Ripenso a Pasolini e mi viene in mente l’Ecclesiaste

di Vincenzo Cerami
L’incontro che noi artisti abbiamo avuto con Benedetto XVI, il 21 novembre, ci ha portato a riflettere sul senso del nostro lavoro da una prospettiva particolare. Il Papa in qualche modo ha chiesto ai presenti di rivisitare il rapporto tra arte e teologia, tra il racconto della vita e la spiritualità della voce narrante.
In tempi per fortuna tramontati il mio maestro, nonché mio insegnante alle scuole medie, Pier Paolo Pasolini, diceva che il “contrario” della religione non è il comunismo (che, benché abbia  preso  dalla  tradizione borghese lo spirito laico e positivista, è in fondo molto religioso) ma il capitalismo (spietato, crudele, cinico, puramente materialistico, causa di sfruttamento dell’uomo sull’uomo, culla del culto del potere, covo orrendo del razzismo).
La religione dei popoli è un moto naturale e sincero di una società innocente, indissolubilmente legata ai misteri del creato. È stata la borghesia a gettare una luce strumentale sulla spontanea vocazione cristiana alla pietas. Il laicismo è la religione del liberismo. L’umanesimo cristiano riguarda, appunto, l’uomo, nella sua nudità creaturale, così ben evocata da Qohélet già prima di Gesù.
Sono passati molti anni da quando Pasolini, negli anni Cinquanta, diceva a noi, giovanissimi studenti in pieno boom economico, che non dovevamo affatto vergognarci delle nostre umili, spesso meridionali origini. Ci diceva che la vera qualità della vita non aveva nulla a che fare con il benessere e le vanità.
Oggi, a ricordare le sue parole, mi viene in mente, appunto l’Ecclesiaste. Nel Sessantatré i giovani gridavano “vogliamo tutto”, nel Sessantotto tutti dovevano avere il diritto di comprare tutto:  questo il senso reale di quella “rivolta” piccolo-borghese nel cuore del neocapitalismo. E oggi vige il mito della longevità:  vince chi arriva prima a cent’anni.
Quasi mezzo secolo fa è morta la morte. Spauracchi delle dolci, struggenti parrocchie italiane erano Nembo Kid e le cambiali. Il mondo è mutato di colpo:  civiltà e progresso hanno finito per non andare più d’accordo, tanto da far parlare il mio professore di “mutazione antropologica”. Un diluvio ha riversato nelle cantine ettolitri di fango e ha scollato dalle bottiglie le etichette di tutti i vini, ordinari e preziosi, che galleggiano sul pantano. Le bottiglie sono lì, nude, uguali, infreddolite, senza più marchio di qualità.
E oggi, nella profonda crisi economica che attraversiamo, una volta che abbiamo rinunciato a uno zodiaco di riferimento etico e spirituale, non stiamo correndo il rischio di diventare più poveri, bensì miserabili. Senza la coscienza d’essere non solo materia ma spirito è già l’inferno.
Non ricordo epoca più corrompibile dell’attuale, dove perfino i corpi, con la loro sacralità, sono messi sul mercato, senza alcuno scrupolo. Non c’è libertà in una democrazia nella quale il cittadino non è più padrone dei propri gesti, agisce all’interno di una cultura subdolamente coattiva.
Da mezzo secolo l’arte racconta tutto questo, nelle sue mille forme, nei suoi linguaggi evocativi e indiziari, nella sua instancabile vocazione a dirci in quale mondo viviamo. Ce lo racconta e basta. Sta a noi tirare qualche conclusione, e magari renderci conto di ciò che non va nello spazio in cui viviamo. L’artista, che non è né un filosofo né un sacerdote, non ha strade da indicarci, egli mette al servizio della verità il suo bruto e istintivo talento di creatore di forme. La sua religiosità si esplicita soprattutto nell’inseguire un’idea di perfezione che gli serve da punto di riferimento nel momento in cui raffigura una visione del mondo. È un’idea astratta, ontologica, che sta in piedi per fede.
Se chiedo a un artista com’è per lui l’isola felice in cui vivono gli archetipi perfetti dell’umanità, egli resta muto. Invero, per sapere dove andare bisogna prima capire dove siamo. Ma non possiamo avere conoscenza di noi stessi se non ci rapportiamo a un’identità assoluta che ci dia un orientamento. L’arte lavora all’interno di questo sillogismo, tenta eternamente e vanamente di sciogliere un nodo. Ma non è importante farlo, per l’artista tutto è artifizio, è pre-testo per comunicare attraverso le emozioni un’idea. E non può esistere alcuna emozione senza uno spirito che la crei e un altro che la accolga.
“L’arte è la strada più breve tra uomo  e uomo”, scriveva Malraux, ma a condizione che nelle sue azioni l’uomo sia costantemente orientato dal sentimento della perfezione, che, sappiamo, non appartiene a questo mondo.

L’Osservatore Romano

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