Archive for febbraio 2012

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mi dovete ammazzare

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di Véronique Vial

febbraio 7, 2012

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stonerparty: sallypassaro:thefingerfucker puff puff passssssss

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iamshizznasty:Left Nipple…

Christina Ricci photographed by Tom Munro

febbraio 2, 2012

La difficile sfida degli eroi agli dèi tiranni dell’Olimpo

febbraio 2, 2012

Giulio Guidorizzi, «Il mito greco», collana «I Meridiani» Mondadori (pp. 688, e 30. I due volumi insieme: pp. LV-1758, e 60)

Pietro Citati per “Il Corriere della Sera

Il mito greco, a cura di Giulio Guidorizzi, è un libro bellissimo. Il primo volume, Gli dèi, è uscito nel 2010: il secondo, Gli eroi, è in uscita (I Meridiani, Mondadori). Non saprei se elogiare di più la conoscenza illimitata della letteratura greca e latina, che Guidorizzi possiede, o la sapienza nella costruzione del libro, divisa in parti mentali, o la bontà della maggior parte delle traduzioni, o la precisione delle note, o la liquidità e l’eleganza dello stile, che cercherò di imitare. Ciò che incanta i lettori è poter percorrere il libro non come un manuale, sia pure ottimo, come quello antico dello Pseudo-Apollodoro o quello moderno di Karl Kerenyi: ma come un corpo vivo, che vibra, si muove, ha echi e aloni, dove la Grecia racconta se stessa e la sua sterminata fantasia mitica.

La mitologia greca non è una costruzione sistematica:non lo è almeno nei grandi poeti, come Omero e Ovidio; se mai, lo è soltanto nei tardi (e spesso eccellenti) mitografi, che razionalizzano ciò che non dovrebbe venire razionalizzato. Non si può immaginare una costruzione più mobile e vasta. Tutti gli dèi ed eroi hanno rapporti con altri dèi ed eroi: ogni personaggio ed evento trova un’eco in una parte lontanissima della costruzione; e persino ogni figura è mobile, perché si presenta in molte forme e varianti, che posseggono tutte lo stesso grado di realtà e verità, non importa se registrate in un grande poema o in un meticolosissimo manuale come la Guida della Grecia di Pausania o in uno scolio in margine a un testo minore. Le vicende e i personaggi hanno conosciuto dapprima una lunga esistenza orale, poi una lunghissima esistenza scritta. Non sono state raccolte per essere credute (non esiste una fede negli dèi greci), ma per venire raccontate senza interruzione, con sempre nuove aggiunte e metamorfosi. Sono trascorsi più di tremila anni dalla mitologia del periodo miceneo; eppure tutto vive, muove, palpita, si agita, si esibisce, si contraddice, come nel libro di Guidorizzi che ricostruisce così fedelmente il mito greco.

Sia gli ebrei sia i cristiani hanno dedicato un culto ai primi capitoli della Genesi, che raccontano la creazione dell’universo, la separazione delle cose, la doppia creazione, spirituale e fisica, dell’uomo, quella della donna, e il peccato di Adamo ed Eva, che generò una specie di seconda creazione. Nella mitologia greca, non esiste nulla di simile alla creazione biblica originaria: esistono creazioni o ricreazioni successive, come quella di Deucalione e Pirra, mirabilmente raccontata da Ovidio nelle Metamorfosi. Ma i rapporti tra dèi, eroi e uomini sono complicatissimi. Da un lato, la distanza tra loro resta incolmabile: dall’altra, sebbene non sia stato creato dagli dèi, l’uomo e tanto più l’eroe è una creatura nobilissima, che leva lo sguardo verso il cielo e le stelle; mentre gli dèi osservano le sue vicende, vi partecipano con passione, lo proteggono, lo guidano, lo sorreggono, lo condannano, talvolta senza ragione o per ragioni che ci restano incomprensibili.

Nei tempi più antichi, gli dèi, gli eroi e gli uomini vivevano insieme. Discendevano dalla stessa razza: conducevano un’esistenza comune; avevano comuni «le mense e i concili». Allora gli uomini vedevano gli dèi nel loro «sembiante» e nel loro «splendore». Ancora ai tempi dell’Iliadee dell’Odissea, popolazioni arcaiche, gli Etiopi e i Feaci, vivevano insieme agli dèi, banchettavano con loro, e li guardavano nel loro «sembiante». Il più famoso tra gli eroi greci, Achille, forma un caso particolare. Come dice il primo verso dell’Iliade, che è al tempo stesso il primo verso della letteratura greca, viene posseduto da una passione, la mènis, l’ira, che appartiene soltanto agli dèi: è una parola tabù che né gli dèi né gli uomini possono pronunciare. Questa passione, in Achille, esclude tutte le altre, ed egli non può trascurarla o dimenticarla un solo istante. Omero considera la mènis con un doppio sguardo. Da un lato, essa rivela lo splendore divino di Achille: la sua identità con gli dèi; e Omero, come tutti i greci, venera la rivelazione divina negli spiriti eroici e umani. D’altra parte, Omero sa che gli eroi e gli uomini non sono dèi e non possono nutrire i loro stessi sentimenti: quindi la mènis incombe su di lui come una colpa sinistra, una catastrofe.

Se dèi e uomini appartengono alla stessa razza, tanto più gli eroi sono affini alla natura umana. Non posseggono poteri soprannaturali, non sono polimorfi, non compiono nulla che un uomo non possa compiere, sia pure con le sue forze limitate. Poche generazioni separano l’eroe capostipite dai suoi discendenti, che nei tempi storici abitano la città. Dal profondo della tomba, gli eroi emanano le loro forze sotterranee: proteggono il territorio, guariscono, compiono miracoli, rendono oracoli: ma possono anche inviare malattie e punire gli empi. In primo luogo, gli eroi sono dei mediatori. Sebbene la differenza tra mondo divino e umano sussista, gli uomini entrano in rapporto con gli dèi attraverso il riflesso, il barlume, il profumo che colma il mondo eroico. Col passare del tempo, gli eroi si trasformano: i guerrieri di Omero, dominati dal senso della gloria e dell’onore, diventano, nella tragedia classica, uomini lacerati e sofferenti. Così Eracle arcaico è colui (come dice Bacchilide) che mai nessuno vide asciugarsi una lacrima: mentre l’Eracle tragico esperimenta nella propria anima i morsi del dolore, che piega l’uomo più forte e temprato.

Infine, avviene la totale separazione tra i mondi. Il sacro diventa proibito. Se qualcuno compie la follia di fissare gli dèi negli occhi si perde senza rimedio. Con l’ Odissea, gli dèi si allontanano, si ritirano, abbandonano la terra: nessuno li vede più nella loro figura, ma soltanto nella loro maschera umana. Quando appare Ulisse, l’eroico si scioglie completamente nell’umano: egli è l’ultimo degli eroi, il primo degli uomini. Non appartiene né al mondo degli dèi, come Achille con la sua mènis, né a quello per metà utopico dei Feaci. Vuole essere uomo: nient’altro che uomo: uomo effimero; sebbene il suo orizzonte sia attraversato dalle lampeggianti rivelazioni divine. Nemmeno noi uomini, che non discendiamo come lui da Ermes, possiamo rinunciarvi. La nostra vera esistenza consiste in questi bagliori, che ci giungono dall’alto.

Come racconta Angelo Brelich in un libro famoso, la luce radiosa o sinistra dell’eccezionale avvolge spesso gli eroi greci. Talvolta sono reietti: figli di amori irregolari, bambini abbandonati, rischiano di venire uccisi appena nati, oppure sono salvati e sopravvivono in modo prodigioso. Alcuni sono segnati, mutilati: zoppi o ciechi, o portano nel corpo l’impronta di una ferita, come Ulisse, o punti vulnerabili, come Achille; oppure la loro mente è visitata da una follia intermittente o continua. Non sono virtuosi. Compiono incesti o parricidi o matricidi o stupri o assassinii: o massacrano i figli. Sempre, o quasi sempre, sono vittime della hybris: si scontrano contro i limiti del destino, della natura o degli altri esseri umani; e lo scontro è così terribile, che ne vengono travolti: travolti dagli altri, ma in primo luogo dalle forze immense che portano dentro se stessi. Tutto, in loro, è eccessivo: passioni, imprese, io, destino. Cercano di realizzare l’impossibile, e talvolta, attraverso strade straordinarie, ci riescono. Così diventano i grandi colpevoli, e debbono venire purificati dagli dèi, che spesso, come Apollo, hanno conosciuto le loro stesse colpe. Nemmeno la loro morte è comune: fulminati, smembrati vivi, inghiottiti dal terreno.

Non tutti gli eroi sono guerrieri, come insegna persino l’Iliade. Tra di essi, ci sono inventori, medici, sciamani indovini, profeti; Palamede inventa le leggi scritte, le lettere, i metri e le misure, il numero, i segnali di fuoco, i dadi, gli scacchi. Alcuni, tra i più venerati, fondano città: vengono da molto lontano, fuggiaschi o esiliati, e portano con sé il ricordo di un delitto compiuto, o il presagio di sciagure nelle quali saranno coinvolti. Appena giunti sulla nuova terra, aboliscono il passato: i criminali diventano prescelti, i perseguitati indossano le vesti dei re; e la terra selvaggia e incolta riceve una legge, un ordine, un’armonia.

Tutti gli eroi greci, senza eccezione, desiderano la gloria, nella quale vedono il solo compimento e la sola giustificazione della loro esistenza terrena. In primo luogo, la ama Achille: con la stessa purezza e intensità con cui la amava Hölderlin. Come a esaudire la sua attesa, l’ultimo libro dell’Odissea gli edifica il supremo monumento. I Greci lo piangono: dal mare vengono la madre e le ninfe marine, gridando: le Nereidi gemono: le nove Muse intonano il lamento, «per diciassette giorni e diciassette notti ininterrottamente»; e la diciottesima notte i Greci lo ardono insieme a pecore e buoi. Achille viene cremato: bagnato di unguento e di miele; le sue ossa sono raccolte nel vino e chiuse in un’anfora insieme a quelle di Patroclo. Infine i Greci innalzano sopra di esse un tumulo nell’Ellesponto:
«perché da lontano fosse visibile agli uomini in mare,
a quanti vivono ora, e a quanti vivranno in futuro».

Come vuole la legge della gloria, il tempo è vinto, l’immortalità conquistata. Eppure Achille, che ama ed esalta la gloria e in apparenza non può fare a meno di lei, denigra la religione della gloria nella quale credono gli eroi greci. «Che peso hanno – dice nell’Iliade ai messi di Agamennone – la gloria, la ricchezza, lo splendore? Ciò che conta è soltanto la vita: questa cosa così fragile e leggera: dura un istante: esce così presto dalla bocca; vale così poco davanti alla forza e alla bellezza degli dèi – ma niente vale la vita. Nulla può pagarla, o sostituirla o farla dimenticare». Questo è il più sublime paradosso della civiltà eroica greca, che Giulio Guidorizzi ha così accortamente fatto rivivere.

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febbraio 1, 2012

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febbraio 1, 2012

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febbraio 1, 2012

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febbraio 1, 2012

Il primo roth

febbraio 1, 2012

Philip Roth

Scene da un matrimonio per riscoprire l’esordio di un grande maestro

Philip Roth, da “la Repubblica”

Le nozze. Fatemi cominciare dai parenti. C’era il lato della famiglia della signora Patimkin: sua sorella Molly, una gallinella popputa con le caviglie gonfie che le formavano un anello sopra le scarpe, e che avrebbe ricordato il matrimonio di Ron se non altro perché si era massacrata i piedi nelle scarpe con tacchi di otto centimetri, e il marito di Molly, Harry Grossbart, il ricco agricoltore di provincia che aveva fatto fortuna con l’orzo e il granoturco ai tempi del proibizionismo. Ora faceva del volontariato al tempio e ogni volta che vedeva Brenda le dava una pacca sul sedere: una specie di contrabbando fisico che veniva fatto passare, immagino, per affetto familiare. Poi c’era il fratello della signora Patimkin, Marty Kreiger, il re dell’hot dog kosher, un uomo immenso, con tanti stomachi quanti menti, e già, a cinquantacinque anni, con tanti attacchi cardiaci quanti i menti e gli stomachi sommati insieme. Era appena tornato da una terapia sui Catskill, dove, a quanto diceva, non aveva mangiato altro che bastoncini di crusca All-Bran, e vinto millecinquecento dollari a gin rummy. Quando il fotografo venne a fare il suo lavoro, Marty mise la mano sui seni a frittella di sua moglie e disse: – Ehi, che ne dite di una foto cosí? – Sua moglie, Sylvia, era una donna fragile e sottile con l’ossatura di un uccellino. Aveva pianto per tutta la cerimonia e, anzi, singhiozzato apertamente quando il rabbino aveva dichiarato Ron e Harriet «marito e moglie davanti a Dio e allo stato del New Jersey». Piú tardi, a cena, si era abbastanza rinfrancata per dare una botta sulla mano del marito mentre l’allungava per prendere un sigaro. Però, quando lui si sporse per stringerle un seno, sembrò atterrita e non disse nulla.C’erano poi le sorelle gemelle della signora Patimkin, Rose e Pearl, che avevano, tutt’e due, i capelli bianchi, dello stesso colore delle Lincoln decappottabili, e voci nasali, e mariti che le seguivano ma parlavano solo tra loro come se, in realtà, le sorelle si fossero sposate tra loro, e i mariti pure. I mariti, che si chiamavano Earl Klein e Manny Kartzman, sedettero l’uno vicino all’altro durante la cerimonia, e anche a cena, e una volta addirittura, mentre l’orchestra suonava tra una portata e l’altra, si alzarono, Klein e Kartzman, come per ballare, e invece raggiunsero il fondo della sala dove insieme a lunghi passi misurarono la larghezza del pavimento. Earl, come appresi dopo, era nel ramo della moquette, ed evidentemente cercava di capire quanti soldi avrebbe fatto se l’Hotel Pierre si fosse rivolto a lui per una fornitura.

Dal lato del signor Patimkin c’era soltanto Leo, il suo fratellastro. Leo aveva sposato una donna di nome Bea alla quale nessuno pareva rivolgere la parola. Bea continuò a saltellare su e giú durante il pasto e a correre alla tavola dei piccoli a vedere se sua figlia, Sharon, era trattata bene. – Le avevo detto di non portare la bambina. Prendi una babysitter, ho detto –. Leo mi raccontò queste cose mentre Brenda ballava col testimone di Ron, Ferrari. – Cosa siamo, milionari?, mi fa lei. No, per carità, ma si sposa il figlio di mio fratello, potrò fare un po’ di festa, no? Macché, abbiamo dovuto tirarci dietro la bambina. Aah, cosí adesso ha qualcosa da fare! –. Si guardò intorno. Sul palco Harry Winters (nato Weinberg) dirigeva la sua band in un medley da My Fair Lady; sulla pista ballava gente di tutte le misure, tutte le forme, tutte le età. Il signor Patimkin ballava con Julie, alla quale era scivolato il vestito dalle spalle scoprendo la piccola schiena morbida e il collo lungo, come quello di Brenda. Lui ballava a piccoli passi e stava molto attento a non pestarle i piedi. Harriet, che a detta di tutti era una bellissima sposa, stava ballando con suo padre. Ron ballava con la madre di Harriet, Brenda con Ferrari, e io mi ero seduto per un po’ sulla sedia vuota accanto a Leo perché non mi toccasse essere invitato a ballare con la signora Patimkin, che sembrava il senso in cui andavano le cose.
– Tu sei il ragazzo di Brenda? Eh? – disse Leo.
Annuii: avevo smesso già da un po’ di dare imbarazzate spiegazioni. – È una pacchia, ragazzo, – disse Leo, – non fartela scappare.
– È molto bella, – dissi io.
Leo si versò una coppa di champagne, quindi attese come se pensasse ancora che si sarebbe formata la schiuma; quando questo non accadde, si riempí il bicchiere fino all’orlo.
– Bella, non bella, che differenza c’è? Io sono un uomo pratico. Se sto in basso devo esserlo per forza. Se invece sei Ali Khan pensa pure a sposare le dive del cinema. Non sono nato ieri… Sai quanti anni avevo quando mi sono sposato? Trentacinque. Non capisco perché diavolo avessi tanta fretta –. Vuotò il bicchiere e tornò a riempirlo. – Ti dirò una cosa: in tutta la vita mi è capitata solo una cosa buona. Due, forse. Prima che tornassi dalla guerra mi arrivò una lettera di mia moglie: non era ancora mia moglie, allora. Mia suocera ci aveva trovato un appartamento a Queens. Sessantadue e cinquanta al mese, costava. Ecco l’ultima cosa buona che mi è capitata.
– Qual era la prima?
– Quale prima?
– Lei parlava di due cose.
– Non ricordo. Dico due perché mia moglie mi dice sempre che sono sarcastico e cinico. Così forse non penserà che mi credo tanto furbo.
Vidi Brenda e Ferrari separarsi, e allora mi scusai e mi diressi verso di lei, ma proprio in quel momento il signor Patimkin lasciò Julie, e sembrava che i due cavalieri stessero per scambiarsi la dama. Invece si fermarono sulla pista da ballo, tutt’e quattro, e quando li raggiunsi ridevano e Julie stava dicendo: – Che c’è di tanto buffo? – Ferrari mi disse «Ciao!» e si portò via Julie, facendola scoppiare in una risata.
Il signor Patimkin aveva una mano sulle spalle di Brenda, e l’altra si posò improvvisamente sulle mie. – Vi divertite, ragazzi? – disse. Stavamo ondeggiando, tutt’e tre, al ritmo di Get Me to the Church on Time.
Brenda diede un bacio a suo padre. – Sì, – disse. – Sono così sbronza che la mia testa non ha neanche bisogno del collo.
– È un bel matrimonio, signor Patimkin.
– Se avete bisogno di qualcosa chiedete a me… – disse il padre di Brenda, un po’ brillo pure lui. – Siete due bravi ragazzi… Sei contenta che tuo fratello si sposa? Eh? Che bambola!
Brenda sorrise, e anche se evidentemente credeva che suo padre avesse parlato di lei, io ero sicuro che intendeva riferirsi a Harriet.
– A te piacciono i matrimoni, papà? – disse Brenda.
– Mi piacciono i matrimoni dei miei figli… – Mi diede una manata sulle spalle. – Voi due, volete qualcosa? Andate a divertirvi. Ricorda, – disse a Brenda, – tu sei il mio tesoro… – Poi guardò me. – Qualunque cosa voglia la mia Buck va bene anche per me. Non c’è azienda così grande da non aver bisogno di un’altra testa.
Sorrisi, anche se non direttamente a lui, e alle loro spalle vidi Leo che ingollava champagne e ci guardava; quando incontrò il mio sguardo mi fece un segno con la mano, un anello col pollice e l’indice, come a dire: – Così va bene, così va bene!
Allontanatosi il signor Patimkin, Brenda e io ballammo stretti stretti, e ci sedemmo solo quando i camerieri cominciarono a girare per la sala col piatto forte. La tavolata era rumorosa, particolarmente alla nostra estremità, dove gli uomini erano tutti compagni di squadra di Ron, in uno sport o nell’altro, e mangiavano un fantastico numero di panini. Tank Feldman, il compagno di stanza di Ron, venuto in aereo da Toledo, continuava a mandare il cameriere a prendere panini, sedano, olive, sempre con grande gioia di Gloria Feldman, la sua squittente mogliettina, una ragazza nervosa e denutrita che abbassava continuamente lo sguardo al davanti del suo vestito come se sotto ci fossero dei lavori in corso.

Diritti Globali

Le rivelazioni di Porfirio

febbraio 1, 2012

Porfirio

Maria Bettetini per “Il Sole 24 Ore

«Voi reputate vostro dio un pezzo di legno. Che venerazione offensiva!». Nel 384 Ambrogio da Milano così aggredisce Simmaco e con lui la tradizione religiosa romana. Da sessant’anni erano stati distrutti i testi di un pagano che avrebbe ben saputo tener testa alla violenza retorica del vescovo di Milano. Nell’opera dedicata alle immagini degli dei (perì agalmato-n), Porfirio di Tiro sul finire del terzo secolo aveva scritto che «non c’è nulla da meravigliarsi che i più ignoranti reputino le statue come pezzi di legno e pietre», o i libri come rotoli di papiro intessuto. Ma il divino invisibile può essere reso visibile da materiali adeguati (oro, cristallo, marmo, avorio) con statue adeguate, che non sono più solo pezzi di materia, ma diventano agalmata, segni che contengono qualcosa della potenza divina, non idoli ma icone.
Magia? Teurgia? Certamente il più raffinato tentativo di preservare quanto di più alto il sincretismo romano aveva prodotto in termini di religiosità davanti alla sempre crescente diffusione del Cristianesimo. E va subito precisato che Porfirio non contesta la persona di Cristo (uomo molto «pio e religioso»), ma non sopporta i cristiani, che lo venerano come un dio e lo credono morto e risorto. Il discorso non può tuttavia essere continuato senza considerare la temperie del terzo secolo, quando prima Aureliano e poi Diocleziano tentarono con ogni mezzo di riportare Roma allo splendore antico, superando le dissipazioni dei decenni precedenti. Accanto al consolidamento dei confini, a un’accorta politica economica ed edilizia, non mancò un incoraggiamento alla ferma adesione alla pur sincretistica religione di Stato, che portò poi all’ultima persecuzione contro i cristiani del 303-305.
Questi sono gli anni in cui visse Porfirio, nato a Tiro nel 233, approdato a Roma dopo aver studiato ad Atene, discepolo di Plotino dal 263 al 270, anno della morte del maestro. I libri di scuola ricordano Porfirio per l'”albero”, oggi al centro di studi semiotici, uno schema del rapporto tra generi e speci, e per le prime righe di quella stessa presentazione alle Categorie di Aristotele (che nel Medioevo avrebbe originato opposte posizioni logiche), in sostanza solo per un’introduzione (isagoge) scolastica. Qualche attenzione di recente si è avuta anche per opere di genere ascetico. Ma all’inizio del 2012, ovvero a diciassette secoli dalla battaglia del ponte Milvio che diede inizio all’ufficialità del Cristianesimo nell’Impero romano, acquistano un valore fondamentale le opere sulla magia, la teurgia, la teosofia e perfino la magia nera, ricavate da citazioni e frammenti, edite da Andrew Smith e per la prima volta tradotte in italiano nel volume Filosofia rivelata dagli oracoli. Questo è anche il titolo di un’opera che presenta l’idea centrale di Porfirio sull’argomento: esiste una verità rivelata, che non è quella del Cristianesimo, ma quella che nei secoli è stata trasmessa ad alcuni prescelti, senza distinzione di religione o sesso. Anticamente, come vuole Platone per esempio nel dialogo dedicato a Ione, i poeti erano ispirati dalle Muse, le profetesse invece (la Pizia come Diotima del Simposio) da Apollo, ma non si possono escludere i magi caldei, i gimnosofisti indiani, i sacerdoti egizi, perfino i profeti ebrei. Come determinare un ordine di importanza tra tutti?
Porfirio, perfettamente inserito nella tradizione platonica, non ha dubbi, la soluzione è nella lettura allegorica degli oracoli stessi, per poi passare alla teurgia, ovvero nell’arte sacerdotale di mettersi in contatto con le divinità, ascoltarne i messaggi ma anche poter ottenere favori e grazie. I rituali teurgici (minuziosamente descritti nelle pagine porfiriane) sono un inizio e un’iniziazione, che consente di entrare in contatto con i demoni buoni dell’Anima del mondo. A questi deve seguire una purificazione personale ottenuta attraverso ascesi e rinunce, che con lo studio razionale (teologia) permetterà di giungere a quella contemplazione del primo principio, cui lo stesso Porfirio disse di essere giunto una sola volta, quasi settantenne.
L’uomo avrebbe addirittura il potere di cambiare il proprio destino, interrompendo il ciclo di trasmigrazione delle anime (come già nella Repubblica di Platone) e trovando quiete nella contemplazione del l’Uno-Padre, il Dio che per sacrificio vuole solo «pensiero puro e silenzio puro» e che lascia statue (se pur in forma di potenti agalmata) e riti a coloro che sono ancora indietro nel percorso iniziatico e che hanno bisogno dell’aiuto dei numerosi abitanti dell’empireo romano, in tutto riproposto dal filosofo di Tiro. Tra i sette generi di divinità, dalle infernali alle celesti, e i demoni buoni e cattivi, colui che sa le cose divine, il teosofo, deve aiutare a distinguere la strada corretta, che è quella della filosofia. Anche per Platone e Plotino il filosofo era il vero amante, posseduto da Eros, sempre in cerca del bello, instancabile nella difficile ascesa al Principio.
L’ecumenismo di Porfirio non ebbe però fortuna, soprattutto per quella sua platonica convinzione dell’impossibilità per un uomo di essere anche Dio, e addirittura un Dio capace di far risorgere il corpo proprio e altrui. Così ora ricordiamo per un “albero” e una “isagoge” colui che probabilmente fornì ai primi teologi cristiani i termini per definire gli angeli (i demoni buoni) e addirittura una chiave di volta per affrontare il mistero della Trinità, con questo Padre-Uno che è anche Figlio-Pensiero e Vita-Potenza. Porfirio morì prima dell’editto di Milano, negli anni in cui a Spalato si spegneva l’ultimo imperatore pagano, poco prima che vicino al ponte Milvio Costantino raccontò di avere visto un segno nel nome del quale la vittoria sarebbe stata sua.

Alda Merini, talento indomito e precoce

febbraio 1, 2012

Alda Merini

Con i suoi versi trasfigurò l’ospedale psichiatrico: divenne rivelazione e sigillo di un destino di diversa

Daniele Piccini per “Il Corriere della Sera

Per parlare di Alda Merini è bene partire da un’ovvietà:prima che il manicomio battezzasse la sua follia, la Merini era già poetessa. Il suo destino di poeta non si determina con l’esperienza del ricovero, ma viene da lontano. Era nata a Milano nel 1931 insieme alla primavera, come ricorda in una poesia diVuoto d’amore; il padre faceva l’assicuratore, la madre la casalinga. A soli dieci anni vinse il premio Giovani poetesse italiane, ricevendo il riconoscimento dalla futura regina Maria José. Nella Milano della ricostruzione, adolescente, conobbe Giacinto Spagnoletti, che le aprì le porte del mondo intellettuale della città: lei che soffriva di non aver potuto completare gli studi entrò in rapporti con Maria Corti, Luciano Erba, David Maria Turoldo, Giorgio Manganelli. Con quest’ultimo intrecciò, ragazzina sedicenne (mentre lui aveva quasi dieci anni di più ed era già sposato), una relazione divenuta leggendaria, in seguito raccontata e messa in versi molte volte. Manganelli non era ancora lo scrittore affermato di poi, sebbene già prodigiosa fosse la sua erudizione, specie in letteratura inglese. Tanti anni dopo, dalle valigie di carte lasciate alla figlia Lietta, sarebbero emerse le sue poesie giovanili, dai toni così prossimi a quelle scritte dalla Merini degli inizi.

Già, le prime poesie. Spagnoletti intuì subito il valore della Merini e la inserì, quando ancora non aveva pubblicato quasi nulla, nella prestigiosa Antologia della poesia italiana (1909-1949), pubblicata da Guanda nel 1950. Fu ancora lui ad accogliere la sua raccolta d’esordio, La presenza di Orfeo (1953), nella collana che dirigeva da Schwarz. Sarebbero venuti di seguito i volumi Nozze romanePaura di Dio (entrambi del 1955) e Tu sei Pietro (1962). La prima Merini è mistica e pagana, tratteggia figure del mito e della religione con attenta cura retorica, in una lingua impastata di movenze classicheggianti. Sono poesie di tono lirico, non senza tratti barocchi, ispirate a una sorta di horror vacui, in cui si aprono spiragli di inquietudine e angoscia. Ad accorgersi, con la solita profetica capacità di lettura, degli indizi di un destino travagliato e tormentoso è Pier Paolo Pasolini, che della «ragazzetta milanese» scrive su «Paragone» nel 1954. Nell’articolo intitolato Una linea orfica, la Merini chiude il breve catalogo aperto da Girolamo Comi e Michele Pierri (che ritroveremo più avanti coinvolto nella vita della poetessa). Dopo aver parlato di «fenomeni patologici» ed essersi dichiarato disarmato «di fronte alla spiegazione di questa precocità, di questa mostruosa intuizione di una influenza letteraria perfettamente congeniale», Pasolini annota: «Uno stato di informità quasi di deformità irriflessa – passiva nel senso più attinente al suo sesso – ristagnante, arcaico, è quello in cui vive la Merini: e da cui, destata dall’inquietudine nervosa, dei sensi infelici, si genera una mostruosa voce maschile a definirlo. A definirlo, per essere esatti, “oscurità” e “attesa”».

Intanto Alda, dopo la fine del legame con Manganelli, si sposa nel ’54 con Ettore Carniti, una persona semplice, un panettiere. Mette al mondo le prime due figlie, Emanuela e Flavia. La difficoltà di far fronte ai propri compiti di madre e di moglie determina ben presto tensioni e liti. Durante una di queste, il marito la fa ricoverare all’ospedale psichiatrico Paolo Pini. La poetessa aveva già dato segni del suo disagio psichico, era stata in cura e in analisi. La scoperta del «manicomio» fu però un punto di non ritorno. Era il 1965: per quasi quindici anni, fino al 1979, fu un andirivieni dentro e fuori le mura dell’ospedale. Durante questo periodo dà alla luce altre due figlie, Barbara e Simona.

La sua poesia, si diceva, non nasce con l’ospedale psichiatrico. Piuttosto la poesia accoglie e rigenera quell’esperienza, la reinventa in forma di rivelazione, come sigillo del suo destino di «diversa» (in prosa ne scrisse appunto in L’altra verità. Diario di una diversa, 1986). La Terra Santa è il libro (uscito nel 1984, prima da Scheiwiller e poi in edizione ampliata da Lacaita) che fa del manicomio materia di canto: messa di fronte a un dolore oscuro e bruciante, la poesia levigata e arcana, sebbene inquieta, che era stata della Merini giovane cambia tono. Si assolutizza, si solleva e riadagia come un respiro affannoso, diviene perentoria, capace di rapidi scorci. Alcuni testi di questa raccolta costituiscono il vertice della sua produzione («Manicomio è parola assai più grande / delle oscure voragini del sogno» suona l’attacco del primo).

Questi anni vedono la morte di Ettore Carniti, il nuovo matrimonio con il più anziano medico e poeta tarantino Michele Pierri (1899-1988), il crescere dell’attenzione critica e giornalistica. L’appartamento di Ripa di Porta Ticinese 47, dove torna a vivere dopo la parentesi di Taranto, con i muri pieni di scritte, con oggetti accatastati ovunque, diventa un porto di mare. A iniziare la riscoperta della poetessa è l’antologia Testamento, curata nel 1988 da Giovanni Raboni per l’editore Crocetti, mentre a consacrarne la fortuna è quella di Maria Corti, Fiore di poesia, uscita da Einaudi nel 1998. In mezzo ci sono libri fortunati e importanti, come Vuoto d’amore (1991) eBallate non pagate (1995), entrambi presso Einaudi, e tante pubblicazioni occasionali e disperse. Molte altre raccolte di maggiore o minor pregio usciranno in seguito.

La Merini è ormai un’icona pop e tale resterà fino alla morte: viene invitata nei salotti televisivi, collabora con cantanti e musicisti, inchiodata dai mezzi di comunicazione al tipo del poeta folle, secondo un cliché limitativo ed equivoco. Lei un po’ accetta, un po’ subisce: è amata dal pubblico, invidiata da certi colleghi, sfruttata da chi vuol farne soprattutto un caso. Sa addomesticare folle ignare di poesia con una voce da oracolo, con una presenza scenica da primadonna, consapevole d’altra parte che la sua vocazione e il suo talento sono autentici. Tra le pieghe di una produzione sempre più fluviale (a volte dettata al telefono) si colgono ancora pagliuzze d’oro. Accade nei libri religiosi pubblicati da Frassinelli a partire dal 2000. Qui la forma ultima della sua poesia si tocca con gli inizi: il misticismo si libera di orpelli e frange e diventa voce pura, sospirante e misteriosa, capace di una castità di visione quasi fanciullesca.

Fiaccata dalla malattia, muore il primo novembre 2009 all’ospedale San Paolo di Milano, scendendo in «quel gorgo / di inaudita dolcezza», in «quel miele tumefatto e impreciso / che è la morte di ogni poeta».

L’apocalisse della cultura

febbraio 1, 2012

Henning Ottmann

Andrea Galli per “Avvenire

​Il prossimo convegno su “Gesù nostro contemporaneo” organizzato dal Comitato per il progetto culturale della Cei, che si terrà a Roma dal 9 all’11 febbraio, avrà una chiusa sui generis sul tema «Il Risorto, Signore della storia». Da una parte vi sarà infatti un vescovo anglicano, nonché uno dei principali esponenti dell’attuale ricerca sul Gesù storico, Nicholas Thomas Wright. Dall’altra parte non ci sarà un biblista o un teologo, ma un protagonista della filosofia politica di lingua tedesca, Henning Ottmann. Nato a Vienna nel 1944, primo presidente della Società Tedesca per lo Studio del Pensiero Politico, cattedratico fino al 2009 all’Università di Monaco, Ottmann è autore, fra le varie opere, di una poderosa Storia del pensiero politico dai greci ai nostri giorni in 9 volumi.

Professore, perché uno scienziato della politica può sentire il bisogno di confrontarsi con la figura di Gesù?
«Perché gli insegnamenti centrali di Gesù giocano ancora un grande ruolo nell’ambito di cui mi occupo. La pericope “Date a Cesare quel che è di Cesare…”, che da Agostino è passata attraverso il Medioevo fino a Lutero, costituisce ancora, a mio giudizio, una linea di demarcazione fondamentale tra religione e politica. Possiamo pensare anche al Discorso della montagna, il cui messaggio di non-resistenza e di amore per il nemico è stato criticato da molti, per esempio da Max Weber, come impolitico, ma che è stato sempre stato letto anche politicamente, per esempio dai movimenti pacifisti. Più in generale è facile notare come correnti di teologia politica attraversino nel ’900 sia la destra, vedasi Carl Schmitt, che la sinistra, dalla teologia della liberazione a Giorgio Agamben».

Quanto la nostra concezione del tempo resta segnata dal “Risorto, Signore della storia”?
«La concezione cristiana del tempo e della storia è stata ed è tuttora uno dei pilastri della cultura occidentale. Resta tale anche quando si cerca di liberarsi dal cristianesimo e di affermare una visione totalmente immanente. Lo si vede bene per esempio nella filosofia della storia di Lessing, di Hegel o di Marx. La storia non può più essere pensata ciclicamente come lo era dagli antichi greci. Tutti, atei compresi, la pensano orientata a un fine o a una fine. Anche i tentativi di sostituire il computo degli anni a partire dalla nascita di Cristo con altri calendari, come è avvenuto durante la Rivoluzione francese, sono sempre falliti».

Da questo punto di vista i processi di scristianizzazione non hanno delle ricadute?
«La scristianizzazione, che non è comunque un fenomeno globale ma riguarda principalmente l’Europa, non porta alla scomparsa della religione ma ad una sua persistenza sotto forme mutate, secolarizzate. L’attesa di salvezza viene riposta su tutto ciò che è possibile: il progresso, la tecnica, la scienza, fino alla trivialità dei consumi – l’idea di “paradiso degli acquisti” – e altri aspetti della vita quotidiana. D’altra parte, il bisogno di religiosità cerca nuove forme ed è una ricerca di senso dai tratti individualisti. Il filosofo canadese Charles Taylor ha messo tutto ciò in rapporto coi tratti espressionisti della cultura odierna. E se emergono continue attese di salvezza secolarizzate, emergono di continuo anche rappresentazioni apocalittiche secolarizzate, visioni terrifiche di una rovina del mondo a causa di un conflitto atomico, di una catastrofe climatica… Si potrebbe quasi dire che a ogni anno spetta la sua apocalisse».

Lei si è occupato molto di Nietzsche, cui ha dedicato due monografie. Pensa che la sua intuizione di un eterno ritorno dell’uguale conservi un potenziale di sfida alla visione cristiana, o pensa vada semplicemente vista come il parto di un intelletto surriscaldato?
«Filosofi come Nietzsche o Heidegger hanno cercato di sfuggire a quello sviluppo del pensiero che chiamiamo metafisica. Questo non è loro riuscito. L’eterno ritorno che Nietzsche voleva contrapporre alla rappresentazione cristiana della storia è, preso alla lettera, un terribile incubo, perché vorrebbe dire il ritorno non solo di ciò che consideriamo bene e di cui soffriamo l’allontanamento nel tempo, ma anche di ciò che è male: l’eterno ritorno vorrebbe dire anche l’eterno ritorno di Auschwitz. Rispetto alla visione cristiana del tempo e della storia l’eterno ritorno nietzscheano non offre alcune alternativa. Un eterno ritorno dell’identico che si scontra con la stessa logica, perché la successione nel tempo di due momenti esclude che l’identico possa ritornare».

Riflessi di un pensiero “anticristico”?
«Direi che nell’intensità della sua disperazione e della sua lotta con il cristianesimo, Nietzsche è stato probabilmente più “devoto” di molti agnostici. La sua visione di Cristo non è puramente negativa, il suo Cristo si avvicina al principe Myskin di Dostoevskij: anche lui un folle, ma, viene da pensare, un folle in Cristo».

Wilma: il mio patto segreto col Presidente Scalfaro

febbraio 1, 2012

La donna del necrologio enigmatico e una corrispondenza epistolare nata in oratorio

Niccolò Zancan per “La Stampa

Non è mai stata la segretaria del Presidente. Neppure una dama misteriosa: «Che stupidaggini, che modi di ricamare…». La signora Wilma non ama neanche la definizione di amica, nell’accezione più pura del termine: «L’amicizia è fra pari – spiega – mentre io e il presidente Oscar Luigi Scalfaro non lo siamo mai stati. Però ci siamo conosciuti quasi cinquant’anni fa. Era il 1963. Lui parlava all’oratorio salesiano di via Luserna. Il mio futuro marito organizzava l’incontro. Ed io, con molti altri, ero seduta fra il pubblico. Alla fine mi sono presentata. Le nostre famiglie si conoscevano già alla lontana. Gli chiesi in ricordo i suoi appunti, erano scritti su carta intestata a un convento di suore di clausura. Da allora siamo rimasti in contatto. Scrivendoci e telefonandoci, di tanto in tanto…».

La signora Wilma ha pubblicato sulla Stampa di lunedì un necrologio pieno di dolcezza. Per qualcuno troppo «femminile», addirittura «personalissimo». Sospetto, insomma.

Ecco le parole che hanno innescato il demone delle supposizioni: «Dopo una vita di grande affetto, profonda amicizia, stima, la mancanza è puro dolore, la speranza è nel nostro patto». Ed eccola qui, la signora Wilma in persona. Ci fa accomodare in un salottino pieno di libri e cornici. Cani di ceramica come fermaporte. Le finestre affacciate su un piccolo giardino inaspettato, nel cuore del quartiere operaio di San Paolo. «Nella mia vita ho insegnato ragioneria. Mio marito è un geometra in pensione. Ci amiamo ancora moltissimo. E purtroppo, pochi giorni fa, abbiamo scoperto che è gravemente malato». Non è una divagazione dolorosa. C’entra con il patto che la signora Wilma ha stretto con il presidente Scalfaro. «Risale all’inverno del 1992. Andai ad incontrarlo al Quirinale. Gli portai in dono i suoi appunti del 1963, incorniciati con una dedica. Lui disse: “Devono risalire ai tempi del tuo asilo”. Io risposi con un sorriso: “Un po’ dopo”. Lì, alla fine, ci siamo detti che ci saremmo rincontrati oltre al Quirinale, nell’unico posto che si può immaginare “oltre”. Ma il patto era questo: chi se ne sarebbe andato via per primo, si sarebbe preso cura dell’altro. Ed ecco perché, adesso, io lo prego di guarire mio marito».

Prima di inviarsi suppliche fino al cielo, si erano scritti lettere su temi molto terreni. Per esempio, il 25 febbraio 2011. Quando l’ex presidente Oscar Luigi Scalfaro rispose allo sfogo della signora Wilma, che si era appena ritrovata la casa svaligiata dai ladri: «Sono ammirato dalla vostra serenità e dalla capacità di trovare considerazioni evangeliche. Molto bravi! E coraggio sempre, in questo povero mondo che non pare sia capace di migliorare. Ma tutto è possibile a Dio, se noi facciamo bene il nostro dovere…». Il marito della signora Wilma è sempre presente nelle risposte, non è soltanto una formalità. Il 2 marzo del 2011, su carta intestata al Senato della Repubblica, Scalfaro scrive ancora di suo pugno: «Carissima grande amica, grazie! Lunedì 28 ho ricevuto la bellissima lettera, quasi diario di due sposi innamorati in giro per il mondo. L’ho letta subito attirato dalla prosa semplice, vivissima, conquistatrice. Mezz’ora di lettura affascinante e molto partecipata. Sei molto brava con la luminosità e la forza dei tuoi sentimenti… Che dio ti benedica e vi benedica. La Madonna ti porti il mio abbraccio». Era la risposta al resoconto di un viaggio negli Stati Uniti.

Ogni anno arrivavano gli auguri di Natale: «Dal vostro Oscar Luigi Scalfaro». Con «vostro» sottolineato cinque volte. Una dedica sul suo libro del 2006: «Con l’armonia e la gioia del Magnificat». Telegrammi alle ricorrenze: «Grazie di cuore per i graditi auguri che ricambio con affettuoso ricordo». La signora Wilma ha una scatola di legno piena di corrispondenza, la tiene fra le sue cose più care. C’è anche un santino elettorale per le elezioni politiche del 26 giugno del 1993, scheda azzurra, il simbolo della Democrazia Cristiana e i nomi: Rossi di Montelera, Scalfaro, Zolla, Pronzato.

Certe volte, invece, squillava il telefono, e lei riconosceva immediatamente la voce. «L’ultima volta, pochi mesi fa. Mi ha raccontato un aneddoto personale, ma parlava in terza persona. Era l’inverno successivo all’Otto Settembre. Era il ricordo di due sposini in barca sul Lago Maggiore. Faceva un freddo terribile, ma non lo sentivano. Non gli importava neppure della nebbia. Erano felici. Ma proprio quel giorno – e qui il presidente Scalfaro tornò a parlare in prima persona – gli arrivò il telegramma di suo padre. Gli annunciava un incarico da magistrato. Era la fine del suo viaggio di nozze».

La signora Wilma ha accettato di condividere i suoi ricordi a una condizione. «Il mio cognome non deve essere pubblicato. Non vorrei che sembrasse una mancanza di riguardo. In questi anni la mia conoscenza del presidente è già stata motivo di troppi commenti ingiusti, fra le persone che hanno saputo». Ma se lei non può essere definita un’amica, qual è il termine giusto? Silenzio. Un sospiro commosso. Poi dice: «Protetta. Una sua protetta. Intendiamoci, è una bruttissima parola. Ma qui non significa raccomandazioni o aiuti particolari, piuttosto vicinanza, affetto. Un prendersi cura con le preghiere e nei fatti, senza mai bisogno che io chiedessi. Ecco perché anche adesso, dal paradiso, io credo che il presidente non si sia dimenticato di me».