Un risorgimentale nel nome di Cavour e Tocqueville

Lo spirito ottocentesco del grande giornalista Mario Pannunzio nacque dall’opposizione alla vulgata marxista. La democrazia liberale e laica è il tratto che lo unisce al conte e al filosofo francese 

È stato Rosario Romeo a evidenziarmi, da grande storico di Cavour e del Risorgimento, la passione che Mario Pannunzio ebbe per le vicende che caratterizzarono gli anni di quello che Benedetto Croce definiva «Sorgimento», considerandolo l’unico momento storico nel quale questo disgraziato Paese, dopo secoli di servitù, cercò di darsi un futuro unitario.

È noto a tutti che Pannunzio teneva dietro la sua scrivania di direttore del Mondo il ritratto di Cavour per cui provava un’affinità elettiva profonda, così come non è certo casuale che per il suo foglio clandestino, destinato, dopo la Liberazione di Roma, a diventare quotidiano del partito liberale italiano da lui diretto fino al 1947, Pannunzio avesse scelto la testata di Risorgimento liberale che si richiamava parzialmente al quotidiano fondato da Cavour a Torino nel 1848.
Finora erano stati solo Romeo e Spadolini a rimarcare l’impronta dello spirito risorgimentale che caratterizzava Pannunzio, direi quasi del suo spirito ottocentesco, se è vero che lui, letterato raffinatissimo che amava Proust, volle nella bara come compagno dell’ultimo viaggio nel 1968, I promessi sposi di Manzoni, cattolico liberale che subì il fascino politico di Cavour e s’impegnò con la sua opera, letteraria e non solo, a favore del Risorgimento.

Spadolini, ricordando il violento attacco del crociano Adolfo Omodeo al Risorgimento senza eroi di Piero Gobetti, disse che Pannunzio si sarebbe schierato idealmente dalla parte di Omodeo in difesa del Risorgimento, contro l’«orianesimo» del giovane torinese, che riteneva non solo di dover smitizzare il Risorgimento – come era giusto per un giovane della sua generazione – ma anche di aprire un processo al Risorgimento che comprendeva l’intera storia italiana da Cavour a Giolitti.

Omodeo parlava in modo spregiativo di «orianesimo» in quanto la critica di Alfredo Oriani al Risorgimento era caratterizzata da giudizi sbrigativi e sommari, privi di quella riflessione storica e di quella ricerca scrupolosa che, secondo Omodeo, doveva caratterizzare il lavoro degli storici.

In effetti quel filone «revisionista» del Risorgimento nato da Gobetti e soprattutto da Gramsci (il Risorgimento come rivoluzione mancata e «conquista regia») avrebbe soprattutto caratterizzato il secondo dopoguerra italiano, quando Giorgio Candeloro sostenne che, «partendo dalla riflessione gramsciana, era possibile raggiungere una visione comprensiva e scientificamente corretta del Risorgimento», forse volutamente dimenticando l’origine pratica degli scritti gramsciani, improntati a una lettura ideologica della storia italiana in chiave rigorosamente marxista.

Pannunzio, schierandosi in difesa dei valori del Risorgimento, dimostrava, implicitamente ed esplicitamente, di rifiutare la «vulgata» marxista. Divenne perciò naturale l’incontro con Giovanni Spadolini collaboratore del Mondo di Pannunzio anche su temi riguardanti il Risorgimento e non solo la storia contemporanea, perché in Spadolini, che rivalutò la figura di Gobetti, vibrava una passione risorgimentale autentica e profonda. Così come divenne scontata la collaborazione al giornale pannunziano di Rosario Romeo, ostile, per usare un’espressione di Renzo De Felice, «ad ogni via breve escogitata per eludere i problemi» della storiografia risorgimentale.

E va ricordato come Romeo, cresciuto alla scuola di Volpe e di Chabod, proprio sul terreno della storia economica abbia aperto una discussione critica nei confronti delle tesi gramsciane, considerate fino ad allora parametri valutativi intoccabili, dimostrando come esse fossero più ideologiche che storiche.

Mi ha piacevolmente sorpreso in questi giorni, in cui si celebra il centenario della nascita di Pannunzio, leggere quanto ha scritto Eugenio Scalfari che ha sempre considerato un liberal e non un liberale Pannunzio: «Quanto al pensiero egli fu sostanzialmente limpido e in linea con il liberalismo europeo ereditato dall’Ottocento. Guizot, Tocqueville, Benjamin Costant in Francia, i liberali inglesi di Gladstone, la Lega antiprotezionista di Cobden e tutta la tradizione riformista anglosassone. Qui da noi a capo del filo c’era il Conte di Cavour e poi la Destra storica con Marco Minghetti e Silvio Spaventa in particolare: libero commercio, libero mercato, ma anche regole che combattessero i monopoli, ripartissero equamente il reddito, impedissero privilegi, garantissero eguaglianza delle condizioni di partenza e tenessero aperto l’accesso al mercato».

In effetti si tratta della cultura politica e delle scelte economiche che lo statista piemontese realizzò non solo per rafforzare e modernizzare il Piemonte sabaudo, ma anche per creare le premesse di un’Italia liberale che la sua morte improvvisa nel 1861 impedì che si realizzasse, se non con molto ritardo, nell’età giolittiana, quando lo statista di Dronero si rivelò il vero e l’unico erede del Conte.
Tra Pannunzio e Cavour (nati a cent’anni di distanza) c’era una vicinanza ideale profonda e a legarli fu in particolare il comune interesse per Tocqueville, nemico del giacobinismo, attento scopritore della democrazia americana, vigile profeta dei pericoli illiberali di una democrazia incapace di mitigare le spinte egualitarie con la passione per la libertà e con il rispetto dei diritti delle minoranze. La democrazia liberale e laica – opposta a quella fondata sui miti rivoluzionari che fecero degenerare la Grande Rivoluzione nel sangue e nel fanatismo – era il tratto comune che univa il pensatore francese, lo statista italiano e Pannunzio il quale ebbe anche momenti di forte passione illuminista, come osservò Alberto Ronchey, anche se il percorso pannunziano nel suo insieme è quello di un liberale autentico che finì di spezzare ogni rapporto con chi privilegiò l’eguaglianza rispetto alla libertà. In effetti in Pannunzio c’era un forte richiamo ad alcuni valori che accomunarono Tocqueville e Cavour. Non si comprenderebbe, ad esempio, il forte impegno laico di Pannunzio senza il richiamo al separatismo tra Stato e Chiesa voluto da Cavour come base dello Stato unitario nato dal Risorgimento, a cui aveva posto fine il Concordato del 1929, accolto nella Costituzione dall’articolo 7 votato da democristiani e comunisti.

Pier Francesco Quaglieni

Il Giornale

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