L’inventore dello snob

Marco Testi per “L’Osservatore Romano

Nel luglio di duecento anni fa nasceva a Calcutta, dove il padre lavorava per la Compagnia delle Indie 0rientali, William Makepeace Thackeray, autore noto al pubblico soprattutto per un film di Stanley Kubrick ispirato al suo romanzo Barry Lyndon.

Thackeray però non è stato il proverbiale «autore di un solo romanzo», ma molto di più. Il destino di origini «orientali», comune a molti scrittori, come Kipling e Orwell, dovuto all’espansione coloniale inglese, non influì molto sulla sua narrativa, in quanto Thackeray si interessò soprattutto dei costumi della madrepatria, analizzandoli sia in prospettiva storica, con romanzi come La storia di Henry Esmond, sia attraverso il corrosivo umorismo della Fiera delle vanità (si dovrebbe tradurre in realtà «fiera di vanità» o «della vanità» l’originale Vanity fair, apparso a puntate in rivista dal 1847 al 1848, con illustrazioni dell’autore stesso).

Thackeray aveva attraversato la storia e la cultura europea più di quanto il suo nome (non) dica oggi ai lettori: aveva viaggiato, conosciuto Goethe, si era fermato anni in Francia, dove si era sposato ed era entrato in contatto con il mito di Bonaparte e con la lenta fusione degli elementi illuministici sopravvissuti a Napoleone con quelli realistici e romantici. Motivi che torneranno nella costruzione dei personaggi dei suoi «novels», cinici o ingenuamente romantici, razionali e calcolatori o posseduti da manie di grandezza.

Lo scrittore inglese, però, non fu né romantico alla Hugo, né romantico-realista alla Dickens (suo amico-rivale) né radicalmente corrosivo alla Swift, per risalire al secolo precedente. Nonostante l’aria respirata in viaggi, letture e incontri, Thackeray rimase Thackeray, umorale e ironico osservatore di costumi, fustigatore della falsità dei rapporti all’interno della piccola nobiltà, smascheratore di mitologie legate al successo e alla scalata sociale, demistificatore delle relazioni basate solo sulla forma e sull’interesse. Oggi si troverebbe molto a suo agio. Ma non fu mai un totale pessimista. Un sano realismo «critico» è il suo tratto distintivo.

In realtà Thackeray si trovò nel crocevia da cui ebbe inizio praticamente la cultura dell’Inghilterra tra fine Settecento e metà Ottocento, e che reagì, nel bene come nel male, alla modernità: una modernità contraddittoria, che significava decollo industriale e sfruttamento dei minori (stigmatizzato da Dickens), arte nuova e insieme invito a guardare al passato (nel caso di Pater, Ruskin e i preraffaelliti), colonialismo e socialismo fabiano (Shaw), crisi esistenziale e risposta tomista (Chesterton). Thackeray ha avuto il merito di aver conservato il suo umorismo realista senza cadere nell’imitazione di nessun grande nome che lo aveva sfiorato. Anzi, ha creato un modo di vedere le cose talmente nuovo e moderno da essere adottato nel Novecento. Senza neanche la consolazione di una citazione. Sì, perché molti tic linguistici, molti modi di denunciare l’ipocrisia «borghese» e molte forme di umorismo cool vengono, secondo alcuni, da quel disegnatore-scrittore-editore, che come Pirandello, ebbe modo di conoscere in corpore vili la follia nella terribile sorte che colpì la moglie. Le affinità con il siciliano non finiscono qui, perché in Rebecca e Rowena, una spassosa continuazione del celeberrimo Ivanhoe di Walter Scott, non solo i cavalieri del XII secolo leggono quotidiani e si concedono tutti i vizi del borghese ottocentesco (e qui come non pensare ai Monty Python o a Mel Brooks), ma l’eroe torna a casa e trova la moglie sposata con un vecchio amico e mamma di un bebè, come nel Fu Mattia Pascal di 54 anni dopo.

Non solo: il personaggio vanesio e tutto esteriore che apparentemente vince la battaglia sociale, come la Becky Sharp della Fiera delle vanità riappare, sempre in un salotto, nel Novecento, anche se ha cambiato sesso; ora si chiama Guido Speier e si aggira nelle pagine della Coscienza di Zeno, dove, con la sua avvenenza e con una sonatina di violino seduce — e soffia all’umile ma profondo Zeno — la più bella delle sorelle Malfenti. Un altro cinico che vince, anche se solo per poco. Ma Becky non è solo cinica: possiede un sottofondo misterioso fatto di lotta per la sopravvivenza e seduzione femminile che ne fa un personaggio unico del romanzo inglese. Ed è apparsa qualche anno prima di un’altra eroina che nasconde in sé l’indicibile fascinazione della medusa, amante e nello stesso tempo tiranna e divoratrice: la Pisana delleConfessioni di un Italiano, di Ippolito Nievo (scritte tra il 1957 e il 1958). Questo non vuol dire che Nievo si sia rifatto a Thackeray, si tratta se mai della capacità artistica di cogliere una delle varianti di un tipo femminile che viene da lontano: la settecentesca Moll Flanders (1722), eroina tutt’altro che rispettabile e «borghese», capace di affrontare la vita con coraggio e volontà di sopravvivenza.

Anche nell’ambito della letteratura di viaggio Thackeray ha avuto cose nuove da dire: in un momento in cui il Grand tour significava l’iniziazione del nobile europeo attraverso il contatto con l’esotico e il pittoresco, egli dà alle stampe Da Cornhill al Gran Cairo, diario di bordo del suo personale Grand tour in oriente in compagnia del nobile parlamentare James E. Tennent. Il libro è in realtà la descrizione ironica e risentita delle fissazioni e della stupidità dei turisti che stonano terribilmente con la sacralità e la bellezza dei luoghi visitati. Uno sguardo spostato in direzione della civiltà incontrata, per cercare di capirne i fondamenti e lo spirito.

Siamo dunque di fronte a uno scrittore più moderno di quanto non ci abbiano lasciato intendere, tanto moderno da coniare uno dei vocaboli più vulgati tra Ottocento e Novecento, quello «snob» che è contrazione del latino «sine nobilitate»: il che la dice lunga sulla capacità di Thackeray di fiutare lo spirito — comprese le nevrosi — del suo tempo.

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