai di esaudirlo, perché nel momento in cui lo esaudisci inizia la disillusione. Israele è un sogno realizzato e quindi c’è una disillusione».

Vuol dire che è un fallimento?
«No, non è un fallimento».

Ma ci potrebbero essere altri sogni?
«Sì, sempre. Se però sono raggiunti, poi c’è la disillusione».

E la realtà?
«La realtà è che è un paese molto mediterraneo, molto simile alla Grecia, all’Italia, alla Spagna. È un paese rumoroso, appassionato, materialista, generoso, con il cuore caldo e fa molto rumore intorno a sé. Posso dire che Israele appartiene più a un film di Fellini che a un film di Bergman».

E l’aspetto guerra, il conflitto con i palestinesi?
«La guerra è la più grande tragedia degli arabi e degli israeliani. Il più grande sogno degli israeliani è la pace e credo che verrà, non so tra quanto tempo, non posso dare una data. E’ difficile essere un profeta nella terra dei profeti, ma so che un giorno ci sarà un’ambasciata palestinese in Israele e un’ambasciata israeliana in Palestina. Queste due ambasciate saranno a pochi chilometri di distanza l’una dall’altra, perché una sarà in Gerusalemme Ovest e l’altra in Gerusalemme Est».

Vuol dire che Gerusalemme si spaccherà in due?
«Credo che Gerusalemme Ovest sarà la capitale di Israele e Gerusalemme Est la capitale dello Stato palestinese».

Il Muro del Pianto a chi apparterrà?
«Non so quali saranno esattamente le frontiere, però i luoghi sacri, secondo me, dovrebbero essere extraterritoriali e aperti a ogni credente».

Secondo lei Israele continuerà a esistere tra cent’anni o, come credono alcuni, non sopravviverà?
«Io credo di sì, e non vedo nessuna ragione perché non sia così. Penso che un giorno, come è successo in Europa, ci sarà la pace, solo che non ci vorranno mille anni e ci sarà molto meno spargimento di sangue».

Ma l’Iran, i nemici esterni, la minaccia delle bombe atomiche?
«Ho paura che, tra 15 anni o quasi, tutti i paesi avranno l’atomica, e ci sarà lo stesso precario equilibrio che esisteva tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica oppure che esiste ora tra l’India e il Pakistan».

Potrebbero esserci, secondo lei, altre nuove grandi guerre?
«È difficile da predire».

E la letteratura?
«Sta fiorendo alle falde di un vulcano in eruzione. Anche quando il mondo è pericoloso e incerto, le persone vivono la loro vita quotidiana. Sognano, piantano giardini, lavorano la terra, leggono e producono letteratura. In Israele oggi è “un’epoca d’oro” per la letteratura. Gli israeliani leggono e scrivono molti libri, e soprattutto discutono molto sui libri: ogni tanto un’autista di taxi in Israele mi riconosce quando sono a bordo e comincia a discutere, ma non con me o su di me: sui personaggi dei miei romanzi».

Ma lei non ha scelto il lavoro sbagliato? Non è in realtà un contadino fallito?
«Io volevo essere un contadino, ma alla fine la ribellione contro mio padre è girata quasi a 360 gradi e adesso che le sto parlando sono seduto in una stanza piena di libri e sto scrivendo ancora più libri. È esattamente quello che mio padre voleva che io facessi, e non sono stato un autista di trattori per molti anni».

Suo padre ha potuto vedere il suo successo?
«Ha visto stampati i miei primi tre libri».

E cosa ne pensava?
«Era felice per i miei scritti, ma contrario alle mie idee politiche. È morto 40 anni fa e io ho ancora discussioni politiche con lui. Ho l’abitudine di invitare i morti in casa di tanto in tanto, chiedo loro di sedere e di prendere un caffè e parliamo di cose di cui non abbiamo mai parlato quando erano ancora vivi. Dopo il caffè li faccio andare via, perché non voglio che i morti vivano in casa mia, ma ogni tanto li invito per un caffè o una conversazione. Credo che sia il modo giusto di vivere con i morti, e quello che facciamo noi con i nostri sogni è invitare i morti a tornare».

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