Archive for gennaio 2012

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gennaio 31, 2012

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gennaio 31, 2012

Israele la faccia tosta fa start-up

gennaio 31, 2012

I laureati sono in Israele il 45% della popolazione (in Italia il 15%)

È il Paese con la più alta densità di nuove imprese. Un libro racconta il miracolo e ne spiega le ragioni

Irene Tinagli per “La Stampa

Se si chiede ad alcuni dei più affermati imprenditori e investitori dov’è la nuova Silicon Valley, molti risponderanno: Israele. In effetti i dati sono sorprendenti. È il Paese con la più alta densità di start-upal mondo (una ogni 1.844 cittadini), un livello di investimenti di venture capitalche, nel 2008, era due volte e mezzo più alto di quello registrato negli Stati Uniti, 30 volte maggiore del livello europeo e 80 volte di quello cinese. Ed è il secondo Paese dopo gli Stati Uniti per numero di imprese quotate al Nasdaq. Per rendere un’idea: un numero che supera quello di tutte le imprese del continente europeo messe assieme.

Ma cosa c’è dietro il «miracolo economico» d’Israele? Alcuni economisti e studiosi stranieri lo hanno spiegato con le politiche economiche che hanno fortemente incentivato la ricerca e la nascita di aziende tecnologiche (Israele ha il più alto tasso di investimenti in ricerca e sviluppo del mondo), altri con le privatizzazioni e le liberalizzazioni intraprese nel 2003 da Netanyahu quando era ministro delle Finanze (e in particolare la sua riforma del sistema bancario), altri nell’enorme riserva di capitale umano del Paese, con il 45% della popolazione in possesso di istruzione universitaria (un dato invidiabile se confrontato con il 15% italiano). Ciascuno di questi fattori ha certamente svolto un ruolo importante nella crescita israeliana. Ma dipingono un quadro molto incompleto, che trascura il contesto storico e culturale di un paese che ha caratteristiche assai peculiari, elementi che ne hanno influenzato (e continuano a influenzare) la traiettoria di sviluppo. Chiunque abbia avuto modo di conoscere alcuni dei protagonisti di questa rinascita – per lo più giovani ingegneri, programmatori, imprenditori – si è certamente reso conto che il segreto del successo di queste persone non può essere semplicemente ascritto a una specifica politica industriale o economica, ma è legato a qualcosa di più profondo che pervade il loro modo di pensare e lavorare, di affrontare sfide e problemi.

Questo qualcosa è perfettamente descritto da Start-Up Nation , un libro Dan Senor e Saul Singer già pubblicato negli Stati Uniti, che ora esce in Italia, da Mondadori, con il titolo Laboratorio Israele (pp. 264, 18). Un insieme di analisi e racconti da cui emerge come le continue e enormi difficoltà che questo Paese ha dovuto affrontare abbiano forgiato il carattere e lo spirito della sua gente, e come ciascuno di questi ostacoli sia stato trasformato in punto di forza. Ed è questa prospettiva storica che ci mostra, per esempio, come un Paese sotto costante minaccia di attacchi terroristici abbia imparato a organizzare la propria vita economica e sociale in modo da non essere intaccata dalle vicende militari, diventando uno dei sistemi economici più produttivi e affidabili. E come la necessità di investire così tanto in difesa e di avere un’obbligo di servizio militare dai due ai nove anni per tutti i giovani israeliani (a cui vanno aggiunti 20 anni di riserva) sia stata trasformata in una straordinaria opportunità di formazione professionale e personale dei cittadini (l’esercito israeliano non solo ha tecnologie sofisticatissime, ma fa uso di sistemi di selezione, istruzione e formazione dei propri soldati efficaci come quelli di Harvard o Stanford).

Persino i frequenti boicottaggi di tutte le loro merci hanno svolto una parte, stimolando gli israeliani a dedicarsi ad attività e prodotti piccoli e immateriali come i software e le tecnologie legate alle comunicazioni e a Internet. Per non parlare del ruolo della loro lunga diaspora, che li ha resi cosmopoliti, pronti ad affrontare e adattarsi a qualsiasi contesto e, soprattutto, aperti all’immigrazione. Migliaia di rifugiati sono stati accolti in Israele: dagli etiopi in fuga dal regime antisemita di Mengistu Haile Mariam agli ebrei romeni scappati dal regime di Ceausescu. Per non parlare degli 800 mila ebrei russi che vi si riversarono dopo il crollo dell’Unione Sovietica (equivalenti a un sesto di tutta la popolazione israeliana dell’epoca). Eppure ognuna di queste persone ha ottenuto la cittadinanza lo stesso giorno in cui è arrivata in Israele.

Un complesso insieme di fattori che ha reso questo popolo tremendamente tenace, imprenditoriale e «problem solver». Esattamente quello che serve per competere oggi e per attrarre investimenti da ogni angolo del mondo. Può sembrare incredibile che gli investimenti stranieri in Israele siano triplicati negli stessi anni in cui sono aumentati gli attacchi terroristici. Ma come ha detto Warren Buffett quando ha investito 4,5 miliardi di dollari in un’azienda israeliana: non è importante se un missile distruggerà uno stabilimento. Lo stabilimento si ricostruisce. Quello che è importante è il talento dei lavoratori e dei manager, la loro affidabilità, la reputazione che si sono costruiti nel mondo. Ecco cosa attrae aziende come Intel, Google o Microsoft.

Le sfide per Israele non sono certo finite. Preoccupa il nuovo rallentamento dell’economia internazionale che si profila per il 2012. E preoccupano il recente apprezzamento dello shekel sul dollaro e le previsioni sull’inflazione. Ma se questo Paese riuscirà a tener vivo quello spirito che gli ha fatto trasformare ogni difficoltà in elemento di forza, è probabile che riuscirà ancora a farcela.

La strada rock d’America

gennaio 31, 2012

Leonardo Colombati per “Il Corriere della Sera

Bruce Springsteen. Il grande enciclopedista. L’uomo che ha preso sulle sue spalle il rock ’n’ roll agonizzante della metà degli anni Settanta e l’ha riportato all’innocenza e alla furia dei primi dischi di Bo Diddley, di Buddy Holly, di Eddie Cochran e di Elvis Presley, traghettandolo verso quel punk che si vorrà riappropriare di alcuni concetti chiave, del tipo: il contenuto vale più della forma, oppure: l’affronto di un assolo di batteria deve essere lavato con il sangue…

Bruce Springsteen, l’erede di una tradizione di bardi a stelle e strisce che parte da Walt Whitman e per ora si conclude con lui, «l’uomo che più di ogni altro detiene il cuore dell’America», come dice Bono… Bruce Springsteen — dicevamo — nei 62 anni trascorsi finora su questo pianeta ha fatto in tempo a scrivere mezzo migliaio di canzoni, a sposarsi due volte, a fare tre figli e a seppellire un padre prima odiato e poi amato, comunque sempre al centro della sua vita e della sua opera («Papà, adesso capisco le cose che intendevi ma non riuscivi a dire. / Ti giuro che non ho mai pensato di portartele via» canta in Independence Day). Ha visto dodici presidenti (da Truman a Obama), ha vissuto gli anni del Vietnam, della Guerra Fredda e dell’incubo nucleare, della crisi petrolifera e dell’ 11 settembre, delle guerre in Iraq e dell’avvento di un afroamericano alla Casa Bianca (uno che ha dichiarato: «Ho deciso di diventare presidente degli Stati Uniti perché non posso essere Bruce Springsteen»), e ora, col suo nuovo album Wrecking Ball — che uscirà a marzo — si è premurato di fornirci musica per la Nuova Grande Depressione, come già si può intuire da «We take care of our own» («La strada lastricata di buone intenzioni si è inaridita, / badiamo solo a noi stessi (…) / Da Chicago a New Orleans (…) / nessuno che ti aiuti, la cavalleria è rimasta a casa»), una canzone che è un altro capitolo dello studio springsteeniano sulle miglia che dividono la promessa americana dalla realtà americana.

Aveva 14 anni quando Oswald sparò a Kennedy, 19 quando uccisero Martin Luther King, 28 quando trovarono sulla moquette di Graceland il cadavere di Elvis, il primo re di quel rock che ha visto nascere e — probabilmente — morire, attraversandone tutte le mode. Ha guadagnato una quantità di soldi impossibile da contare, ha fondato e sciolto (e riformato) una lunga serie di gruppi dai nomi più o meno esotici — come non ricordare i fantomatici Dr. Zoom & The Sonic Boom? — coi quali, da quando ha 15 anni, ha suonato in ogni singolo bar, palestra, locale, teatro, palazzetto e stadio d’America, e poi fuori, dall’Europa all’Australia, con in mente l’idea folle e romantica che la musica possa salvarti letteralmente la vita. Ecco la Promessa…

Il fatto più sorprendente è che una volta che vai a vedere Bruce Springsteen in concerto ti accorgi di quanto quell’idea sia condivisibile! Quando sono in uno stadio, davanti al palco su cui di lì a poco salirà lui, so di essere al centro del mondo. In quel preciso momento, in nessun altro posto della Terra va in scena qualcosa di altrettanto significativo. Il 21 giugno 1985, allo Stadio Meazza di Milano, alle sette e mezza della sera, Bruce Springsteen urlò al microfono «one, two…» e si sentì rispondere «one, two, three, four» da un ruggito così potente da coprire le prime note di Born in the U.S.A. sparate da un’amplificazione da duecentomila watt. Era il primo grande concerto rock che si teneva nel nostro Paese da almeno un lustro, visto che dopo l’interruzione «proletaria» degli show di Lou Reed, dopo il palco di Santana dato alle fiamme, dopo il quasi linciaggio di Patti Smith a Firenze, nessuna rockstar s’era più azzardata a mettere piede sui nostri perigliosi lidi. Tutti, finalmente, quella sera (anche io, frastornato quindicenne), ebbero la sensazione esaltante che il rock, con tutto il suo potere liberatorio e catartico, stesse risorgendo attraverso la promessa che quel ragazzo col manico della sua Fender Esquire puntato verso il tramonto stava facendo a se stesso e a tutti noi cantando: «È una città piena di perdenti / e io me ne sto andando via da qui per vincere».

Cosa stava succedendo? Come era possibile che le pulsioni di fuga di un provincialotto del New Jersey (lo Stato che i newyorkesi chiamano «l’ascella d’America»), con quei panorami così esotici — highways su cui s’inseguono Buick e Cadillac, vicoli bui e strade secondarie in cui vanno in scena versioni hard-boiled di West Side Story, fra tramonti in frantumi e neon singhiozzanti — parlassero così bene (e in una lingua ai più sconosciuta) al cuore degli ottantamila di San Siro? E come era possibile che stesse parlando al mio?

La chiave era in una risposta che Springsteen dava spesso a chi gli chiedeva come si sentisse — dopo avere venduto 31 milioni di copie di Born in the U.S.A. — ad essere la più grande rockstar del mondo: «Essere rockstar è il premio di consolazione», spiegava. «Io volevo diventare un rock ’n’ roller». Ecco la Terra Promessa tante volte evocata nelle sue canzoni: un paradiso di romantiche estenuazioni, un on the road attraverso un paesaggio costruito con le scenografie dei film di Elia Kazan e popolato di giovani teppisti che ciondolano fuori dai diners coi capelli unti di Brylcreem e un pacchetto di Lucky Strike infilato sotto la spallina del giubbotto da motociclista; il Sogno Americano in cui, confusi, s’intravedono Elvis e Jimmy Dean, Brando e la sua banda di ragazzacci, Easy Rider e Il mucchio selvaggio, Roy Orbison che canta per i solitari e Robert Mitchum al volante sulla Thunder Road, magari nel bel mezzo di un’estate dorata che sfrigola tra la puntina e un 45 giri dei Beach Boys.

Certo, oggi è difficile per un ragazzino capire l’equazione rock = «Promised Land»: il mito del rock non è mai stato così in pericolo e le nuove generazioni sono state inesorabilmente portate a credere che la canzone popolare sia una delle molte forme d’intrattenimento e non — come era un tempo — una fonte primaria di conoscenza. Quando in Jungleland Springsteen, dopo aver dipinto il suo American Graffiticon le gang che si danno appuntamento sotto la grande insegna della Esso e «una ragazza scalza, sul cofano di una Dodge», che «beve birra calda sotto la soffice pioggia estiva», chiude causticamente con una strofa che è la Dichiarazione d’Indipendenza del rock ’n’ roll («I poeti, quaggiù, non scrivono niente su queste cose: / stanno alla larga e fanno finta di niente / e nel cuore della notte arriva il loro momento / e così cercano di fare un’onesta figura. / Ma finiscono feriti — nemmeno morti — / stanotte, nella giungla d’asfalto»), per poi lanciarsi in un liberatorio ruggito finale… Durante quegli attimi che paiono eterni, confuso tra decine di migliaia di persone col pugno alzato verso un meraviglioso cielo blu di Prussia bordato dall’alone dei mille soli dello stadio, ecco… Ho una furtiva idea, finalmente, di cosa sia la Bellezza.

È successo quel 21 giugno 1985, e da allora il miracolo si ripete sempre, malgrado gli anni (per me e per Springsteen) avanzino. Ecco perché il prossimo 7 giugno sarò di nuovo lì, sul prato di San Siro, a vedere il Boss. Come ha detto una volta Billy Joel, «se mi chiedessero di trasformarmi in un eroe del r’n’r andrei da un chirurgo con la foto di Bruce Springsteen».

Rousseau fra Cristo e i Lumi

gennaio 31, 2012

Ghislain Waterlot

Daniele Zappalà per “Avvenire

«Jean-Jacques Rousseau resta attuale perché ci ricorda che la dimensione religiosa dell’esistenza è propriamente umana. Non si può accantonarla così facilmente. E quando lo si fa, si compie un gesto violentissimo e dogmatico». Parola del noto studioso francese Ghislain Waterlot, che dal proprio osservatorio privilegiato svizzero all’Università di Ginevra ha scandagliato in profondità l’opera affascinante e controversa del celebre filosofo settecentesco. Moltissimo è stato scritto sul Rousseau padre degli ideali di uguaglianza e tolleranza, riconosciuto non a caso dopo la morte (2 luglio 1778) come uno dei maggiori ispiratori della Rivoluzione francese. Ma l’autentica novità delle commemorazioni di quest’anno, per il tricentenario della nascita (a Ginevra, il 28 giugno 1712), pare l’intensa riscoperta della riflessione religiosa del filosofo. «Essa non parte da Dio, ma dall’uomo, nel quale Rousseau scorge una dimensione d’attesa. Ciò interroga ancora perfettamente la nostra sensibilità», s’infervora Waterlot, che ha già pubblicato fra l’altro in Francia l’importante saggio Rousseau. Religion et politique (Presses Universitaires de France) e darà alle stampe quest’anno una nuova monografia sul pensiero religioso del filosofo.

Professor Waterlot, come spiega questa riscoperta? 
«C’è innanzitutto una ragione politica. Oggi, la laicità torna in discussione e Rousseau è fra i pensatori che hanno giudicato necessaria una religione civile per lo Stato. Non si riferisce alle religioni storiche esistenti, verso le quali resta diffidente o critico. Ma pensa ad una religione per la polis, una religione in cui è presente ciò che egli chiama la religione naturale, a cui aggiunge l’idea di valorizzare la patria. Egli riconosce un Dio per tutti gli uomini che chiede giustizia e pace, ma aggiunge poi che le leggi della comunità politica debbono ritenersi sante. La religione civile rafforza la società, ne preserva l’unità, ma evitando un’eccessiva aggressività verso le nazioni vicine. Al contempo, nella sua concezione della religione naturale, egli si distingue per la grande attenzione riservata a Gesù. Rousseau è un cristiano molto particolare, che non crede nell’Incarnazione e nella Resurrezione. Ma che non cessa di ripetere: “sono cristiano, un cristiano autentico e sincero”».

In che modo interpreta Gesù?
«Gesù è al di sopra di tutti gli uomini mai esistiti. Confrontando Gesù e Socrate, egli scrive nell’Emilio: “Se la vita e la morte di Socrate sono di un saggio, la vita e la morte di Gesù sono di un Dio”. Egli non dice “di Dio”, ma “di un Dio”. Altri hanno spesso considerato Gesù e Socrate sullo stesso piano, ma non Rousseau. Gesù corrisponde a un’umanità non corrotta dalla realtà sociale e dalla storia umana. Gesù è l’uomo perfetto, per questo particolarmente amato da Dio».

L’uomo, per Rousseau, può sentire intimamente la presenza di Dio?
«La percezione di Dio è legata a un “istinto divino” che si trova in ciascuno di noi. È un aspetto essenziale. Sentiamo Dio. In proposito, non si deve sottovalutare che Rousseau ha sempre preso cura di una certa vita spirituale, come mostra in particolare “Giulia o la nuova Eloisa”. Il personaggio di Giulia prova il bisogno di rivolgersi al Grande Essere. In lei, Rousseau valorizza la preghiera, ma quest’ultima non deve mai divorare la vita. La vita deve restare in primo piano, anche se la preghiera permette di porre l’individuo davanti al Creatore, facendogli ritrovare la pace».

Qual è il suo rapporto con il Vangelo?
«Il Vangelo occupa un posto speciale. Egli lo legge e rilegge. È la guida per chi vuol vivere secondo giustizia e come Dio ha voluto. Egli scrive che è il più bel libro che abbia mai letto. Che se dovesse averne uno solo, sarebbe il prescelto. Ma aggiunge che il Vangelo resta un libro e che non può sostituire la voce della coscienza. È una visione particolare. Inoltre, Rousseau è molto critico verso i miracoli, sostenendo che Gesù non volle farne e che furono i suoi interlocutori a vederne dappertutto. In questo, prende Pascal in contropiede, ritenendo che si può avere la fede solo togliendo i miracoli».

Rousseau sognava di riformare il cristianesimo senza ammetterlo?
«Penso di sì. Del resto, talora lo confessa quasi. In certe lettere, scrive: “Nella nostra epoca, non c’è più un solo cristiano sulla terra”, probabilmente vedendosi un po’ come l’ultimo, come il vero discepolo di Cristo del tempo. Rousseau nasce nel protestantesimo, poi a 16 passa al cattolicesimo, a Torino. Quindi, nel 1754, torna a Ginevra e alla confessione riformata. Ma i pastori e la città di Ginevra lo respingono dopo la pubblicazione delContratto sociale e dell’Emilio. Per Rousseau, Dio è creatore e occorre riconoscerlo come centrale, ma non è trinitario. Nella vita, l’essenziale è avere una buona condotta morale, mentre le condotte dogmatiche della Chiesa sono deboli. Egli si posiziona al di là delle confessioni».

Pur essendo un grande difensore della tolleranza, Rousseau rifiutava l’ateismo. Un paradosso?
«Egli rifiuta l’ateo, innanzitutto, considerandolo alla stregua di un indifferente. In fondo, per Rousseau, è ateo chi ragionando trova argomenti contro l’esistenza di Dio. Al riguardo, Rousseau non nega che tali argomenti esistano, accanto a quelli che tendono a provare l’esistenza di Dio. Ma in fondo, gli atei sono talmente assorbiti dai loro ragionamenti da soffocare la voce della coscienza. Vi è poi una seconda critica, più sociale. L’ateismo è una convinzione dei benestanti, di coloro che snobbano la miseria altrui. Essi dimenticano che il cristianesimo è innanzitutto attento a chi soffre, un punto che per Rousseau è fondamentale».

Miracolo, ora Gesù va bene anche agli ebrei

gennaio 31, 2012

Un libro controcorrente, scritto da Rav Shmuley Boteach, racconta un Messia patriota e molto devoto alla legge mosaica. E sui giornali di Gerusalemme scoppia la polemica

Vittorio Dan Segre per “il Giornale

Nel 1954 ebbi occasione di intervistare l’ambasciatore, accademico di Francia, Paul Claudel. Alla fine dell’incontro sapendo che venivo da Israele mi disse: «Ora che gli ebrei hanno uno stato daranno la cittadinanza a Gesù mettendo fine alla sua situazione di “apolide” tanto per gli ebrei che per i cristiani».

Mi sono ricordato di questa ormai lontana conversazione leggendo sulla stampa israeliana che un rabbino sta per pubblicare un libro dal titolo Kosher Jesus. Kosher è un termine ebraico che indica che l’uso di qualcosa – specialmente nel campo del cibo e della cucina – è religiosamente permesso.

Il rabbino in questione è tutt’altro che uno sconosciuto. Si chiama Shmuley Boteach e di lui si è parlato come possibile rabbino capo d’Inghilterra, una carica di grande prestigio che generalmente è accompagnata dalla concessione del titolo di Lord da parte del monarca britannico. Ma Boteach, oltre che grande oratore e un personaggio televisivo di successo, è famoso per i libri che ha pubblicato. Sollevano scandalo nel mondo ebraico non tanto per il loro contenuto, sempre strettamente canonico, quanto per gli argomenti scabrosi che tocca. Come un testo che ha avuto grande risonanza intitolato Kosher sex, una specie di Kamasutra ebraico.

Kosher Jesus avrà di certo una simile rinomanza ma rischia di procurargli molti guai nel mondo ortodosso ebraico dove la questione di Gesù continua a essere, per molti, un tabù anche se in merito sono stati scritti molti libri, soprattutto per smentire la responsabilità della sua morte, sino a non tantissimo tempo fa addossata dalla Chiesa al popolo ebraico.

Una delle tesi di Rav Boteach è che dal momento che i cristiani non considerano più gli ebrei come dei nemici è giunta l’ora per gli ebrei di riconoscere quello che Gesù è storicamente stato: un patriota devoto alla Legge ebraica. «I Vangeli danno una descrizione abbellita di Gesù e non si deve dimenticare che l’apostolo Paolo non l’ha mai incontrato.

D’altra parte il fatto che Gesù si sia proclamato Messia (Cristos in greco) non deve turbare gli ebrei dal momento che non c’è nulla di blasfemo in questo. Io stesso – dice – potrei farlo e ho spesso incoraggiato persone a sviluppare un senso messianico nella loro vita, un desiderio di salvare il mondo». Il libro di Boteach creerà senza dubbio molte critiche e discussioni. Ma a questo rabbino le discussioni piacciono. «Ho passato tutta la mia vita fra i critici e il Talmud dice che si impara di più dai critici che dai propri tifosi». L’idea cristiana della divinità di Gesù è secondo lui – emersa come una delle conseguenze della distruzione del Tempio di Gerusalemme per mano di Tito nell’anno ’70. Quando gli ebrei lo comprenderanno – dice – allora «potranno trarre ispirazione dagli insegnamenti etici di Gesù, in quanto devoto ebreo martirizzato per il suo sforzo di sollevare il giogo dell’oppressione romana dal suo amato popolo». I cristiani, dice ancora, sono oggi i nostri migliori amici. È necessario aprire con loro una discussione teologica. Come si può avere un relazione con un amico se non si può parlare della cosa più importante nella sua vita e del più famoso ebreo che è mai vissuto? Per lui Gesù è «un rabbino modello».

Una affermazione per la quale in America molti lo ammirano, altri lo considerano un personaggio arrogante. A lui questo non importa.

Importa invece che Papa Benedetto XVI abbia chiesto una sua fotografia autografata. Così almeno scrive in un suo libro.

Antimoderno ma illuminato: il cattolicesimo di Maritain

gennaio 31, 2012

da “il Giornale”

Nell’opera di Jacques Maritain trovò saldo approdo filosofico tutta la tensione accumulata della cultura cattolica francese ottocentesca e del primo ‘900. Già significativa è la parabola delle scelte e delle svolte del suo pensiero: socialista in gioventù, si avvicinò allo spiritualismo di Bergson, accompagnato da un Charles Péguy non ancora approdato al cristianesimo degli ultimi anni. Poi incontrò lo scrittore cattolico più furioso d’Europa, Léon Bloy, che lo convertì alla Chiesa di Roma e gli fece da padrino di battesimo. Tutte esperienze che Maritain condivise con la moglie Raissa, compagna di vita e di studi veramente complementare, dato che lei si dava alla poesia e alla mistica e lui alla scienza e alla filosofia.
Il pensiero moderno secondo Maritain (Città Nuova, pag. 266, euro 18), primo di due volumi firmati da Piero Viotto (il secondo, dedicato al pensiero moderno, uscirà in febbraio) illustra la storia della filosofia secondo questo illustre convertito. Ovviamente l’interpretazione che diede del lavoro dei suoi predecessori fu di parte, schierata, militante. In principio si proclamò «antimoderno» e rilanciò il Tomismo per rispondere alle sfide poste da umanesimo, illuminismo, idealismo, marxismo e infine nichilismo. Il pensiero di San Tommaso, quello ufficiale della Chiesa, doveva attrezzarsi per combattere senza complessi di inferiorità tutti gli «ismi» moderni. Maritain non era però un reazionario nostalgico della «cristianità sacrale» del medioevo, secondo lui occorreva semmai risvegliarne e difenderne le positività, nella piena accettazione del sistema democratico. Convintamente antifascista, teorizzò nella sua opera più famosa, Umanesimo integrale del 1936, il dialogo con i marxisti. Nella grande cristianità che ormai oltrepassava i confini della Chiesa cattolica, i comunisti guadagnarono così un posto di rilievo; soprattutto in Italia, dove il Maritain politico ha ispirato non poco Dossetti e tutta la sinistra Dc dai tempi della Costituente fino alla nascita dell’Ulivo. Sui marxisti prese un abbaglio, come fu constatato dal suo più lucido allievo italiano, Augusto Del Noce: la rivoluzione infatti finiva per suicidarsi nel nichilismo, il Pci diventava «partito radicale di massa». Nessun umanesimo integrale in vista, anzi un umanesimo disintegrato, un relativismo intrinsecamente anticristiano. Il filosofo francese tornò un po’ antimoderno in vecchiaia, quando nei panni letterari del «contadino della Garonna», criticò gli eccessi liberali del Concilio Vaticano II, al cui confronto tutta la polemica modernista dell’800 gli sembrava un «modesto raffreddore da fieno». Se tale era la situazione all’interno della Chiesa, non c’era da star tranquilli per quello che stava succedendo fuori. Trionfava infatti l’influenza di quelli che chiamò i tre «falsi riformatori»: Lutero, Cartesio e Rousseau, veri padri delle disgrazie del pensiero occidentale, dalla separazione fra anima e corpo alla statolatria.

Elie Wiesel: «Volevo l’eutanasia, mia moglie mi ha salvato»

gennaio 31, 2012

Elie Wiesel

Lorenzo Fazzini per “Avvenire

La forza incoercibile della vita, la sua passione che batte in un cuore squarciato dal male del mondo e dal dolore personale. Elie Wiesel, il premio Nobel per la letteratura (correva l’anno 1986), racconta il suo ritorno nel mondo dei vivi dopo un’operazione a cuore aperto (questo il titolo del suo ultimo racconto, appena uscito in Francia,Coeur ouvert, Flammarion) che il 16 giugno dello scorso anno l’ha messo davanti, in maniera indefettibile, alla prospettiva della sua fine terrena. Da qui sono scaturite queste pagine di profonde riflessioni, incursioni teologiche, verità svelate.
Come quella che l’autore dell’indimenticato racconto La notte (Giuntina) offre all’inizio del volumetto: Wiesel confessa di aver desiderato e voluto espressamente l’eutanasia, chiesta con insistenza alla moglie Marion. La quale però non diede corso alla domanda del marito. Scelta di vita e di speranza di cui lo scrittore ebreo ora ringrazia profondamente la donna cui è legato. Scrive: «A metà gennaio 2011 ero in Florida con mia moglie. Mi sono ammalato: i medici mi hanno diagnosticato una doppia pneumonia e imposto una settimana di ricovero. Ma dopo quattro giorni la mia situazione sembrava peggiorare. Ho domandato a Marion di fare non importava cosa, anche l’impossibile, per mettervi fine. Ella è riuscita a convincere i medici spiegando che rischiavo la depressione e che bisognava assolutamente trovare il modo di ricoverarmi in hotel». Già solo il cambiamento di sistemazione nella degenza permette allo scrittore di superare lo scoglio della depressione e del desiderio di “farla finita”.
Ma è l’intreccio tra la situazione personale del Wiesel malato di cuore (condizione scoperta improvvisamente l’estate scorsa e che ha necessitato di un intervento chirurgico d’urgenza a New York) e quella del Wiesel sopravvissuto ad Auschwitz ad avvincere in queste smilzo ma altrettanto eloquente libro. Perché quanto visto nei lager nazisti e quanto sperimentato nell’improvvisa ipotesi di abbandonare i propri cari per mano medica, entrambe le situazione hanno posto Wiesel di fronte a Dio con una domanda diretta: «Perché? Perché questa malattia? Questi dolori? Per che cosa li ho meritati? […] In verità, per l’ebreo che io sono, Auschwitz rappresenta una tragedia umana ma anche – e soprattutto – uno scandalo teologico. Per me è un fatto innegabile: è impossibile accettare Auschwitz con Dio né senza Dio. Ma allora come comprendere il Suo silenzio?».
E se è nota la risposta del Wiesel narratore ne La notte rispetto all’”impossibile” domanda («Dov’è Dio [ad Auschwitz]? Eccolo là appeso ad una forca», riferito ad un bimbo impiccato dai nazisti), anche il Wiesel post-operatorio resta un credente purificato dalla prova: «Io ammetto di essermi messo contro il Signore, ma non l’ho mai rinnegato. Rivendico il grido di Geremia nelle “Lamentazioni” quando evoca la distruzione del primo Tempio di Gerusalemme: “Tu hai ucciso i tuoi figli senza pietà! Tu hai assassinato il tuo popolo senza compassione!”. Commenta il Nobel: “Cosa? Dio un assassino? Certo, tra noi sopravvissuti, alcuni hanno protestato contro il silenzio divino! Ma nessuno ha avuto l’audacia di chiamare Dio “assassino”!».
Ancora una volta però Wiesel riesce, con un colpo d’ala narrativo, a sbrogliare la matassa di un coacervo di posizioni che rappresentano lo scandalo religioso per eccellenza, il dolore umano. È l’innocenza di suo nipote a proporgli (e a donare a noi lettori) la chiave interpretativa risolutiva, che costituisce anche una sorta di grande ponte tra l’esperienza ebraica dell’autore e quella universale di ogni uomo, credente o meno (naturalmente, i cristiani potrebbero porsi in prima fila nel condividerlo). Elijah, dunque, il nipote prediletto del vecchio Elie, si avvicina al nonno: «Nonno, tu sai che io ti amo; e io so quanto tu stai soffrendo. Dimmi: se io ti amo di più, tu soffrirai meno?». E la conclusione di Wiesel sembra una vera dichiarazione teologica: «In quel momento, ne sono convinto, Dio contempla la Sua creazione sorridendo».

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gennaio 30, 2012

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gennaio 30, 2012

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gennaio 30, 2012

Sei solo chiacchiere e distintivo..

gennaio 30, 2012

Stefano Levi Della Torre. “Vivere consapevolmente di illusioni ecco la lezione di Leopardi, mistico laico”

gennaio 30, 2012

Stefano Levi Della Torre

Franco Marcoaldi per “la Repubblica”

Il luogo d´incontro con Stefano Levi Della Torre non è irrilevante. Perché la passeggiata che precede la nostra conversazione, un lento periplo di questo fascinoso borgo del viterbese costruito sul tufo, raffigura plasticamente il senso del successivo periplo attorno all´inafferrabile quanto imprescindibile concetto di verità. E proprio un intellettuale irregolare come Levi Della Torre sembra essere la persona più indicata a compiere tale genere di esercizio.
Leggendo le sue scarne note biografiche, si scopre che è pittore e docente a contratto della Facoltà di Architettura di Milano. Ma prima ancora, direi, è un uomo che ama pensare, sempre pronto a indagare il lato rovescio di ogni questione. Una lezione, questa, che gli viene dalla sua origine ebraica e da una lunga frequentazione del Talmud. Dal quale ha anche imparato a praticare l´ironia e il paradosso, come si evince già dal titolo del suo ultimo, acutissimo saggio in uscita per Einaudi: Laicità, grazie a Dio.
Se è d´accordo, comincerei dall´idea di verità che ci viene dal vocabolario, dove si afferma che «il vero» risponde alla «realtà effettiva delle cose». Insomma, verità e realtà marciano di pari passo.
«Io direi così: la verità è una realtà orientata, dotata di senso. La realtà, di per sé, può apparire come qualcosa di inerte; è la verità a offrirle orientamento. La verità, dunque, non è una semplice constatazione, anche perché in tal caso risulterebbe illusoriamente istantanea, mentre ha una pretesa di durata.
La mia polemica con i postmodernisti nasce da qui: concentrano la loro attenzione esclusivamente sull´interpretazione, lasciando da parte la realtà. Ora, è del tutto evidente che noi umani siamo condannati all´interpretazione, ma su cosa gravita quell´interpretazione? Qual è il suo baricentro, se non la realtà? Interpretazione di cosa, se non di fatti veri o presunti? Tutto questo per dire che possiamo sì volare liberi con le nostre interpretazioni e fantasie, ma restiamo comunque soggetti alla forza di gravità dei fatti, che prima o poi ci chiedono il conto».
Potremmo dunque dire che, tanto per cambiare, la nostra ricchezza e la nostra povertà sta nel linguaggio?
«Certamente, perché grazie ad esso facciamo in modo che la realtà ci parli, ci dica delle cose, mentre per contro può anche accadere che un´interpretazione si spinga talmente in là da sembrarci più reale della realtà. Finendo così nell´ideologia. E´ la questione affrontata da Andersen nella sua fiaba Il vestito nuovo dell´imperatore. Nella prima parte del racconto assistiamo al trionfo dei tessitori imbroglioni, che dicono di tessere un tessuto meraviglioso, ma invisibile. Mentre in realtà non tessono nulla. Così l´imperatore si pavoneggia in mutande tra ali di una folla ammirata che inneggia al suo abito regale, non sentendosela di infrangere una credenza creata ad arte da una convenzione linguistica. Fino a quando interviene un bambino che dice la semplice verità: il re è nudo. Ecco, i postmoderni, affermando che non esistono i fatti ma soltanto le opinioni, si sono rassegnati alla realtà del linguaggio, rinunciando al linguaggio della realtà».
Resta però che la verità non si dà mai una volta per tutte.
«E difatti Bloch, con estrema perspicacia, distingue tra conoscere e comprendere, in apparenza sinonimi, mentre nascondono una divaricazione. Perché il conoscere, cioè l´addentrarsi nello sconosciuto, ci mette in crisi, scombina le nostre conoscenze precedenti, mentre comprendere significa sistemare, fissare tutto dentro una cornice precisa. Un´operazione, beninteso, necessaria, ma allo stesso tempo rischiosa, perché indicativa di un meccanismo di autoconservazione. Questa del resto è l´inevitabile parabola di ogni ideologia, che nasce come istanza di liberazione, e poi invece, pian piano, si irrigidisce rendendosi indisponibile a nuove forme di conoscenza».
Nel suo libro ci sono pagine molto polemiche verso Richard Rorty, uno dei padri del postmodernismo. Ce ne spiega i motivi?
«Cosa fanno i pensatori come lui? Volendo contraddire le pretese autoritarie della verità, giungono a prediligere le pretese autoritarie dell´opinione. Niente di più confacente al populismo autoritario, al prevalere della propaganda sulla scienza. La verità finisce per combaciare con ciò in cui si crede, diventa un atto di fede. Così questa caricatura della laicità e del relativismo più radicale si trasforma in un´apoteosi dell´assoluto, nel miglior alleato del fondamentalismo religioso: ciascuno ha le proprie convinzioni e nessuno ha il diritto di interferire in esse.
Per non parlare poi di quell´altra solenne sciocchezza in base alla quale non esisterebbe la natura umana, ma soltanto la cultura. Con la pretesa di combattere ogni potere – politico o religioso – che giustifica la sua presenza come se fosse dettata dalla natura, si finisce per escludere la natura dalla storia. Si finisce per dimenticare Darwin e per sposare inconsapevolmente l´idealismo, che, cacciato dalla porta, rientra dalla finestra. La concezione della storia come puro atto umano indipendente dalla natura mi ricorda la nostra percezione ingannevole delle città: vediamo le luci e ci dimentichiamo che sotto ci sono le fogne, dove scorre l´enorme flusso del metabolismo umano. Dietro la storia ci sono le sue materie prime, ci sono corpi che agiscono secondo i meccanismi ripetitivi e universali della natura umana. Negarlo è uno dei tanti modi per edulcorare la realtà, per ammansire la caoticità del mondo».
Proviamo a riordinare le idee: la ricerca della verità procede attraverso il dubbio, la lotta contro la censura, la credenza, l´edulcorazione della realtà…
«A questo punto, però, voglio ricordare un passo di Leopardi in cui si dice che ci sono dei filosofi talmente illusi da pensare che bisogna distruggere le illusioni. Straordinario, no? Ecco così che le cose si complicano ulteriormente. Perché non c´è niente da fare: anche il nostro desiderio di senso è in qualche modo falsificante. Il bambino, ad esempio, stabilisce che una certa pianta vuole bene a una certa pietra che vuole bene a un certo animale…. Questa teatralizzazione del mondo è fisiologica, attiene alla sopravvivenza umana. Ma appunto, è un´illusione. Del resto, volendo addentrarci ulteriormente nel labirinto: cos´è l´antropologia se non lo studio delle illusioni umane, le quali a loro volta rappresentano una concretissima realtà sociale? Così il circolo ricomincia e ricomincia anche la nostra ricerca della verità».
Per questo lei afferma che non possiamo mai arrivare alle verità ultime, definitive. Kafka affermava che siamo «abbagliati» dalla verità. «Vera è la luce sul volto che arretra con una smorfia, nient´altro». Ecco perché la verità risulta inafferrabile, insondabile, abissale.
«E sono totalmente d´accordo con lui. Tant´è che, da laico, non obietto alla religione di essere troppo metafisica, ma di esserlo troppo poco. Perché pretende di dare un volto definitivo a quell´abisso. I veri, grandi mistici laici del moderno sono proprio Leopardi e Kafka. Perché accettano l´abisso e ci sprofondano dentro. Senza riempire il mistero di parole volte ad addomesticare quell´abisso, per addolcirne l´angoscia. Senza tradurre la vertigine dell´insondabile in liturgie consolatorie. Freud sosteneva che si investono più energie nel ripararsi dagli stimoli che nel riceverli. Ecco, le religioni costruiscono delle formidabili fantasmagorie proprio per incistare lo scandalo del caos, per dare senso alla realtà e al contempo ripararsi da essa».
Mentre lei parlava, mi è venuto in mente un aforisma di Canetti che suona più o meno così: non si può tenere a guinzaglio la verità. La verità è come un temporale che spazza l´aria e poi va via. Cosa ne pensa?
«Provo a risponderle riprendendo quanto dicevo all´inizio: la ricerca della verità è la storia della nostra gravitazione verso la realtà, nello sforzo di dare ad essa un senso, riconoscendo però in questa ricerca tanto il tratto vitale quanto la sua necrosi, perché il senso è inevitabilmente transeunte. Ma la verità opera anche in un altro modo, come vera e propria rivelazione. E accade allora che si finisca per coglierla con la coda dell´occhio, di straforo, quando un improvviso cortocircuito, una breccia si apre mettendo in subbuglio il nostro sistema codificato delle cose. Un po´ come con le due dita di Dio e Adamo dipinte da Michelangelo, che inaspettatamente si incontrano e producono una scossa: quanto era separato, ora, trova il suo nesso. Si è rotta una crosta e si è creato un nuovo contatto tra soggetto e realtà, magari impedito proprio dal precedente conferimento di senso, dalla precedente idea di verità, che è diventata essa stessa un´istanza di pregiudizio».

Diritti Globali

L’antisemita e l’arciebreo

gennaio 30, 2012

Carl Schmitt

Giulio Busi per “Il Sole 24 Ore

Già nella prima scena è chiaro quello che attende gli spettatori: «Quando sento la parola “cultura”, tolgo la sicura alla mia pistola», esclama un attore con fare provocatorio. La pièce diverrà nei mesi seguenti un grande successo, con centinaia di repliche. Anche la frase sul revolver farà fortuna, tanto da essere attribuita, di volta in volta, a Hermann Göring, a Himmler o a Goebbels, come sigillo retorico del disprezzo nazista per gli intellettuali.

Il 20 aprile 1933 Hitler compie 44 anni, e per celebrare l’evento va in scena, alla presenza del Führer appena salito al potere, uno spettacolo agiografico sul martire proto-nazista Albert Leo Schlageter, che i francesi avevano impiccato per sabotaggio nella Ruhr dieci anni prima. A ben guardare, la pistola ammazza cultura è innanzitutto un simbolo del tradimento da parte degli intellettuali tedeschi. L’autore della pièce è infatti Hans Johst, drammaturgo di mestiere, con un rispettabile passato espressionista, non un rozzo attivista ma un letterato colto.
Al pari di Johst, buona parte delle teste pensanti della Germania fu ben felice di gettarsi nelle braccia dei nazisti, quasi sempre in cerca di vantaggi personali, per opportunismo, per rivalsa o debolezza. Anche i grandi furono lesti a metter da parte i dubbi, a vincere il disprezzo che avevano provato fino al giorno prima per le ridicole pose di Hitler e a farsi adulatori, strateghi e teorici del nuovo regime. I due massimi esempi di questo tragico coinvolgimento con la dittatura sono il filosofo Martin Heidegger e il giurista Carl Schmitt. Se Heidegger lavorò attivamente, nel 1933, alla riforma dell’università tedesca in senso nazista, Schmitt, che durante la repubblica di Weimar si era mostrato assai scettico verso le camicie brune, fu poi presidente dei giuristi nazisti e corifeo dell’antisemitismo. Per entrambi, nel 1945, giunse il tempo della resa dei conti. Ma fu un redde rationem molto blando. Dopo qualche traversia amministrativa, Heidegger riacquistò le sue prerogative all’università di Heidelberg (con la nomina a emerito nel 1951). A Schmitt, che era più compromesso, andò un po’ peggio: fu internato per un anno, spedito a Norimberga come potenziale imputato e poi rilasciato. Non poté però tornare all’università, e visse fino alla morte, nel 1985, a Plettenberg, in Vestfalia. Né dall’uno né dall’altro venne mai una ritrattazione, un mea culpa esplicito. Solo un paio di ammissioni a mezza bocca, unite a una dose generosa di autocommiserazione, in ossequio a quello che sembra esser stato il motto della generazione invischiata nel nazismo: tacere, tacere, e ancora tacere, e, nel caso, compatirsi.
Le conseguenze di questo silenzio hanno pesato per decenni sulla società tedesca, e solo molto lentamente il rapporto tra intellettuali e dittatura è divenuto argomento di dibattito. Tra i primi ad aver affrontato la questione senza pregiudizi, e anzi con una buona dose di anticonformismo, fu Jacob Taubes, fondatore della giudaistica a Berlino nonché maitre à penser del movimento di protesta del ’68. Taubes, che proveniva da un’importante famiglia ebraica (suo padre fu rabbino capo di Zurigo) era un personaggio sanguigno e impulsivo, con una predilezione per i corti circuiti del sapere. Esercitava un grosso ascendente sugli studenti, e se ne serviva per scuotere le coscienze e per infrangere le buone maniere.
Già negli anni immediatamente successivi alla Seconda guerra mondiale, Taubes si era interrogato sull’oscura dinamica della cultura tedesca. «Che Carl Schmitt e Martin Heidegger abbiano accolto la rivoluzione nazista, anzi vi abbiano preso parte attiva, resta per me un problema che non riesco a spiegare semplicemente come “infamia” o “porcata”». Così scriveva Taubes a un amico nel 1952, quando era giovane allievo di Gershom Scholem a Gerusalemme. «Ho davanti a me una frase di Schmitt: “il Führer protegge il diritto”, e non posso darmene ragione – continua Taubes – Da dove proveniva la seduzione del nazionalsocialismo? Che il mondo liberal-umanistico stesse andando in frantumi era un motivo sufficiente per cadere nelle braccia dei lemuri?». Anziché mantenere la questione su di un piano puramente teorico, Taubes cercò un confronto diretto con i “colpevoli”. Nel 1955 si rivolse a Schmitt, e nacque così un lungo scambio epistolare, durato un quarto di secolo. Le lettere vengono ora pubblicate per la prima volta per intero, e gettano luce sul dialogo tra due personalità che la storia avrebbe dovuto separare irrimediabilmente. Il cammino che unisce l’antisemita Schmitt e l’«arci-ebreo» Taubes (come egli stesso ebbe a definirsi) è spesso accidentato e tortuoso. Taubes è affascinato dalla lucidità del l’opera di Schmitt, e al tempo stesso consapevole delle responsabilità del suo interlocutore. Ma, ed è questa la scelta decisiva, evita di pronunciare un giudizio sull’uomo Schmitt, che sarebbe inevitabilmente di condanna. Si avventura invece, nelle proprie missive (sia in quelle effettivamente spedite sia in quelle, interessantissime, rimaste in forma di abbozzo), in una perlustrazione del dissesto della ragione tra la fine degli anni Venti e i primi Trenta. Schmitt gli appare come il brillante cronachista di un naufragio, colui che ha compreso la crisi della visione laica del mondo, e ha cercato di sostituirle una «gerarchia dei significati» di derivazione simbolica.
In un abile parallelo tra Walter Benjamin e Schmitt, Taubes vede l’uno e l’altro come profeti di una svolta teologica del XX secolo: Benjamin intento a costruire febbrilmente la sua improbabile teologia marxista, e Schmitt apologeta di una teologia reazionaria. Del resto è noto che, nel 1930, Benjamin riconobbe il proprio debito intellettuale verso Schmitt in una lettera a quest’ultimo, un documento così imbarazzante che Scholem e Adorno decisero di escluderlo dall’edizione dell’epistolario benjaminiano del 1966. Taubes, che d’imbarazzi e provocazioni si nutriva, va al cuore del problema. Come mai un pensatore di sinistra e uno di destra mostrano di applicare lo stesso metodo? «Gli animi oscillavano allora nei primi anni Trenta tra sinistra e destra solo perché non si credeva più al programma del liberalismo? Non c’erano criteri per distinguere chiaramente tra bene e male?», chiede Taubes a Schmitt. La domanda rimase senza risposta, anche perché Taubes non spedì mai questa missiva, e si recò invece a trovare Schmitt di persona, nel settembre 1978. Fu un «incontro tempestoso». Taubes racconta che Schmitt gli apparve come «il Grande inquisitore di Dostoevskij contro gli eretici», una sorta di «apocalittico della controrivoluzione».

“Riabilitate i funghi allucinogeni possono avere uso terapeutico”

gennaio 30, 2012

Uno studio britannico ha evidenziato gli effetti positivi della psilocibina, ribaltando la vecchia certezza che essa faccia aumentare l’attività cerebrale. In realtà, la rallenterebbe e potrebbe aiutare le persone a conservare i ricordi in maniera più vivida, riducendo l’ansia. Ma non tutti i medici sono d’accordo

Sara Ficocelli per “la Repubblica

“TURN ON, tune in, drop out”, “accenditi, sintonizzati, sganciati”. Con queste parole lo psicologo Timothy Francis Leary negli anni Sessanta invitava gli studenti di Harvard a svegliare la mente, “distaccandosi da ciò che involontariamente restringe la libertà d’azione”. Frainteso dall’opinione pubblica, ma apprezzato dai neuroscienziati, quello che fu considerato il “profeta” dell’LSD sarebbe stato fiero dei colleghi dell’Imperial College di Londra, che in due studi pubblicati su Proceedings of the National Academy of Sciences e sul British Journal of Psychiatry hanno dimostrato gli effetti positivi della psilocibina: il principio attivo dei funghi allucinogeni sarebbe capace di diminuire l’attività cerebrale e di aiutare le persone a mantenere i ricordi più vividi. Secondo i ricercatori, inoltre, potrebbe ora essere usato a scopo terapeutico, passando dalle porte della percezione a quelle dei laboratori farmacologici, senza passare dal proibizionismo.

In particolare, gli studiosi avrebbero scoperto che le immagini geometriche e la vivida immaginazione che si sperimentano sotto l’influsso dei funghi psicoattivi non sono, come ritenuto finora, il risultato di un aumento dell’attività cerebrale, bensì di una sua riduzione; fenomeno che potrebbe spiegare la liberazione della mente dai vincoli abituali. “Un risultato del tutto inaspettato”, ha detto il coordinatore dello studio, David Nutt, dell’Imperial College di Londra, precisando che “quando si ottiene esattamente l’opposto di quello che si prevedeva, sai che è un risultato giusto, perché non c’è parzialità”.

Essendo la psilocibina illegale, il team ha dovuto faticare un bel po’ per portare a termine lo studio, col timore costante che i volontari sperimentassero il famoso “bad trip”. Soggetti “volontari”, già avvezzi all’uso di certe sostanze, sono stati sottoposti a risonanza magnetica funzionale (che misura la risposta emodinamica correlata all’attività neuronale del cervello) prima e dopo la somministrazione endovenosa di psilocibina. Il flusso di sangue e l’attività cerebrale dei primi 30 hanno rivelato una diminuzione dell’attività nella corteccia prefrontale mediale (un’area coinvolta nelle emozioni, nell’apprendimento, nei processi della memoria e nelle funzioni esecutive) e in quella cingolata posteriore, la cui funzione è però meno chiara.

Il team ha poi utilizzato i dati per valutare come la connettività funzionale tra queste due regioni cerebrali vari nel corso del tempo, e ha scoperto che la loro disattivazione è reciprocamente legata. Le due regioni sono infatti connesse da una rete chiamata Default-mode network (DMN) che integra funzioni cerebrali come sensazioni, ricordi e ambizioni. “E’ un meccanismo che stabilisce chi sei e come vedi il mondo”, ha detto Nutt. Una riduzione dell’attività del DMN potrebbe quindi, secondo gli autori di questa ricerca, consentire una modalità di conoscenza priva di vincoli, tipo quella sperimentata nel 1960 da Leary durante una vacanza in Messico, grazie ai “funghetti magici”.

Un secondo studio, condotto su altre 10 persone, avrebbe anche dimostrato che i ricordi, sotto l’effetto della psilocibina, migliorano e che la sostanza influisce positivamente su ansia e depressione. “Questi hub vincolano la nostra esperienza del mondo e la tengono in ordine. Ora sappiamo che la disattivazione di queste regioni porta a uno stato in cui il mondo viene vissuto con stupore, come qualcosa di strano”, ha aggiunto Nutt.

Secondo Rosanna Cerbo, neurologo psichiatra della Sapienza di Roma, non ci sono però dati sufficienti per parlare di una possibile efficacia terapeutica. “Gli studi che sono stati fatti finora dimostrano effettivamente dei vantaggi per il cervello – spiega – ma solo perché queste sostanze tolgono l’ansia. L’unica efficacia possibile, almeno a livello di quelle sperimentate finora, sta nella loro funzione ansiolitica”.

“I risultati dell’esperimento – spiega Enrico Cherubini, coordinatore del settore di Neurobiologia della Sissa di Trieste, la Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati, e presidente della Società Italiana di Neuroscienze – sono stati riscontrati in aree cerebrali associative  di fondamentale importanza per l’integrazione delle funzioni cognitive. Quindi è davvero plausibile che tali sostanze, riducendo l’attività cerebrale e inibendo questi collegamenti, abbiano effetti benefici sulla psiche, soprattutto in chi soffre di depressione. L’effetto distensivo delle droghe psicoattive è conosciuto da tempo; approfondirne le possibilità terapeutiche mi sembra una cosa molto interessante”.

Questo non significa che da domani le sostanze allucinogene come la psilocibina verranno utilizzate disinvoltamente dalle case farmaceutiche e somministrate con altrettanta leggerezza dagli psichiatri, anche perché in agguato c’è sempre il rischio di dipendenza. “La psilocibina – ha concluso Nutt  – potrebbe essere somministrata solo un paio di volte sotto la supervisione di un terapista. Con la speranza che, alla fine del processo, non si sia più dipendente dai farmaci. Sarebbe come aprire una porta e mostrare che c’è un altro modo di essere”.

Il governo chiude i sei manicomi criminali. Viaggio nell’Opg d’Aversa, il “lager del Sud”

gennaio 30, 2012

Raffaele Sardo e Katiuscia Laneri per “Il Fatto

La data è fissata: il 31 marzo 2013 gli Ospedali psichiatrici giudiziari (Opg) saranno chiusi. Il Senato ha già dato il suo via libera. Ora la parola passa alla Camera dei Deputati.

Poco più di 1400 sono le persone rinchiuse nei sei Opg (Aversa, Barcellona Pozzo di Gotto, Castiglione delle Stiviere, Montelupo Fiorentino, Napoli e Reggio Emilia), di cui 446 quelle che potrebbero uscire immediatamente. Sono ancora dentro perché ritenute socialmente pericolose. Anche se, in effetti, restano in carcere perché non c’è nessuno che li accolga all’esterno, né i familiari, né le strutture pubbliche.

Siamo andati a visitare l’Opg di Aversa, quello che molti politici, dopo averlo visitato, non hanno esitato a definire lager. Ci si arriva inoltrandosi nel cuore della città, lungo via San Francesco. Ci si imbatte subito in mura spesse e alte. Nelle torrette lungo il perimetro di cinta non ci sono più guardie armate, ma la struttura incute sempre timore. Il “Filippo Saporito” di Aversa è tra i “manicomi criminali” più grandi d’Europa. Costruito al centro della città nel 1876 fu destinato ad ospitare i “folli rei”, i matti che commettevano un delitto, e i “rei folli”, quelli che invece impazzivano in carcere.

Da qui sono passati tanti poveri cristi e molti ci sono morti. Soprattutto quando in psichiatria dominava il punto di vista di Cesare Lombroso, un medico e criminologo, sostenitore di una teoria secondo la quale l’origine del comportamento criminale è nelle caratteristiche anatomiche delle persone. Una teoria che oggi può apparire bizzarra, ma che fino ad una quarantina di anni fa ha contribuito a distruggere tante vite. Reperti umani si trovano ancora nel Museo del “Filippo Saporito”, ben conservati in contenitori di vetro.

“Nell’Opg di Aversa attualmente vi sono ospitate 190 persone – spiega la direttrice, Carlotta Giaquinto – sono diminuiti di un centinaio di unità perché abbiamo chiuso un reparto, “la staccata”, uno dei padiglioni più vecchi che ha bisogno di essere ristrutturato”.

“La staccata” è situata al centro dell’Opg (otto padiglioni in tutto) e fino agli inizi degli anni ’80, quando il manicomio ospitava un migliaio di persone, era il luogo di punizione dove venivano rinchiusi i casi più gravi. Era come l’inferno in terra. Una specie di buco nero dove si nascondevano le paure e le fobie della società. Qui tra violenzeelettroshock e letti di contenzione, avveniva la mortificazione dei diritti più elementari delle persone. Un mostruoso lager.

Nei primi anni ’70 uno degli internati, Aldo Trivini, riuscì a documentare con una telecamera nascosta gli orrori che si consumavano in questo reparto. I gruppi armati dell’ultrasinistra tentarono, a modo loro, di portare a conoscenza dell’opinione pubblica, ciò che accadeva ad Aversa. Soffiarono sulla disperazione che si viveva nell’ Opg, cercando di fomentare una rivolta all’interno del carcere. La notte del 30 maggio 1975, un giovane militante dei Nuclei Armati Proletari, Giovanni Taras, sale sul tetto del manicomio criminale, arrampicandosi attraverso uno stabile abbandonato. L’obiettivo è diffondere un messaggio registrato di solidarietà con gli internati e contro la gestione dell’Opg. Al termine del messaggio doveva anche scoppiare un ordigno collegato al registratore. Ma l’ordigno esplode nelle mani del militante dei Nap mentre lo sta collocando sul tetto. Taras è investito dallo scoppio e muore. Il cadavere verrà scoperto il mattino seguente al cambio del turno delle guardie carcerarie. L’azione dimostrativa viene rivendicata dal Nucleo Armato “Sergio Romeo”.

Intanto il filmato Trivini, finisce in mano al pretore di Aversa. In tutto sono 56 pagine dattiloscritte in cui Trivini descrive la vita all’interno della struttura manicomiale e allega le testimonianze di altri sei internati o ex internati del manicomio aversano. Si apre un processo al Tribunale di Santa Maria Capua Vetere. Finisce con le condanne del direttore dell’Opg, Domenico Ragozzino e di due guardie carcerarie. Il direttore poi si impiccò. Il processo contribuì a far aprire un dibattito sui manicomi criminali.

Si scoprì che i finti matti e i simulatori, molti dei quali boss della camorra e criminali incalliti, attraverso perizie psichiatriche compiacenti, finivano nel manicomio per evitare il carcere. Un paio di anni e poi uscivano. E a differenza dei poveri cristi, avevano stanze più accoglienti che qualcuno le rendeva confortevoli, con mobili fatti entrare con autorizzazioni speciali. C’era anche chi decideva di uscire prima, come il boss Raffaele Cutolo, che da Aversa evase il pomeriggio del cinque febbraio del 1978. Quel giorno Cutolo raccolse le sue cose nella cella ammobiliata e con moquette colorata, proprio mentre una bomba apriva uno squarcio di una diecina di metri nel muro di cinta. Con tutta calma il boss della Nuova Camorra Organizzata uscì dalla sua stanza, fece pochi passi, attraversò le piccole macerie e si ritrovò fuori dal carcere, alle spalle del seminario vescovile della città. Qui lo attendevano, con un’auto già pronta per scappare, sua sorella Rosetta con i due luogotenenti, Corrado Iacolare e Vincenzo Casillo.

“Altri tempi – dice la direttrice – oggi i camorristi qui non entrano. Gli ospiti li teniamo in sette padiglioni e i più gravi sono distribuiti un po’ ovunque, per evitare proprio che si creino reparti ghetto. Nella gestione prevale sempre l’aspetto sanitario”. Ma qui si continua a morire. Suicidi. “Gli ultimi, tre, purtroppo, all’inizio del 2011 – spiega la direttrice Giaquinto che è ad Aversa dal 2008 – Si tenga presente che le persone rinchiuse sono affette da patologie psichiatriche, più o meno gravi, e alcune patologie portano a questo tipo di conclusione. C’è anche da considerare che ci sono episodi emulativi. In ogni caso nella struttura c’è un’attenzione massima, perché abbiamo i riflettori puntati da parte delle commissioni parlamentari, ma anche da parte del tribunale di Santa Maria Capua Vetere e, soprattutto, dai mass media“.

La maggior parte delle persone che si trovano nell’Opg di Aversa hanno commesso piccoli reati: maltrattamenti violenti, estorsioni in famiglia, violenza a pubblico ufficiale. C’è anche qualche criminale seriale, ma pochi. “I soggetti che arrivano qui – afferma ancora la direttrice dell’OPG – hanno commesso un reato anche banale. Il reato, ovviamente, è collegato al tipo di patologia, ma che ripetuto in un contesto sociale e familiare, dà luogo a denuncia penale. Arrivano da noi con una misura temporanea di sicurezza che ha una durata minima di sei mesi, ma che in teoria può anche non finire mai. Le famiglie all’esterno non rivogliono indietro i loro familiari e non c’è alcuna struttura che li accoglie. Capita che il magistrato debba prorogare la misura in attesa che il Dipartimento di Salute mentale faccia un programma per accogliere la persona in altra struttura. Attualmente sono circa quaranta le persone che pur essendo libere per aver scontato la pena, restano ancora qui rinchiuse“. Ergastolani, loro malgrado, ma che potrebbero uscire presto per ritornare ad una vita più dignitosa.

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gennaio 29, 2012

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gennaio 29, 2012

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gennaio 29, 2012

Leibovitz: adesso fotografo reliquie

gennaio 29, 2012

Alessandra Farkas per “Il Corriere della Sera

John Lennon nudo e fragile, avviluppato a Yoko Ono vestita, (un’immagine scattata cinque ore prima della sua morte) e Whoopi Goldberg immersa in una vasca piena di latte, inquadrata dall’alto. Demi Moore incinta e senza veli, pioniera ignara di una nuova era di maternità sexy e la regina Elisabetta, colta in una rara espressione di tenera vulnerabilità.

In quarant’anni di carriera, prima per «Rolling Stone» e poi per «Vanity Fair», Annie Leibovitz ha accumulato (e perso) un’immensa fortuna immortalando attori, leader politici e rock star. Ma il suo ultimo volume di foto Annie LeibovitzPilgrimage (Random House) realizzato dopo la bancarotta che nel 2009 la gettò sul lastrico, è diverso.

Per la prima volta una sua opera non contiene ritratti di vip e celebrità ma paesaggi e oggetti la cui scelta scaturisce più da un impulso lirico che da un committente famoso e patinato. Oltre settanta fotografie, scattate tra l’aprile 2009 e il maggio 2011, che saranno in mostra allo Smithsonian American Art Museum di Washington fino al 20 maggio, prima di partire in tournée per il resto del mondo.

«Questi oggetti, dettagli e naturemorte sono talismani di vite passate», teorizza il curatore della mostra Andy Grundberg, «intimazioni alla mortalità che inaugurano una nuova direzione nell’arte di una delle fotografe americane più note». Dopo aver immortalato passioni e miti, spesso passeggeri, della baby-boomer generation, Leibovitz rivisita le icone artistico-letterarie a cavallo tra ’800 e ’900.

La mostra include il vestito di broccato bianco e madreperla di Emily Dickinson (l’unico sopravvissuto della poetessa), un paio di guanti indossati da Abramo Lincoln quando fu assassinato, il sontuoso lettino da psicoanalista di Sigmund Freud a Londra, le acque increspate del Fiume Ouse, in Sussex, dove si è suicidata Virginia Woolf, la camera da letto di Eleanor Roosevelt a Hyde Park e il ranch di Georgia O’Keefe in New Mexico.

«Per me è come se si trattasse di persone in carne ed ossa», spiega al «Corriere della Sera» Leibovitz, passeggiando tra le maestose colonne in stile classico dello Smithsonian, pantaloni e maglione a collo alto neri e scarponi militari d’ordinanza. «Ho fotografato le reliquie che questi giganti ci hanno lasciato — incalza —: oggetti destinati a scomparire e disintegrarsi. Ho cercato, a mio modo, di fermarli nel tempo».

Dopo questo «Pellegrinaggio», nulla per lei sarà più lo stesso. «Ero nel bel mezzo del disastro finanziario che mi aveva costretto a destinare tutto il mio tempo ad avvocati e contabili — riprende, ravvivandosi i lunghi capelli biondo cenere —. Le mie tre figlie erano frustrate. “Mamma, non ti vediamo mai”, si lamentava la maggiore, Sarah. Decisi così di staccare la spina: avrei portato Sarah e le sue due sorelline alle cascate del Niagara per un weekend».

Ma all’arrivo in albergo la sua carta di credito è rifiutata perché insolvente. Dopo vari tentativi, la famiglia trova alloggio in una pensioncina dove però, aprendo la finestra della camera, l’indomani mattina, l’attende un deprimente muro di mattoni e cemento. «Questo può essere solo l’inizio o la fine, mi sono detta». Più tardi, durante una passeggiata nel punto più panoramico delle cascate, davanti all’euforia delle figlie ipnotizzate dal gorgoglio delle acque, ha una rivelazione: «Ho avvertito dentro di me un incontenibile senso creativo di rinascita. Ho cominciato a scattare».

Quell’emozione prorompente è catturata dalla splendida foto che adorna la copertina di un libro che, Leibovitz non esita ad ammetterlo, «ha salvato la mia anima, regalandomi nuovi occhi».Ma Pilgrimage è soprattutto un omaggio all’adorata Susan Sontag, la celebre scrittrice, sua compagna dal 1989 fino alla morte nel 2004.

«Susan ed io avevamo pensato a The Beauty Book come titolo del nostro diario di viaggio in luoghi come la Cambogia, Sarajevo e l’Amazzonia. Susan amava viaggiare e visitare Paesi esotici», precisa. «Per il suo sessantesimo compleanno siamo andate in crociera sul Nilo. Tra i luoghi che adorava, oltre a Tokyo e Parigi, c’era l’Italia dove aveva molti amici intimi e dove aveva trascorso tanto tempo. Parlava anche la vostra lingua».

Da allora Leibovitz non ha mai abbandonato il progetto. «Quando si ama profondamente qualcuno — spiega —, la persona amata non ci abbandona mai, è dentro di noi per sempre». Il fantasma della Sontag permea l’intera opera. «Susan adorava collezionare oggetti, pietre, rocce, conchiglie. Il suo libro del 1992, The Volcano Lover testimonia proprio di questa sua passione. Amava i dettagli, lei, e non considerava mai una figura nella sua totalità. Un approccio opposto al mio».

Dopo la morte della Sontag, Leibovitz è tornata in pellegrinaggio nei luoghi di cui, quando la compagna era in vita, non aveva colto appieno la bellezza. Come la casa di Emily Dickinson («la scrittrice preferita di Susan») e quella di Virginia Woolf in Inghilterra, dove in passato aveva realizzato un reportage fotografico con Vanessa Redgrave e Nicole Kidman. «Un errore, in retrospettiva», riflette, «perché con quegli scatti ho violato lo spirito di un luogo di cui Susan aveva colto immediatamente la sacralità».

Ma in Pilgrimage emerge anche il grande amore della fotografa per la strada. Una passione che la accompagna dall’infanzia. «Ero la terza di sei figli e la mia famiglia era sempre al verde — racconta — ogni due o tre anni eravamo costretti a spostarci con la nostra station wagon per seguire papà, ufficiale d’aviazione. Durante i vari pellegrinaggi mamma, patita di storia, ci faceva fermare a visitare tutti i cippi, le targhe e i monumenti d’interesse storico lungo il cammino».

Sam e Marilyn Leibovitz, ebrei mitteleuropei in America da due generazioni, sono stati celebrati dalla figlia, prima della morte, in A Photographer’s Life: 1990-2005, il libro di foto in bianco e nero che alterna alcuni dei suoi ritratti più celebri (Bill e Hillary Clinton, Nelson Mandela, Joan Didion, Patti Smith, William Burroughs) agli intimi primi piani della sua relazione con la Sontag e all’album di famiglia del clan Leibovitz: genitori, fratelli, nipoti, cognati e le tre figlie della fotografa.

In una di queste foto, scattata nel 2001 (dieci anni esatti da quella di Demi Moore incinta sulla copertina di «Vanity Fair») l’allora cinquantaduenne Leibovitz si offre come modella, nuda e al nono mese di gravidanza, alla compagna, che il giorno dopo immortala anche la nascita della loro piccola Sarah Cameron nella sala parto di un ospedale. Quattro anni più tardi, quando le gemelle Susan Anna e Samuelle Edith, vengono al mondo grazie ad una madre surrogata, Susan non c’è più.

Leibovitz avrà altre occasioni per celebrarla. «Sto lavorando su una raccolta che possa essere una sorta di archivio per esplorare i miei quarant’ anni di carriera e far capire alle persone che cosa realmente sia il mio lavoro». In cima a questa monumentale collezione, una foto spicca più bella e luminosa di tutte le altre: quella scattata nel 1997 alla madre. «Quel tipo d’istantanea non si può realizzare con qualcuno che si incontra soltanto per 15 minuti — assicura —. È una foto che nasce dall’intensità del rapporto: mamma mi guarda come se non ci fosse il muro di una lente, regalandomi quella perfezione unica e rara che è il sogno di ogni fotografo».

‘L’impero della cocaina’ dalla Colombia alla Calabria, viaggio nel traffico dell’oro bianco

gennaio 29, 2012

L’inchiesta firmata da Andrea Amato segue la filiera di produzione dalla foglia di coca partendo dal Sudamerica fino ad arrivare a Milano, “la città più drogata dell’Unione Europea con 180mila consumatori abituali”. Passando per Platì, capitale della ‘ndrangheta che controlla il narcotraffico

Eleonora Bianchini per “Il Fatto

C’è un filo rosso che lega la Colombia alla Calabria. A tesserlo è la ‘ndrangheta, un potere criminale “feroce, ricchissimo, efficiente e ormai globalizzato” che è il partner della ‘Coca connection’ internazionale insieme ai narcos di Bogotà. “L’Impero della cocaina” (Newton Compton editori), inchiesta firmata da Andrea Amato, direttore dei contenuti di 101, è un “viaggio in presa diretta nel traffico dell’oro bianco” che segue la filiera di produzione dalla foglia di coca in Sudamerica fino a Milano, “la città più drogata dell’Unione Europea con 180mila consumatori abituali”.

Amato racconta l’assalto di una raffineria nella giungla colombiana, dove “l’ideologia marxista si è assimiliata al capitalismo del narcotraffico” a arriva fino a Platì in Aspromonte che, oltre a essere “comune con il tasso di natalità più alto d’Italia, ma anche quello con il reddito pro capite più basso”, è la culla della ‘ndrangheta. “ I momenti più rischiosi sono stati tre – ricorda l’autore – il primo nella foresta colombiana, dove ci siamo trovati nel mezzo di una una guerriglia durante un’operazione di polizia. Poi i viaggi in Calabria e infine quando ci siamo infiltrati a comprare cocaina in viale Bligny a Milano con le telecamere nascoste”. I narcos preferiscono fare affari con i calabresi perché “garantiscono impeccabilità e invisibilità, altro che siciliani e camorra”. Hanno imparato dai morti di Cosa Nostra a dosare il sangue, perché, come spiega il sostituto procuratore della Direzione distrettuale Antimafia di Catanzaro Salvatore Curcio, la ‘ndrangheta “non ammazza mai per il gusto di farlo. Uccide solo se è funzionale al suo business” e l’assenza di pentiti rende i suoi uomini soci affidabili e discreti.

Il risultato? Miliardi di euro riciclati ogni anno in paradisi fiscali, oltre che ristoranti, strutture alberghiere ed esercizi commerciali. Eppure, puntualizza il Procuratore antimafia Piero Grassointervistato nel libro, nonostante gli immensi capitali la criminalità organizzata “guadagna e affama la sua gente” e “di quella montagna di soldi il sud non ne vede neanche le briciole”. Infatti le cosche “investono lontano da casa loro per non avere pressioni ambientali e perché i guadagni sono superiori”. Milano, ad esempio: è lì che Amato si finge cocainomane ed entra in contatto con gli spacciatori di Viale Bligny 42, uno stabile che è un “supermarket di coca”. Situato in centro città e a due passi dalla Bocconi, “rifornisce da anni clienti di tutte le età e di tutte le tipologie umane”. Perché non parliamo più di una droga elitaria, e con 70 euro si compra un grammo. “Le generazioni più giovani – spiega Amato – non si pongono il problema della filiera dietro la sniffata”. Quel che ha stupito l’autore è la “trasversalità delle generazioni e dei ceti sociali nell’uso della cocaina” che, a differenza di altre sostanze, “è una droga prestazionale e il suo consumo così diffuso evidenzia il sentimento di inadeguatezza rispetto agli standard della società di oggi che ti vuole più ricco, più veloce, più bello degli altri”.

Un mercato che in Europa trova l’incontro tra domanda e offerta visto che “circa il 3% della popolazione europea consuma cocaina abitualmente” e dove i Servizi tossicodipendenze(Sert) del capoluogo lombardo hanno una lista d’attesa di circa tre mesi perché “secondo l’Asl, un milanese su tre sniffa cocaina”. L’oro bianco arriva in Europa attraverso sommergibili non intercettabili dai radar e il 25% viaggia negli stomaci dei ‘muli’, persone che fungono da “service del traffico internazionale di cocaina” e che “riescono a ingerire fino a due chili di cocaina”.

Ma il problema va oltre l’asse tra Colombia e Mezzogiorno italiano e l’errore più grande è “pensare che la ‘ndrangheta, che opera come una multinazionale, sia un problema esclusivamente legato alla Calabria. Perché i loro uomini sono anche nelle istituzioni e dietro le scrivanie dei noti palazzi”.

Teodora, la escort in carriera

gennaio 29, 2012

Sarah Bernhardt

Partita dal basso, arrivò a sposare Giustiniano e salì sul trono di Bisanzio: la sua gestione del potere fu realistica e geniale

Silvia Ronchey per “La Stampa

Tutto era cominciato con un ballo in maschera. Una giovane principessa romena, Marthe Bibesco, era appena arrivata a Parigi, nel 1902. Non avendo un costume, e nemmeno troppo denaro per comprarlo, si era presentata travestita da Teodora usando antichi abiti e gioielli di famiglia, che in Romania erano straordinariamente simili ai modelli bizantini. Fece il suo ingresso, avrebbe poi raccontato, «portando le insegne, la dalmatica, la corona, i gioielli e le babbucce di porpora di Teodora, tale e quale la vediamo nel famoso mosaico di Ravenna». A rovinare la festa arrivò un suo zio paterno, anziano e compassato erudito, che la accusò di avere dato scandalo: sua nipote, al debutto nel bel mondo parigino, che si presentava come una poco di buono, come una donna perduta, come una prostituta!

Che Teodora avesse cominciato la sua carriera come prostituta le fonti antiche lo testimoniano senza mezzi termini. Secondo Procopio di Cesarea, lo storico del VI secolo suo contemporaneo, già prima dello sviluppo Teodora era stata avviata alla professione della sorella maggiore, ma «non essendo ancora formata per unirsi agli uomini come una donna» si vestiva da schiavetto e «si dava a sconci accoppiamenti da maschio» nei lupanari. Con la crescita un certo sadomasochismo si era manifestato in lei, insieme a una crescente spudoratezza: «Non esitava ad acconsentire alle pratiche più svergognate, e anche se veniva presa a pugni e a schiaffi se la rideva della grossa, si spogliava e mostrava nudo a chicchessia il davanti e il didietro». Al culmine della carriera, «lavorando», scrive Procopio, «con ben tre orifizi, rimproverava stizzita la natura di non avere provveduto il suo seno di buchi dei capezzoli più ampi, così da poter escogitare anche in quella sede un’altra forma di copula».

Al di là degli osceni virtuosismi di Procopio, che Teodora abbia usato il proprio corpo per passare dallo strato sociale in cui era nata agli ambienti dei funzionari di corte, di cui divenne via via «escort», amante, mantenuta, e sedurre alla fine il futuro imperatore Giustiniano, non abbiamo ragione di dubitare. Né lo ha fatto alcuno storico, sino alla fine dell’Ottocento. «Con lei», ha scritto a metà del Settecento Montesquieu, «la prostituzione è salita al trono». «Sul mestiere svolto da Teodora nella prima giovinezza Procopio fornisce dettagli di una precisione tale», scriverà poco dopo Gibbon, «da non poterli né equivocare né ritenere inventati».

Quando i dossier di Procopio furono tradotti in Francia, un famoso commediografo, Victorien Sardou, decise di farne una pièce teatrale. Ai suoi occhi, il personaggio era perfetto per incarnare la figura di femme fatale tanto cara al grande pubblico. Scelse così come protagonista un’attrice che era l’incarnazione vivente di quel mito: Sarah Bernhardt.

La pièce era un vero e proprio feuilleton, con al centro un improbabile intreccio amoroso e alla fine il pentimento e la punizione capitale della protagonista. I costumi sessuali di Teodora erano rappresentati in termini più soft che in Procopio, ma Sardou si atteneva comunque alle sue indicazioni. Sarebbe stato furiosamente attaccato per questo. Da chi? Dai bizantinisti.
La bizantinistica comincia con questa negazione – e la negazione è rivelatrice di una rimozione, e la rimozione è tout court quella della realtà di Bisanzio. Una realtà che non si vuole o non si può vedere. Bisanzio entra nel Novecento sotto l’immagine di Teodora, ed è un’immagine incappucciata dal moralismo.

Da quest’immagine, accreditata dagli storici borghesi di inizio secolo come Charles Diehl nelle sue Figure bizantine, proviene l’opinione distorta che di Bisanzio ha avuto il Novecento: la percezione di quella corte come regno esclusivo di intrighi femminili o effeminati, il senso spregiativo che diamo tutt’oggi all’aggettivo «bizantino», e anche l’irragionevole percezione della storia bizantina come decadenza indefinitamente protratta hanno radice nell’attrazione-repulsione per la femme fatale Sarah-Teodora, che pure aveva avuto uno strepitoso successo di massa.

Ma gli stereotipi dell’irrazionalità e di una prepotente quanto frivola passionalità mascherano ed esorcizzano la storicità di un potere femminile bizantino che ha in Teodora la più celebre esponente. Il suo potere, nella «diarchia» con Giustiniano, non aveva avuto nulla di arbitrario, ma si era esercitato in modo efficace e spesso geniale. Dopo di lei, e lungo tutto il Millennio bizantino, si snoderà una lignée quasi ininterrotta di imperatrici ancora più influenti, indipendenti e decise. Da Irene, Teofàno, Zoe Carbonopsìna alla Teodora Macedone legislatrice raffigurata nella Cronografia di Michele Psello e a tutte le altre grandi sovrane che seguirono, questo potere femminile — secondo la letteratura maschile contemporanea crudele, sanguinario, tinto di erotismo — ebbe un peso politico senza pari nella storia occidentale. Se ci atteniamo a un’analisi attenta degli storici antichi, era oggettivamente forte e diffuso. E perciò tanto più inquietante agli occhi degli storici moderni, in quanto per nulla irrazionale e passionale, anzi, se mai fin troppo spregiudicato e realistico.

Walter Benjamin. Ghirigori per fare ordine dentro il caos

gennaio 29, 2012

Pensieri, riflessioni, note. Sulle rivoluzioni di Marx, i tempi di Proust, la guerra, l´arte. Su fogli sparsi, taccuini, biglietti. In una mostra a Parigi l´archivio dell´autore di “Angelus novus” Che testimonia non solo il suo metodo di lavoro, ma la costruzione mai sistematica della sua filosofia

Fabio Gambaro per “la Repubblica”

Parigi – Walter Benjamin amava Parigi. L´amava tantissimo. Proprio nella città di Baudelaire e Proust, della Bibliothèque Nationale e dei passages, dei caffè frequentati dagli artisti e dei lungosenna inondati di sole, il filosofo tedesco aveva cercato rifugio nel 1933, per sfuggire al nazismo. Per lui la Ville Lumière fu un´oasi di pace e di cultura, dove rimase fino al 13 giugno 1940, quando le truppe del Reich alle porte della città lo costrinsero ancora una volta alla fuga. E non a caso, alla capitale francese Benjamin dedicò uno dei suoi libri maggiori, I passages di Parigi, a cui lavorò fino all´ultimo momento, abbandonando poi il manoscritto incompiuto a Georges Bataille, prima di lasciare precipitosamente il suo appartamento di rue Dombasle.
Quella tra il filosofo tedesco e la capitale francese è una storia fatta di legami forti e di affinità nascoste, che oggi riemerge in occasione della mostra “Walter Benjamin Archives” (fino al 5 febbraio al Musée d´Art et d´Histoire du Judaisme). Il ricchissimo materiale esposto a Parigi (manoscritti, lettere, appunti, schede, cartoline, registri, taccuini, foto, agende, libri e riviste) consente di leggere tutta l´opera di Benjamin come un archivio del pensiero, della percezione, della storia e delle arti.
Archivista di se stesso e grande collezionista, l´autore di Angelus novus compilava elenchi di ogni tipo, liste di libri e di cose da fare, elenchi di argomenti da approfondire e cataloghi di parole. Tra le carte c´è anche un “archivio dei suoi archivi personali”, comprendente ventinove diverse voci, dalle lettere degli amici ai lavori sulla poesia, dalle notizie sui genitori alle ricerche filosofiche, dai ricordi di scuola alle fotografie. Ecco per esempio un attualissimo commento all´idea di Marx sulle rivoluzioni come locomotive della storia: «Forse le cose stanno diversamente. Forse le rivoluzioni sono il gesto della specie umana che viaggia sul treno per tirare il segnale d´allarme». Su un foglio con la pubblicità dell´acqua San Pellegrino redige invece alcune riflessioni sull´aura come «apparizione di un lontano per quanto vicino», mentre su un tagliando della Berliner Staatsbibliothek butta giù il primo schema de Il dramma barocco tedesco.
Appunti che messi insieme diventano un vasto schedario, il supporto necessario di un pensiero proposto per frammenti, frutto della consapevolezza dell´impossibilità di strutturarne la presentazione in modo definitivo. «Per qualcuno i cui scritti sono dispersi come i miei e a cui le circostanze storiche non consentono più l´illusione di vederli un giorno riuniti, è una vera soddisfazione sapere che un lettore, in un modo o nell´altro, si sia sentito a casa sua in mezzo a questi miei scarabocchi», scrive Benjamin.
Possedeva taccuini per ogni occasione. C´era quello in cui annotava i libri letti e quello in cui conservava le citazioni che avrebbero potuto servirgli in futuro, quello per gli schemi e i piani di lavoro, e quello in cui finivano arborescenze di parole e costellazioni di pensieri come quelle relative a Proust, Baudelaire o Karl Kraus. Documenti preziosissimi che evidenziano il modo di procedere del filosofo che avanza per approssimazioni successive, accumulando idee, organizzando il tutto per temi e argomenti, alla ricerca di una presentazione appropriata del pensiero. Proprio come fece negli anni parigini, quando lavorava al famoso libro sui passages. In quel testo incompiuto Benjamin accumulò una gran quantità di citazioni secondo l´immagine cara a Baudelaire dello straccivendolo che raccoglie «gli scarti di una giornata nella capitale». Immagine che trasferì al lavoro dello storico materialista, presentato come colui che raccoglie avanzi e residui della storia. I passages di Parigi doveva essere un´opera fatta di stracci, scarti e residui, in cui – secondo il sommario manoscritto presentato a Parigi – potevano coesistere la moda e la storia delle sette, il sogno e la prostituzione, Jung e Fourier, Marx e Baudelaire, la noia e la pigrizia, il dinamismo sociale e il materialismo antropologico.
A Parigi però Benjamin era anche al centro di una rete di relazioni intellettuali. È a loro che Benjamin confida angosce, dubbi e paure, come ad esempio in questa lettera ad Adorno del 2 agosto 1940: «La totale incertezza di ciò che può portare ogni nuovo giorno, ogni nuova ora, domina la mia esistenza da molte settimane. Sono condannato a leggere i giornali come una sentenza e cogliere in ogni trasmissione radiofonica un messaggio di sventura».
Per sfuggire a quella sventura annunciata Benjamin approderà a Marsiglia nell´agosto del 1940, tentando poi di raggiungere clandestinamente la Spagna. Arrestato e respinto dai doganieri spagnoli, il 26 settembre, si darà la morte con una forte dose di morfina nel paesino di Portbou, dopo aver scritto un ultimo laconico biglietto all´amica Henny Gurland: «In una situazione senza uscita, non ho altra scelta che farla finita. La mia vita si conclude in un piccolo paese dei Pirenei dove non mi conosce nessuno. La prego di trasmettere il mio pensiero all´amico Adorno e di spiegargli la situazione in cui mi sono trovato. Non mi resta abbastanza tempo per scrivere tutte le lettere che avrei voluto scrivere». Queste drammatiche righe sono l´ultimo atto della vita di Benjamin, di cui l´affascinante mostra parigina ricorda la ricchezza di un progetto inclassificabile, che proprio a Parigi conobbe uno dei suoi momenti culminanti.

Diritti Globali

Trieste, ultima stazione

gennaio 29, 2012

Trieste Campo Marzio

La inaugurò Francesco Ferdinando, vide partire i soldati della Grande guerra e arrivare gli italiani in fuga dal comunismo. Oggi Campo Marzio è un museo unico al mondo. Gestito interamente da volontari senza contributi statali rischia di chiudere. Mentre una intera città viene cancellata dalla mappa delle ferrovie italiane

Paolo Rumiz per “la Repubblica”

Trieste – La inaugurò Francesco Ferdinando nel 1906 prima di morire ammazzato a Sarajevo. La usarono come terminal i convogli di lusso della Canadian Pacific giunti dalle gallerie dei Tauri. Vi partirono i soldati della Grande guerra e vi arrivarono gli italiani in fuga dallo jugo-comunismo. Negli anni Settanta vi approdarono dall´Est carrozze piene di compratori affamati di jeans, poi vi vennero girati film come Anna Karenina. Oggi non arrivano più treni e va di scena lo sfratto, la chiusura definitiva, la fine della più gloriosa stazione triestina e delle meraviglie in essa contenute, uno dei più bei musei ferroviari d´Europa. Succede che Trenitalia ha costretto i volontari che lo gestiscono ad andarsene, triplicando loro l´affitto già pesantissimo. La loro colpa? Avere impedito che andasse in rovina il capolavoro del più prestigioso waterfront dell´Adriatico. La stazione di Campo Marzio, capolinea di quella che l´Austria chiamò “Transalpina”. Narrano che nel 2008 Mauro Moretti, gran capo dell´azienda, in una sua visita a Trieste, dopo avere visto nelle sale d´aspetto le stufe originali in maiolica, la piumata feluca del primo capostazione, montagne di cimeli e un secolo di vaporiere schierate all´esterno, abbia dato una pacca sulle spalle ai custodi del Dopolavoro ferroviario, dicendo loro «bravi ragazzi». Aveva buone ragioni per fregarsi le mani. Quelli non solo gli avevano messo insieme un patrimonio collezionistico inestimabile e si erano presi sulle spalle il costo della manutenzione straordinaria, ma pagavano di tasca propria un affitto di 54mila euro l´anno senza un centesimo di aiuto pubblico.
Ma la partita, si capì di lì a poco, era più importante di un museo. Era la vendita della seconda stazione triestina. Era la chiusura della linea, la rottamazione dei binari “in sonno” che ancora collegano la città all´Istria, alla Slovenia e al Centro Europa. E poiché i “bravi ragazzi” erano un intralcio a questa operazione immobiliare, si è ben pensato di alzare loro il canone a 140mila euro. Cifra insostenibile, che – in assenza di aiuti dall´esterno – condanna il museo alla chiusura e la stazione (sulla quale Trenitalia non ha mai speso un euro) al decadimento e alla rovina. Sfratto, come a clandestini morosi e non a benefattori che danno lustro a Trenitalia e senso alla memoria ferroviaria del Paese.
Per chiudere in fretta l´affare Moretti andrà di persona a Trieste ai primi di febbraio, e subito si è capito che la partita sarà di vasta portata. Il rischio è la definitiva cancellazione della città dalla mappa ferroviaria italiana. Per capire cosa accade basta guardare gli orari conservati nelle bacheche della stazione. Un secolo fa, con una sola coincidenza si andava a Praga, Cracovia e Stoccarda. La città era al centro d´Europa. Perfino trent´anni fa era meglio di oggi, senza Schengen e con la cortina di ferro di mezzo. Sull´altopiano passava ancora il Simplon Orient Express diretto a Istanbul, e in wagon lit potevi andare a Parigi, Genova, Roma, Budapest, Belgrado. Oggi vai solo a Udine e Venezia, con i treni più lenti d´Italia.
Il confronto più deprimente è quello che tocca i collegamenti con Vienna. C´erano dodici treni al giorno, tutti diretti. Oggi nessuno. Con trazione a vapore, il viaggio durava dieci ore e sette minuti contro le nove e ventotto di oggi, epoca dell´alta velocità. Un viaggio così lento e così umiliante – due cambi, tre biglietti e una tratta in pullman – che il sindaco di Trieste Roberto Cosolini, dovendo incontrare il Burgermeister di Vienna, ha voluto farlo di persona, per masticare fino in fondo l´amaro della sua emarginazione.
Prima della Grande guerra, Trieste aveva tre strade di ferro per la città imperiale: una via Lubiana-Graz, una via Pontebba e una via Gorizia-Villach, linea che avvicinava la Germania di 250 chilometri. Oggi è rimasta solo la seconda. Fra Trieste e Lubiana due mesi fa è stato tolto l´ultimo treno. Quanto alla linea di Gorizia, è chiusa dai tempi della Guerra fredda, anche se i binari esistono ancora. Tutto è finito: niente per l´Ungheria, per Zagabria, per l´Istria, per Fiume e Dalmazia. Per Roma il mondo finisce a Mestre.
È chiaro: la gloriosa stazione inaugurata da Francesco Ferdinando non è solo un gioiello da conservare. È l´unico vettore di traffico alternativo al miserabile doppio binario che ancora collega Trieste al resto d´Italia. I soldi per ripartire ci sono, Bruxelles ha stanziato milioni di euro (progetto “Adria A”) per riattivare i vecchi binari come linee metropolitane. Trenitalia partecipa alle trattative per l´operazione, ma intanto, alla chetichella, spolpa le linee ovunque è possibile. Con la parola d´ordine «rete snella» si attua l´indicibile. Binari di precedenza tolti, declassamento di fermate, saccheggio di scali merci, caselli storici venduti o lasciati alle ortiche, linee vitali ridotte a raccordi industriali. Persino la bella stazione di Miramare, dove Massimiliano d´Asburgo scendeva dal treno per raggiungere in carrozza il castello, si è vista estirpare i binari di sorpasso. Il grave è che lo smantellamento trova alleati nel porto che, senza la minima lungimiranza, pare ora disposto a comprare i binari (vicinissimi ai moli) per ampliare l´area di sosta dei camion dietro il terminal traghetti. Operazione catastrofica, che significa waterfront degradato a parcheggio, scelta di un trasporto su gomma che Amburgo e Rotterdam hanno abbandonato da tempo, e soprattutto cancellazione di una strada ferrata vitale per lo sviluppo della città.
In questa corsa alla rottamazione, i matti del museo restano asserragliati nella loro trincea e conservano, conservano come formichine. Timbri, telefoni a manovella, quadri di comando, carri passeggeri, tappezzerie, amperometri, pompe, scambi, segnali, divise, spartineve, locomotive, fotografie, mappe, plastici, sigilli doganali per la piombatura dei vagoni, cappelli con visiera e decorazioni in oro di un mestiere che fu nobile. Nelle sale di Campo Marzio leggi la storia commerciale di mezzo mondo. Tutto è cominciato al tempo della dismissione delle vaporiere, ai tempi in cui per entrare in ferrovia dovevi giurare sulla bandiera. Ed è stata subito una lotta. Il mobilio della “Sala reale” della stazione centrale era già stato buttato via. «Stessa cosa per l´archivio delle ferrovie austriache, già destinato al macero», racconta Luciano Muran, classe ´29, macchinista dell´Orient Express.
I treni all´esterno sono pezzi unici, tutti funzionanti. La vecchia Gomulka sovietica usata dai treni di Tito. La Kriegslokomotive nazista, macchina di morte che deportò gli ebrei e poi divenne macchina di pace col trasporto degli aiuti del Piano Marshall. Carrozze fine Ottocento con tappezzeria intatta. La rete c´è ancora, i treni storici possono entrare e uscire, ma – mentre in Austria e Germania i viaggi della nostalgia fanno soldi a palate – le nuove, esose richieste tariffarie romane hanno bloccato anche questa opportunità. Non c´è un euro per il turismo, mentre se ne trovano milioni per iniziative truffaldine come il contiguo museo della fotografia, mai aperto e lasciato a metà.
E dire che non c´è niente di simile in Italia. Il museo di Pietrarsa, presso Napoli, ha i suoi bei cimeli, ma è lontano dalla città e i treni non possono entrarvi. E per giunta costa, perché Trenitalia, lì, paga il personale di custodia. Trieste no, funziona da sola. È in pieno centro. E i fessacchiotti pagano pure l´affitto, aggiustano i tetti, raccolgono i pezzi di un tempo perduto che anche l´Austria ci invidia. I turisti vengono da lontano, specie dalla Germania. Un dirigente delle ferrovie francesi ha mandato al sindaco una lettera d´allarme per le voci di chiusura. «Ho ammirato un gioiello – scrive il signor Vignaud – e so che un tale lavoro di conservazione non va ostacolato ma al contrario valorizzato».
«Ci amano più all´estero che in patria», lamenta Roberto Carollo, capo dei volontari al Dopolavoro. Nel 2009, racconta, il municipio di Vienna si offrì di dare al suo ex porto la preziosa copertura in ferro della vecchia Sudbahnhof, ex “stazione Trieste” ora in ristrutturazione, che sarebbe andata a pennello su quella di Campo Marzio. Era un magnifico regalo, e l´allora sindaco Roberto Dipiazza promise mari e monti. Poi tutto finì in nulla, i costi del trasporto parvero eccessivi, Trenitalia non volle spendere, la Regione non diede una mano. Così, a Vienna il glorioso ferro da museo è stato trasformato in barre. E a Trieste la stazione del “secolo breve” è stata condannata a morire sotto la pioggia.

Diritti Globali

Il cacciatore sparò un colpo, uno solo

gennaio 29, 2012

Thomas Francis McGuane

Matteo Sacchi per “il Giornale

Thomas Francis McGuane – l’autore del racconto Il volo, di cui in questa pagina pubblichiamo ampi stralci – è uno degli scrittori più importanti del panorama statunitense. Classe 1939, nato e cresciuto nel Michigan, ma figlio di genitori cattolici emigrati dal Massachusetts, McGuane è un conoscitore e un narratore perfetto dell’America profonda. È il cantore di un’America sospesa tra il vecchio e il nuovo, tra le periferie piene di non luoghi e le sue città futuristiche. Ha lavorato in un ranch, ha combattuto per tutta la vita con il ricordo di un padre alcolista. Si è spostato dal Wyoming al Montana sempre attratto dalla libertà e dagli spazi privi di confini, ma è stato fin da giovane legato intellettualmente a scrittori come Jim Harrison e ha frequentato l’università di Yale. Ecco allora che la sua letteratura (il libro d’esordio è il corrosivo The Sporting Club, del 1969) mette in scena, con linguaggio e gusto picaresco, le contraddizioni e i tic della società a stelle e strisce. Nel suo romanzo più noto Correndo sul filo (in Italia uscito da Dalai editore nel 2011) narra le tragicomiche vicende di Irving Berlin Pickett, trascinato dai genitori nei loro continui spostamenti e iniziato all’amore dalla zia Silbie. Le cose non migliorano quando deve destreggiarsi tra il lavoro di medico in una cittadina del Montana e la presenza ingombrante di una serie di donne, tra amore, sesso e guai.
Nel caso di Il volo, però – pubblicato in esclusiva in Italia da domani sul sito della rivista Satisfiction ideata e diretta da Gian Paolo Serino (www.satisfiction.me) – la scrittura di McGuane prende strade diverse. Il racconto ha un passo più metafisico, come spiega l’autore stesso a Satisfiction: «Ho cercato di esprimere i miei sentimenti riguardo la morte e la paura della morte».

Thomas Francis McGuane, da “il Giornale

Durante la stagione degli uccelli, i cani si corrono dietro in cerchio nella mia cucina, i giubbotti giacciono accatastati nell’ingresso, le tubature sono intasate dalle piume, e i cacciatori cercano rimedi per il malessere dentro un frigorifero. Dato che lavoro di giorno, osservo con una certa malizia queste presenze, cercando di capire chi farà e chi non farà buona caccia. Quest’anno è stato leggermente differente perché Dan Ashaway è arrivato gravemente malato. Eppure questa mattina, sembrava essere quasi l’unica persona lucida in cucina. Ha contribuito a preparare l’ampia colazione a base di pasticcio di gallo, uova, succo di frutta, e caffè. Quei miserabili di Bill Upton e suo fratello, Jerry hanno caricato i cani e sono partiti a un’ora criminalmente presta. Ho spinto via alcuni piatti e mi sono acceso un sigaro per la colazione. Dan ha versato il caffè e si è seduto. Cacciamo uccelli insieme da anni. Io vivo qui e Dan arriva in volo da Philadelphia. In ogni caso, quello mi è sembrato il momento.
«Quanto stai male, Dan?» ho chiesto.
«Temo che non guarirò», ha detto Dan, in modo diretto, alzando e abbassando le mani sui braccioli della sedia. Tutto qui. «Beh, andiamo», ha detto poi.
Abbiamo preso i cani di Dan, dopo che lui ha insistito per questo. Loro sono saltati sulle cassette di alluminio sul retro del camion quando lui ha detto «Forza»: Betty è una femmina per metà bianca e per metà di un rossiccio bruno, mentre Sally ha il viso volpino e striato. Questi erano – o farei meglio a dire sono – i due vecchi pointer privi di addestramento, a cui Dan faceva trovare e recuperare gli uccelli senza nemmeno bisogno di un richiamo.
Mentre abbiamo guidato verso Roundup, tutti i miei pensieri sono stati rivolti all’importanza che aveva essere vivi. Era una consapevolezza strana eppure felice.
***
Ogni volta che la strada sterrata saliva, il paesaggio cambiava. Per lungo tempo abbiamo costeggiato un torrente verdastro, ricoperto da salici, poi il torrente è proseguito sotto un ponte, e noi siamo saliti verso nord. Quando siamo ritornati in piano, il paesaggio davanti a noi ci è sembrato sconfinato: un’immensa prateria dai contorni indefiniti come quelli del mare. C’erano montagnette che emergevano qua e là dalla superficie e gole dove tra la boscaglia scorreva un fiumiciattolo. Non ci abbiamo pensato su e ci siamo fermati, lasciandoci il camioncino alle spalle. Dan ha sorriso e ha detto: «Ecco il posto per farsi una dormita eterna».
***
Poi non sono riuscito a frenarmi. «Che cosa significa che non migliorerai?».
«È la verità, vecchio mio. Ma, ascolta, ora non voglio pensarci. Per cui non cominciare».
Ero arrabbiato con me stesso. A tutti tocca andarsene, ho pensato. È come aspettare che scatti un allarme, quando è troppo buio per leggere il quadrante. Guardando il grande petto di Dan proteso nelle sue bretelle da poliziotto, era quasi inimmaginabile che esistesse qualcosa che potesse renderlo polvere. Ma mi ero parecchio sbagliato anche su questo.
Un piccolo antilope solitario si è fermato e ci ha guardato da lontano. Dan ha messo il suo cappello sulle canne dell’arma e si è avvicinato allo stupido animale a una trentina di iarde prima che questi sbuffasse e corresse via. A volte ci è capitato di trovare gli ostacoli per le antilopi costruiti dagli indiani, di solito non molto lontano dalle trappole per le aquile, cose intelligenti fatte da mani vitali. C’erano vecchie cassette di cartucce accanto al fiume, che giacevano nella sporcizia, calibro 45-70 – forse una rissa, forse un vecchio allevatore che aveva cacciato un’antilope con un fucile da cavalleria. Chi lo sa. Un miraggio tremolante è apparso a sud, blu e cinto dalle colline distanti. Tutto intorno a noi la prateria brulicava di vita. Ho cercato di immaginarmi gli indiani, i soldati. Quasi li vedevo. Se ne erano andati o no?
«Non so se voglio farlo».
«Prima troviamoli», dissi. Avrei avuto un sacco di tempo, in seguito, per pensare a quella frase.
Dan ci ha riflettuto su e poi ha detto: «Questo è interessante. Li troveremo e decideremo se vogliamo farlo o lasciar perdere». I pointer si sono alzati, hanno stiracchiato la schiena, guardato verso di noi, dimenando la coda, e poi sono andati a sdraiarsi di nuovo vicino al torrente. Poi ho avuto una sensazione strana. Dan si è fatto silenzioso. Fissava verso l’orizzonte. Dopo un minuto, un sorriso gli ha attraversato di colpo il viso. Ecco che cosa stavano guardando i cani. Siamo scattati subito in piedi e ci siamo mossi.
«Ecco», ha detto Dan, ai cani o a me – questo non l’ho capito. Betty e Sally sono scattati in avanti, correndo nel vento. Betty è stata quella che è andata a passo più spedito. Sally ha fiutato meticolosa il terreno. Riuscivo quasi a sentire il piacere di Dan nel vedere i suoi cani, di razza, belli e veloci.
«Quando porti a caccia queste bestie», ha detto, «devi dar loro da mangiare hamburger, uova, pancetta, insieme a quelle crocchette che mangiano di solito. Nei giorni davvero caldi devi metter loro degli elettroliti nell’acqua. Betty entra in calore nel mese di aprile e ottobre; Sally a marzo e settembre. A Sally viene un po’ di febbre e con l’alta temperatura per la prima settimana e mezza non le si può portare a caccia. Le faccio sempre restare in casa. A inizio agosto metto loro addosso un’imbrigliatura da cavallo per tenerle in forma. Sono state entrambe cavalcate».
Ho cominciato a sentirmi stordito e stanco. Forse la vita non è qualcosa che perdi alla fine di una lunga battaglia. Ma non ci ho pensato e mi sono detto, Queste cose possono continuare ancora e ancora.
Sally si è lanciata sopra una infossatura. Betty ci è entrata dentro ed è risalita dall’altra parte. C’era un’ombra che si muoveva in mezzo all’erba più profonda. Sally si è bloccata proprio sul bordo, e Dan ha agitato la mano verso Betty. Lei è arrivata dall’altra parte, ha annusato, è strisciata dentro e ha puntato.
Dan mi ha sorriso. «Augurami buona fortuna», mi ha detto. Poi ha preso la sua pistola, si è avvicinato al bordo, ed è scomparso dalla vista. Sono rimasto seduto per terra fino a quando non ho sentito lo sparo. Dopo un po’ lo stormo si è alzato in volo, otto uccelli scuri che si sono allontanati verso l’alto. Ho fatto un fischio ai cani, poi ho cominciato a dirigermi verso il camion.
Traduzione: Nicola Manuppelli

Alla ricerca della pietra filosofale non c’era solo Harry Potter. Ecco chi era Cristina di Svezia

gennaio 29, 2012

Cristina di Svezia

L’illuminata sovrana con quel suo carattere impulsivo, irrequieto e così poco svedese è una figura leggendaria

Jacopo Granzotto per “il Giornale

Oggi non c’è bisogno di leggere (o andare al cinema) per farsi una cultura sufficiente. Telefonini e internet sono un comodo supporto per una nuova razza di pigri.

Harry Potter, ad esempio, chi non lo conosce? Per i pochi ancora all’oscuro si tratta di un giovane mago alle prese con le forze del male alla perenne ricerca della «pietra filosofale». Che è una sostanza catalizzatrice simbolo dell’alchimia, una pietra capace di risanare la corruzione della materia. Insomma, oggetto mitico inseguito da sempre, e non solo da questo Potter. Quattrocento anni orsono, anche Cristina, regina di Svezia, si mise sulle tracce della pietra.

L’illuminata sovrana con quel suo carattere impulsivo, irrequieto e così poco svedese è una figura leggendaria. Se se sono dette di cose su di lei (bruttino il film del 1933 con la Garbo): insonne, ferocemente mattiniera, calma solo di fronte a Dio e alla Chiesa, sessualmente ambigua. Persino portasfiga. Sull’esilio romano (dal 1654 e fino alla morte sopraggiunta nel 1689) ne parla compiutamente l’esperta Anna Maria Partini nel suo «Cristina di Svezia e il suo Cenacolo romano» edizioni Mediterranee. Volume interessante che si legge in un fiato, pieno zeppo di documenti affascinanti a corredo della biografia della donna più ammirata e calunniata d’Europa, una sorta di vanto e scandalo vivente.

Cristina, che donna. Chi non la conosceva la trovava strana, con quei capelli sempre in disordine, le mani imbrattate d’inchiostro e una spalla pià alta dell’altra. Era bassa ma non ricorreva al trucco del tacco, era tutta d’un pezzo insomma. Si dice che parlasse cinque lingue, latino compreso. Giunta a Roma nel dicembre 1655 fece il suo ingresso trionfale attraverso la Porta del Popolo (c’è ancora la scritta). Amava la musica e possedeva una smisurata collezione di strumenti musicali. Già nel 1647 aveva chiamato a Stoccolma un complesso di violinisti francesi e nel 1652, scrive la Partini, il romano Vincenzo Albruci.

A Roma il suo mecenatismo si estese tra gli altri ad Alessandro Scarlatti e Arcangelo Corelli. Ma il vero grande amore fu l’alchimia, «la sua vita – scrive ancora la Partini – si svolse in uno dei secoli più importanti per la ricerca dell’«oro filosofale. E continua ad esserlo ancora. Non a caso è stata donata alla biblioteca dell’Accademia dei Lincei residente a Palazzo Corsini, l’antico Palazzo Riario, una delle più ricche collezioni di manoscritti e stampe rare di ermenetismo alchemico: il fondo Verginelli- Rota.

Ma il libro dipinge magistralmente la vita di Cristina nel suo palazzo romano, la sovrana viveva come una regina circondata da studiosi e cardinali. Raramente dava opinioni, ascoltava, ma le sue illuminate riunioni settimanali rimarranno nelle storia magica di Roma. Buona lettura.

Non è anormale essere felici

gennaio 29, 2012

Jeanette Winterson

Jeanette Winterson per “Il Corriere della Sera

Puoi essere normale e felice. È la promessa delle religioni. Ti dicono la tua norma, il tuo posto nel piano del cosmo, della creazione, di Dio. Ti dicono che quella norma è la strada lungo la quale puoi inseguire la tua felicità. Almeno in teoria. In pratica, quando sperimentiamo Dio, normalità e felicità si scontrano. Si combattono. La scrittrice inglese Jeanette Winterson pone la questione al centro del suo nuovo libroWhy Be Happy When You Could Be Normal? (Jonathan Cape, Londra). A tanti anni dal primo romanzo del 1985 che la fece conoscere in tutto il mondo, e che uscì da Mondadori nel 1994 con il titolo Non ci sono solo le arance, Winterson ritorna su quella storia «semi-autobiografica» e ne ricerca il senso.

Il suo privatissimo percorso, per quanto unico, pone domande e offre risposte che riguardano tutti. Figlia adottiva di una coppia di cristiani pentecostali, la piccola Jeanette cerca la propria felicità contro il Dio cupo e depressivo della madre. La donna vede il demonio dappertutto, conduce una vita separata dal mondo, venera l’Apocalisse, «ama tutto ciò che va contro il Papa» e minaccia i mormoni di dannazione eterna. Ha orrore del sesso: passa le notti a preparare dolci per evitare di dormire col marito. A 16 anni, Jeanette si innamora di una coetanea e decide di andarsene di casa. Sulla soglia, spiega alla madre: «Quando sto con lei sono felice; semplicemente felice». La replica della donna è il tema e il titolo del libro: «Perché essere felice, quando potresti essere normale?».

Il libro della Winterson è una risposta onesta: senza manipolazione, auto-inganno, fuga nella teologia o nella politica per negare la realtà contraddittoria dell’esperienza religiosa. Winterson tesse il racconto di una normalità violenta e malata, riflesso di una felicità nell’aldilà da riscattare con l’infelicità nell’aldiquà. Per la madre «felice significava cattivo/sbagliato/peccaminoso. O semplicemente stupido», mentre invece «infelice portava con sé la virtù». La SignoraWinterson, ricorda la figlia, «era infelice, e noi dovevamo essere infelici con lei». Spettacolari e drammatiche le conseguenze: è rogo in giardino, quando la madre scopre i primi romanzi acquistati da Jeanette e nascosti sotto il materasso; sono giorni di digiuno ed esorcismi, quando la madre trova la figlia a letto con l’amica.

Fino a 16 anni Jeanette ha sperimentato una Chiesa in cui «le risposte, anche le più sceme, venivano preferite ad una domanda vera»; dove il sesso era male, il dogma «crudele» e si copriva la tv con un panno la domenica perché gli interdetti venivano presi sul serio. Ma nella Chiesa Winterson ha anche fatto esperienza del «senso di appartenenza a qualcosa di grande e di importante», di «impulsi religiosi» resistenti alla secolarizzazione. La sua Elim Pentecostal Church era comunque il luogo della festa e del rito, dell’«odore di Gesù», della solidarietà e delle «potenzialità immaginifiche». Per la classe operaia di cui Jeanette era figlia, poteva venire solo dalla religione la «sfida dell’amore all’arroganza del potere e all’inganno della ricchezza». Era la Bibbia a dire alla ragazzina solitaria che se anche nessuno la amava sulla terra, c’era un Dio in cielo a pensarla come il bene più prezioso. C’era una felicità da perseguire, come gli stessi padri della Costituzione americana avevano imparato dalle Scritture. Più che una promessa, una chance. È questo il significato della radice hap da cui l’inglese happiness: la sorte buona o cattiva con cui devi fare i conti; «le carte che ti trovi in mano».

Fuggendo da una normalità infelice e oppressiva, giocandosi le sue carte, Jeanette ha rifiutato un Dio perverso e ha scelto un Dio liberante. Imparando il potere della parola e del testo da una madre che leggeva la Bibbia «come se fosse stata appena scritta», la scrittrice di Manchester non ha aspettato che la promessa di felicità della religione si compisse per miracolo, ricompensa di una normale infelicità. È uscita di casa ed è andata a cercarsi la normalità e la felicità che il Dio anormale ed infelice di sua madre non avrebbe mai potuto darle.

Disegnare per salvarsi dall´orrore di Dachau

gennaio 29, 2012

Esposte a Legnano le strazianti carte create da Zoran Music in campo di concentramento: “Una ragione per resistere”

Armando Besio per “la Repubblica”

Legnano – «Comincio timidamente a disegnare. Forse così mi salvo. Nel pericolo avrò forse una ragione di resistere». Novembre 1944. L´artista sloveno Zoran Music è la matricola 128231 del campo di concetramento di Dachau. Ha 35 anni. È nato a Bukovica, un villaggio di confine a pochi chilometri da Gorizia, allora territorio austroungarico, occupato dai nazifascisti. La sua colpa, avere rifiutato l´arruolamento nelle SS. Il fisico robusto, che lo aiuterà a sopravvivere, lo rende “sfruttabile” per il lavoro nello stabilimento di munizioni. Dove di nascosto si procura carta e matita. «Disegno come in tranche… le cose viste strada facendo verso la fabbrica». Scene agghiaccianti: «L´arrivo di un trasporto. Un carro bestiame aperto. Cascano fuori i morti. Qualche sopravvissuto impazzito urla, con gli occhi fuori dalle orbite».
Sei mesi vissuti «in un quotidiano paesaggio di morti e di moribondi», testimoniati dagli strazianti disegni che aprono la mostra “Se questo è un uomo” curata da Flavio Arensi a Legnano (Palazzo Leone da Perego, fino al 19 febbraio, catalogo Allemandi). Il titolo è lo stesso del memoriale di Primo Levi da Auschwitz: «Voi che vivete sicuri – nelle vostre tiepide case – voi che trovate tornando a sera – il cibo caldo e visi amici – considerate se questo è un uomo – che lavora nel fango – che non conosce pace – che lotta per mezzo pane – che muore per un sì o per un no».
I primi fogli in mostra, mai visti in Italia, prestati da un collezionista sloveno, sono datati “Dachau 1945”. Poveri corpi ridotti a scheletri, adagiati per terra, in attesa di sepoltura, nei giorni della liberazione del campo da parte dell´esercito americano. Nelle sale successive colpiscono al cuore i dipinti e le incisioni del ciclo “Noi non siamo gli ultimi”, realizzato a partire dal 1970. Music vive tra Parigi e Venezia, è un artista di successo. «Ma ancora oggi mi accompagnano gli occhi dei moribondi, come centinaia di scintille pungenti». L´incubo resuscitato si fa memoria e monito. La Shoah potrebbe ripetersi, avverte con queste opere. Volti scarnificati, contratti in smorfie di dolore che ricordano l´Urlo di Munch. Mani magre, aggrovigliate come radici di un albero rinsecchito. Corpi, cataste di corpi, che svaniscono in un pallore informale: «Il bianco era il colore dei cadaveri senza quasi più carne».
Integra l´esposizione una piccola ma efficace antologia dell´altro Music, protagonista di un percorso pittorico iniziato nel segno di una figurazione lieve (Cavalli che passano, 1948), approdato a un´astrazione informale (Terre dalmate, 1960), sempre con uno stile parsimonioso, fatto di pochi segni e pochi colori. Ecco i paesaggi senesi del dopoguerra (quando Music viaggia in Italia come giornalista), la Cattedrale parigina del 1984, che ricorda Monet ma ne ribalta la prospettiva e l´umore (Music non è stregato dalla luce che accarezza la facciata, ma dal buio che avvolge l´interno), la Giudecca e altri scorci veneziani (i cordami aggrovigliati evocano le braccia dei morti nei campi), i toccanti ritratti della Donna con cappello, l´amatissima moglie e musa Ida Barbarigo. Chiudono il percorso gli evanescenti autoritratti degli anni ´90. Music, quasi cieco, vi appare come una Grande figura grigia avvolta nella nebbia. Morirà quasi centenario. Le sue ceneri sono custodite in laguna, sull´isola di San Michele.

Diritti Globali

Testimone volontario

gennaio 29, 2012

Gaetano Vallini per “L’Osservatore Romano

È una storia particolare quella di Denis Avey, classe 1919, testimone volontario dell’orrore della Shoah. E si fa fatica a credere fino in fondo che sia davvero accaduta. Durante l’ultimo conflitto mondiale Avey vestiva la divisa dell’esercito di sua maestà britannica. In Egitto fu catturato dai tedeschi e portato in un campo di prigionia vicino ad Auschwitz. Lì, «tormentato dal bisogno di sapere», di vedere per quanto possibile con i suoi occhi ciò che si intuiva, prese una decisione impensabile: sostituirsi a un detenuto ebreo che aveva conosciuto sul luogo del lavoro forzato che accomunava prigionieri di guerra e altri internati. Lo fece per due volte, indossando la casacca a righe con la stella gialla. Rimase nel famigerato lager solo per pochi giorni. Ma tanto gli bastò per osservare l’inferno.

Tornato libero avrebbe voluto testimoniare quanto visto, ma non ci riuscì; a guerra finita era più comodo celebrare l’eroismo piuttosto che interrogarsi sulle atrocità. «Nel 1945 nessuno aveva voluto ascoltarmi», dice oggi, a 93 anni, dopo aver deciso di scrivere le memorie di quell’incredibile avventura. Il libro è divenuto subito un bestseller in patria e in Italia — dove è uscito con il titolo Auschwitz. Ero il numero 220543 (Roma, Newton Compton, 2011, pagine 331, euro 9,90) — è già alla quindicesima edizione in due mesi, segno evidente della curiosità suscitata da una vicenda tanto inconsueta.

Il prologo del volume, scritto con il giornalista della Bbc Bob Broomby che lo aveva intervistato per la tv rendendo così nota per la prima volta la vicenda dopo sessantacinque anni, è storia recente. Parla della visita che Avey ha fatto al numero 10 di Downing Street il 22 gennaio 2010 su invito dell’allora premier Gordon Brown, colpito da quell’intervista, tanto da far inserire successivamente il nome di Denis Avey tra i ventisette inglesi «eroi dell’Olocausto».

Il racconto vero e proprio delle esperienze belliche è cronologico, iniziando dall’arruolamento volontario nel 1940, a 21 anni, nella 7ª Divisione britannica, i cosiddetti Desert Rats, e la successiva partenza a bordo di una nave dal porto di Liverpool. Da lì in poi c’è spazio per vicende di guerra più o meno ordinarie sul fronte africano, tra sanguinose battaglie e momenti di calma, tra atti eroici e paura. Fino alla cattura. Ed è da qui che i ricordi si fanno più drammatici, entrando nel vivo della tragedia della Shoah.

È il 1943 e Avey viene mandato nel campo di prigionia E715, sette chilometri da Monowitz (noto come Auschwitz III). I soldati inglesi e gli ebrei lavoravano insieme alla costruzione di una fabbrica della ig Farben, il colosso della chimica che avrebbe prodotto una gomma sintetica indispensabile alla macchina da guerra nazista. Spartivano gli stenti, il peso di undici ore di fatica al giorno, ma non le vessazioni, le torture, le esecuzioni arbitrarie, che erano riservate solo a quegli uomini ombra con l’uniforme a righe e il volto terreo.

«Molti di loro — ricorda l’anziano — ci imploravano, semmai fossimo riusciti a fare ritorno a casa, di raccontare al mondo ciò che avevamo visto. Gli uomini a righe sapevano bene quale fosse il destino in serbo per tutti loro. La prova era nel tanfo che usciva dai crematori. E sì che anche noi avevamo sentito le voci che giravano a proposito delle camere a gas e delle selezioni, ma io non potevo accontentarmi delle dicerie. Le parole “congettura” e “ipotesi” non appartengono al mio vocabolario. Se anche non avevo cognizione delle differenze tra un campo e l’altro, dovevo scoprire a tutti i costi cosa stesse trasformando quegli esseri umani in ombre».

Fu così che l’anno successivo Denis Avey decise che non poteva restare lì senza sapere che cosa accadeva realmente dietro l’altro reticolato. «Con il trascorrere delle settimane — racconta — riuscii di tanto in tanto a scambiare qualche parola con Hans (un prigioniero ebreo, ndr), e nella mia mente prese forma l’idea di prendere il suo posto». Convinse Hans, ben lieto, nonostante il rischio mortale, di poter mangiare qualche pasto decente; studiò i movimenti di prigionieri e guardie, quindi agì, corrompendo qualche kapò. E mettendo volontariamente a rischio la propria vita.

Ciò che vide non è differente da quanto testimoniato dagli ebrei sopravvissuti: il denso e ininterrotto fumo delle ciminiere dei forni crematori, i cadaveri ammassati, le brutali e immotivate violenze che non risparmiavano neppure i bambini, le terribili condizioni cui erano sottoposti i deportati. Nel ricordo c’è dunque tutto l’orrore di quella caduta nell’abisso della peggiore abiezione umana. Ma c’è chi mette in dubbio la veridicità della storia. Il «Daily Mail», insospettito da un così lungo silenzio, si è chiesto se Avey non si sia inventato tutto. Dalle pagine del giornale ex deportati e prigionieri, alcuni storici e rappresentanti di organizzazioni ebraiche mettono in dubbio il suo racconto sia perché è simile a quello già noto di un altro prigioniero all’E751, Charles Coward, sia per diverse incongruenze, come il passaggio sotto il cartello Arbeit macht frei perchè questo era all’ingresso del campo Auschwitz i e non del III dove Avey afferma di essersi introdotto. E soprattutto temono che questa vicenda, oltre che un insulto alla memoria delle vittime, possa fornire ulteriori motivi ai negazionisti. Eppoi resta il dato essenziale che non c’è nessuno oggi che possa confermare quei fatti.

Così come nessuno può avvalorare direttamente un’altra storia contenuta nel libro, meno straordinaria ma non meno significativa, anzi sicuramente meritoria visto che riguarda la salvezza di una vita umana. In quello stesso periodo Avey incontrò Ernst Lobenthal, ebreo tedesco che gli confidò di avere una sorella rifugiata a Birmingham, chiedendogli di farle avere sue notizie. L’inglese promise di farlo e riuscì in qualche modo a raggiungerla attraverso una lettera in codice inviata a sua madre. w Quest’ultima contattò la sorella di Ernst e alcuni mesi dopo attraverso la Croce Rossa Avey ricette duecento pacchetti di sigarette. Un tesoro inestimabile nel campo, dove valevano più dell’oro.

Quelle sigarette, passate con non pochi rischi una stecca alla volta, furono essenziali per mantenere in vita Ernst ad Auschwitz. Non solo. Servirono anche a procurargli il paio di scarpe che gli permise di sopravvivere alla terribile marcia tra i ghiacci cui gli ebrei ancora vivi furono costretti dai tedeschi in fuga per evacuare il campo e che fece altre migliaia di vittime. Fu lo stesso Lobenthal a raccontare questa storia in un’intervista per la Shoah Foudation, sette anni prima della sua morte negli Stati Uniti nel 2002. Ma questa testimonianza non pare sufficiente per il riconoscimento di Avey come Giusto tra le Nazioni poiché, spiegano allo Yad Vashem, non c’è nessun altro sopravvissuto per confermare la storia.

C’è tuttavia anche chi non meno autorevolmente ritiene credibile, e quindi veritiero, l’intero racconto. Come il noto storico Sir Martin Gilbert, il quale nella prefazione definisce il libro «di capitale importanza, perché ci riporta subito alla mente i pericoli che incombono sulla società quando intolleranza e razzismo riescono a mettere radici. Denis Avey ci avverte che fascismo e genocidio non sono scomparsi; anzi, come ha precisato, “potrebbero verificarsi anche qui”. E ciò potrebbe davvero succedere ovunque, e ogni volta che permettiamo alla civiltà di corrompersi, o di farsi rovinare dalla malvagità e dal desiderio di distruzione».

Pensatori sul filo dell’eresia

gennaio 29, 2012

Giovanni Santambrogio per “Il Sole 24 Ore

Scrivi Marco Vannini appare il file mistica. Senza il suo attento lavoro di riscoperta e di traduzione, iniziato più di trent’anni fa, ignoreremmo testi importanti dei maestri dello spirito come Eckhart, Taulero, Angelus Silesius. I loro nomi e le loro parole non sarebbero entrati nella nostra biblioteca e nei nostri ragionamenti. Il misticismo appartiene alla categoria del pensiero forte, tutt’altro che sentimentale e per personalità fragili. Al contrario, viaggia in bilico tra l’ortodossia e l’eresia; così come la vita solitaria e controcorrente del mistico non sempre è compresa, spesso sospettata. La passione assoluta, esclusiva e personalissima per Dio scombussola la razionalità degli altri e mette sottosopra la propria: solo a lui è concessa l’esperienza dell’estasi, della visione, della conversazione faccia a faccia, del “rapimento” in Dio.

Il mistico abbatte i confini della ragione ed entra con tutto il corpo nei territori fisici della fede. Soprattutto gli è consentito di esplorare le aree sconosciute. Il credente vive di fede, ne fa esperienza come appartenenza a una chiesa, a una comunità, prega. Pratiche rispettate con il massimo rigore dal mistico. Ma a lui viene dato un dono in più, spesso incompreso. Questa specifica peculiarità appassiona Vannini che non cessa di approfondirla. Con gli ultimi saggi – anche il controverso Prego Dio che mi liberi da Dio (Bompiani, 2010) con a tema la religione come verità e come menzogna – lo studioso rilancia il pensiero mistico nel dibattito attuale tra credenti e non credenti per suggerire piste di riflessione sul significato del credere e della contemporaneità di Dio e per affermare quanto la postmodernità stia ripescando questioni etiche e di senso che trovano riscontro nei testi da lui studiati. Dialettica della fede, saggio uscito per Le Lettere, ricostruisce il pensiero hegeliano attorno al concetto di fede per mostrare quanto pesino le opere di Eckahart nella elaborazione del filosofo tedesco. Fede come dialettica perché muove la razionalità, ne è all’origine, anima la ricerca. Il saggio si compone di quattro approfondimenti: uno sulla fede come distacco in Eckhart, uno sulla fede come “Notte oscura” (un approfondimento di san Giovanni della Croce in relazione sempre al mistico medievale) e due che esaminano il concetto hegeliano di fede. Emerge quanto l’esperienza elettiva della mistica attraverso il “distacco”, l'”abbandono”, la “visione” sia un superamento di confini che porta la razionalità nell’irrazionale per ritornare nella realtà quotidiana e nell’esercizio della ragione con una nuova intelligenza e nuove capacità interpretative. La mistica getta luce sull’esperienza quotidiana e le offre parole e concetti per esprimere con più forza la fede. Va detto, però, che quando si entra nella storia del misticismo, si incorre in un rischio: dimenticare che ciò che muove quegli uomini e quelle donne è il desiderio di Cristo per arrivare a Dio. I mistici volano alto come aquiloni, ma un filo li lega a terra, alla comunità degli uomini e della chiesa. Se il filo si spezza o si taglia, l’aquilone si perde nell’azzurro del cielo oppure si schianta al suolo.

Marco Vannini, Dialettica della fede,
Le Lettere, Firenze, pagg. 154, € 16,50

inquadratura

gennaio 28, 2012

inquadratura

gennaio 28, 2012

Quelle note coraggiose suonate nei lager

gennaio 28, 2012

Giovanni Gavazzeni per “il Giornale

KZ potrebbe essere la sigla asettica di un’azienda o di un prodotto. È invece la sintesi di un lungo sostantivo tedesco che indica un luogo che ancor oggi sgomenta: Konzentrazionlager, campo di concentramento. Se a questa sigla aggiungiamo l’aggettivo Musik, ecco il titolo dell’Enciclopedia della musica composta nei campi di concentramento, un’immane opera di documentazione che un musicista e studioso di Barletta, Francesco Lotoro, ha effettuato in più di vent’anni di lavoro. Parte considerevole di questo patrimonio umano e musicale è stato inciso in 24 CD dall’etichetta Musikstrasse, corredato da brevi profili dei compositori e dei luoghi di internamento dove furono scritte. Si tratta di un corpus di oltre quattromila opere, scritte da musicisti di qualsiasi nazionalità, lungo un arco di tempo di dodici anni che va dall’apertura del campo di Dachau (1933) alla capitolazione del Giappone, nell’agosto del 1945.
Ebrei e cristiani, quaccheri e geovisti, comunisti e omosessuali, semplici prigionieri civili e militari hanno composto nei più svariati generi musicali durante la prigionia, spesso in condizioni estreme, vergando le note perfino sulla carta igienica. Più spesso i musicisti-deportati erano meticolosamente organizzati dagli stessi carcerieri. L’attività musicale, infatti, aveva un effetto distensivo sugli internati e, in alcuni casi i carcerieri, per esempio i tedeschi, non avrebbero mai rinunciato al piacere della musica. I campi nazisti pullulavano di orchestre: ad Auschwitz ben sei, fra i quali una tutta al femminile); mentre nell’altrettanto famigerato lager di Dachau ottantaquattro professori ebrei allietavano la domenica musicale non solo con composizioni scritte per l’occasione ma con una dieta a base di Mozart e Beethoven. E in barba ai divieti si suonava il jazz, che i gerarchi avevano bollato come massima espressione dell’arte negroide degenerata, ma che poi ascoltavano nelle loro feste private.
Un caso a se stante fu quello del campo di Theresienstadt, dove il regime nazista deportò il fiore della borghesia e dell’intellighenzia ebraica per mostrare al mondo una città «giudea» interamente indirizzata alla cultura. Lì vi furono internati compositori che sarebbero stati di primo piano come Erwin Schulhoff e Viktor Ullmann: la tubercolosi e la camera a gas di Auschwitz li strapparono dalla vita. Ad Auschwitz fra l’acre odore dei morti si faceva cabaret. Immaginare che in quella geografia del dolore che era il sistema di prigionia e sterminio nazista ci fosse sempre musica, è qualcosa che lascia basiti. Ma fa parte del mistero stesso dell’animo tedesco, in cui barbarie e cultura erano inscindibili. Lotoro ricorda una cantante ebrea livornese, Frida Misul, deportata ad Auschwitz, specializzata in parodie canore. Una guardia le spaccò i denti con il calcio del fucile, costringendola a cantare subito Mamma son tanto felice.
L’esplosione di creatività musicale nei campi di prigionia e sterminio era una reazione disperata: «Alla morte intellettuale l’uomo non si rassegna. Non c’è più distinzione di razza o di religione, davanti alla morte la musica diventa un testamento. È qualcosa che rimane, qualcosa che si lascia per non essere dimenticati», ci rammenta Lotoro. Se così non fosse non si comprende l’immenso lascito che questa straordinaria iniziativa storico-editoriale testimonia.

E la qualità delle musiche conta relativamente. Accanto al Quatuor pour la fin du temps che Oliver Messiaen scrisse nello stalag di Goerlitz ci sono musiche che difficilmente raggiungeranno quell’altezza, ma nondimeno sono vivi documenti di un dramma umano. Primo Levi a un ufficiale che gli aveva brutalmente strappato un pezzo di ghiaccio con cui placare la sete, chiese «Perché?». «Qui non c’è un perché». E ancora oggi non c’è. Ma quelle voci ora tornano dall’abisso.

L’altro carcere di Gramsci

gennaio 28, 2012

Antonio Gramsci

Nello Ajello per “la Repubblica”

Un romanzo storico e un romanzo a tesi. Sono i “generi” che s´intrecciano nel volume di Franco Lo Piparo, I due carceri di Gramsci, appena uscito per Donzelli. Mai come questa volta spiegare un titolo non sarà superfluo. La trama storica percorre il destino toccato all´esponente sardo che nel 1928 il Tribunale speciale fascista condannò a vent´anni di reclusione (ne avrebbe scontati sei, ovvero otto se si calcola la fase d´arresto preventivo). Ecco, invece, la tesi. Secondo l´autore, alla pena inferta a Gramsci si sarebbe aggiunta, dopo la concessione della libertà condizionata, una condanna al silenzio. La decretò, a suo danno, il partito di cui egli era stato a capo. Fu un altro carcere, metaforico, di cui Gramsci avrebbe sofferto fino alla morte, nell´aprile del ´37 (con una postilla finale in cui si avanza la tesi di un quaderno, l´ultimo, scomparso).
È in questa seconda direzione che si sviluppa la ricerca di Lo Piparo, un filosofo del linguaggio che con Gramsci si è più volte misurato. Egli illustra ogni passo degli scritti gramsciani che sorreggono l´assunto. Il quale, agli occhi di chi abbia familiarità con la figura del leader sardo, risulterà meno provocatorio di quanto prometta. È infatti lontano il tempo in cui veniva data per scontata la concordia fra i testi gramsciani e le posizioni di quel Pci che lo avrebbe assunto a proprio nume tutelare.
Ben presto il carattere strumentale dell´operazione era emerso fra gli studiosi. Non a caso un certo sentore, se non di liberalismo, certo di socialdemocrazia emergeva dagli scritti gramsciani, anche se questi erano stati revisionati da Togliatti con l´aiuto di intellettuali di comprovata ortodossia comunista. Non a caso sia Benedetto Croce a proposito delle Lettere dal carcere, sia un suo seguace indocile come Luigi Russo, avevano espresso su Gramsci un giudizio quanto meno comprensivo. Basterà, d´altronde, scorrere la bibliografia che Lo Piparo include nel suo saggio per notare la presenza di studiosi che di Gramsci hanno posto in risalto l´eterogeneità rispetto alla liturgia staliniana. Vi si trovano, per esempio, Aldo Natoli, Carlo Muscetta, Paolo Spriano e Giuseppe Fiori. Di quest´ultimo aggiungerei all´elenco di Lo Piparo la monografia Gramsci Togliatti Stalin (Laterza, 1991), in cui viene documentato quel contrasto fra l´obbedienza di partito e il dovere della verità, che nell´autore dei Quaderni fu centrale.
Nelle pagine di I due carceri (sostantivo maschilizzato nel plurale con l´autorevole consenso di Tullio De Mauro) ciò che più conta non è la tesi generale, quanto l´insieme dei personaggi. Soprattutto due: Tania, la cognata di Gramsci, e Piero Sraffa. Essi rappresentano la metà d´un quadrilatero che presiede al passaggio di impressioni, invocazioni ed ukase fra “dentro” e “fuori” il luogo di pena. I terminali del tragitto sono Gramsci e Togliatti. Tania, che può avvicinare il prigioniero e forse prova amore per lui, ne trasferisce i messaggi a Sraffa, che li trascrive per Togliatti a Mosca. La stessa trafila funziona in direzione inversa.
Le censure, sia fascista sia bolscevica, trasformano le lettere, rendendole, a tratti, esemplari nell´arte del dire e non dire. Sraffa, intellettuale raffinato, amico di Togliatti ma vigile nei rapporti con il vertice sovietico e apparentemente opaco quanto a ideologia (sarà «un comunista coperto»?), rappresenta la parte più ardua del rebus. Tania è un interrogativo in forma di donna. Della sua «vita privata», scrive Lo Piparo, «si sa pressoché niente», se non che è «la meno comunista delle sorelle Schucht» (meno di Giulia, la moglie di Antonio, donna dalla psiche delicata, legata come le sue sorelle ai servizi segreti sovietici. Meno ancora si sa di Eugenia, considerata una “bolscevica” integrale). Trascritte e commentate da Lo Piparo, molte delle lettere di Gramsci, pur sottoposte a quegli arrischiati tragitti, conservano un fascino inquieto.
Non sapremmo, costretti alla brevità, quali scegliere tra le missive. In quella datata 27 febbraio 1933, Lo Piparo mette in rilievo la dichiarazione, da parte del prigioniero, della «propria estraneità, filosofica anzitutto, al comunismo»: e infatti sarà espunta da Togliatti nell´edizione del ´47 delle Lettere dal carcere. Ce n´è una del 14 novembre 1932 in cui il prigioniero comunica la sua decisione di divorziare da Giulia, madre dei suoi figli. Segna il massimo dell´emotività epistolare, esprimendo il doppio ruolo interpretato da quella donna nell´animo del recluso: è sua moglie ma, nota Lo Piparo, «è la Russia sovietica».
L´eco di un´altra lettera aleggia nel libro. La scrisse nel 1928, durante il processo Gramsci, l´alto esponente comunista Ruggero Grieco. Indirizzata a Mosca, dove risiedeva Togliatti, e poi spedita a Gramsci nel carcere di San Vittore, s´intrattiene sui casi del comunismo nel mondo. All´intellettuale sardo non sfugge però di essere lui il protagonista di quei fogli. Vi si sottolinea il ruolo centrale che egli ha svolto nel Pci. Il giudice istruttore del processo non mancherà infatti di osservare: «Onorevole, lei ha degli amici i quali certamente desiderano che rimanga un pezzo in galera». Un «atto deplorevolissimo» Gramsci avrebbe sempre giudicato la lettera di Grieco.
Nel complesso, quella tracciata da Lo Piparo è la parabola di un comunista a sé stante, di cui il partito volle reprimere ansie e anticonformismi. Il trattamento a lui riservato dopo la morte, con l´edizione revisionata dei suoi trentatré Quaderni (in una lunga postilla finale del volume emerge la possibile esistenza di un quaderno poi scomparso, il trentaquattresimo: per mano di chi?) resta un promemoria della perfidia di Togliatti. Quegli scritti – così si sarebbe espresso il segretario del Pci il 25 aprile 1941 – «possono essere utilizzati solo dopo un´accurata elaborazione»: solo così il partito li darà alle stampe. Dopo non essersi troppo adoperato per liberare il suo ex-segretario dalle carceri fasciste, il Pci decise in ritardo di ricordarsi di lui onorandone la memoria. Ma l´interpretazione di Lo Piparo è, a questo riguardo, molto netta: un Gramsci libero, in era fascista, non avrebbe avuto lunga vita: «Un plotone di esecuzione o un attentato erano a portata di mano». Su questa linea è la conclusione dell´autore dei Due carceri di Gramsci: proprio perché opportunista, Togliatti salvò Gramsci. Al che non si sa bene che cosa replicare. A volte, in tempi politicamente atroci, c´è più verità in un paradosso che in cento professioni di fede.

Diritti Globali

Quei “compagni” alla corte di Goebbels

gennaio 28, 2012

Stenio Solinas per “il Giornale

È un libro strano e bello L’albero del mondo di Mauro Mazza (Fazi, pagg. 158, euro 16). Saggio e romanzo, è una riflessione storica sulla generazione che, per chi come l’autore e chi scrive ha superato i cinquant’anni, fu quella dei padri, e tuttavia anche un esame di coscienza per la propria, da quei padri segnata, certo, e però alla ricerca di una propria via individuale che nel rispetto e, se il caso, nel disprezzo per ciò che è stato, permetta una volta per tutte l’uscita dal tunnel delle ideologie novecentesche che così duramente segnarono quel secolo.

Il sottotitolo recita Weimar, ottobre 1942, ovvero l’autunno del disincanto per molti degli intellettuali fascisti chiamati a discutere nella cittadina tedesca sullo stato della cultura e dell’Europa, ovvero sul proprio «domani», vincitori o vinti. Dopo le conquiste sfolgoranti dei primi anni, la guerra aveva preso un’altra piega: erano scesi in campo gli Usa, la Wehrmacht si era trovata bloccata a Stalingrado, l’Italia si era rivelata l’anello di latta di un patto d’acciaio non più tale. Che fare? Come comportarsi? A chi credere? Fra gli scrittori italiani presenti a Weimar, Mazza focalizza l’interesse sulla «promessa» Giaime Pintor, germanista di valore a dispetto della giovane età (era poco più che ventenne), e sul più «anziano» Elio Vttorini, trentenne, romanziere, polemista, traduttore.

Gli altri, i Falqui, i Baldini, i Cecchi, appartengono in fondo, per gusti, abitudini, temperamenti, stili di vita, al vecchio mondo liberale che vent’anni prima il fascismo aveva politicamente spazzato via. Sono professori, studiosi di tutto rispetto, ma tutti più o meno conservatori, più o meno reazionari, più o meno codini, più o meno apolitici. Stanno sì con il Regime, ma l’impressione è che starebbero con qualsiasi regime purché venisse loro concesso di zappare il proprio orticello letterario non dando fastidio a nessuno.

Pintor e Vittorini sono generazionalmente un’altra cosa e Mazza lo racconta bene, con un intelligente uso di pubblico e privato: sentimenti e delusioni sentimentali, dichiarazioni di principio e infatuazioni letterarie. Sono nati con il fascismo e nel fascismo e se Elio, allora ragazzino, ha sognato nel ’22 di sfilare con le camicie nere, l’adolescente Giaime si è arruolato per combattere quella Seconda guerra mondiale che in patria viene presentata come uno scontro di civiltà, nazioni giovani contro nazioni vecchie, il sangue contro l’oro…

Quando un giorno ci si deciderà a fare sul serio la storia intellettuale del Ventennio, un capitolo spetterà a chi diede al fascismo molto più di quanto in cambio ricevette, e che dal fascismo si distaccò non tanto nel nome di un generico o convinto dissenso ideologico, ma più semplicemente perché si accorse che il vero «fascismo» era il loro e non quello di un regime codificatosi in una recita dove la gerarchia era una posa, la fantasia un’illusione, l’anticonformismo una colpa.

I Malaparte, i Longanesi, i Berto Ricci, i giovanissimi dei tempi della marcia su Roma come i teorici della cosiddetta «seconda ondata» rivoluzionaria, a lungo si ostinarono a pensare che i loro sforzi intellettuali, libri, riviste, convegni, polemiche, potessero contribuire a fare dell’intuizione di un singolo individuo un patrimonio nazionale. Gli rimase invece fra le mani il combinato disposto di un sistema che sempre meno tollerava la discussione, che sempre più premiava l’acquiescenza, di una dottrina che per codificarsi annullava qualsiasi eresia feconda e si accontentava di una sterile ripetizione.

La guerra si incaricò di mostrare fino a che punto una ventennale costruzione fosse stata rosa dal suo interno, lasciandola apparentemente intatta, ma in realtà priva di senso e significato. Prima e più di tutto, il loro distacco e poi il rifiuto furono il frutto di una delusione. Un anno dopo Weimar, Pintor saltò su una mina mentre faceva da ufficiale di collegamento per conto degli Alleati. Quanto a Vittorini, entrerà nella Resistenza, scriverà il suo più brutto romanzo, Uomini e no, e nel dopoguerra andrà a sbattere contro l’ortodossia comunista. «Credeva fossimo liberali, e invece, guarda un po’, eravamo solo comunisti» ironizzerà Togliatti…
Nel libro Mazza racconta il momento dell’incertezza, quando non si crede più, ma non si sa ancora in cos’altro credere e se sia ancora possibile credere… «Nulla è più difficile che crescere» fa dire al Pintor traduttore di L’infanzia del cuore di René Podbielski.

Occorre di nuovo «aderire alle cose», come il fascista francese Drieu La Rochelle, un altro dei relatori di Weimar, ama ripetere. Bisogna dare un senso, non limitarsi ad accettare ciò che viene. Mescolando testi, diari, lettere, articoli, forzando la cronologia, prestando ai suoi protagonisti pensieri e considerazioni plausibili perché frutto delle riflessioni di un autore che quel clima e quel modo di essere conosce bene, Mazza traccia le coordinate di un mondo in declino, fra dubbi, tormenti e illusioni, il cuore dell’Europa un attimo prima della resa dei conti.

Una citazione di Goebbels, «noi passeremo alla storia come i più grandi uomini di Stato di tutti i tempi o come i più grandi criminali», spiega meglio di un libro di storia Hitler, i Campi, il Bunker e una Germania rasa al suolo. Le stesse speculazioni sulla scomparsa di Ettore Majorana, rivale di Fermi affascinato dalla «necessità storica» del nazismo, che Mazza racconta con felicità espressiva unita al talento del cronista di razza, rimandano a un’epoca fluida, dove non c’è il senno di poi a spiegare le ragioni e i torti, il bene e il male.

Lavorando sui destini intrecciati di due fra i più brillanti intellettuali italiani dell’epoca e del più implacabile ministro del Reich, Mazza compie una ricognizione che va dritta al problema: il rapporto fra la cultura e il potere politico, l’idealismo e il realismo che si contrappongono, la sudditanza della prima nel suo allearsi con la seconda, il compito e il ruolo stesso dello scrittore.

A un Goebbels che chiede una letteratura d’evasione «per le donne sole in casa e per i soldati al fronte», Vittorini replicherà che «una pagina può illuminare il senso di un’epoca» e che il non scriverla, ovvero l’accettare quell’invito, fa diventare «complici di questa immane catastrofe»… Anni dopo, a un Togliatti che chiede una letteratura marxisticamente impegnata, replicherà che non ci sta «a suonare il piffero per la rivoluzione». Fra impegno e disimpegno resta lo spazio accidentato, fragile e ambiguo della libertà di pensiero, ma non sempre basta la letteratura per salvarsi l’anima.

Oltre il deserto Dio

gennaio 28, 2012

Dino Buzzati

Lucia Bellaspiga per “Avvenire

Oggi, quarant’anni fa, moriva un nostro collega. È presuntuoso definire “collega” Dino Buzzati, una delle voci più geniali e libere della letteratura italiana e firma storica del Corriere della Sera, ma questo sarebbe stato il suo epitaffio, se avesse potuto scegliere: «Oggi è mancato un cronista». Quando un artista è indiscusso, si rischia di dimenticare l’uomo. Così Buzzati è celebrato come autore del Deserto dei Tartari o di Un amore, come maestro di giornalismo e scrittore di fama mondiale, ma prima di Buzzati c’era Dino, maestro di onestà e di modestia, l’uomo che, con in tasca il Premio Strega e sulle spalle l’invidia di un’intellighenzia che mal sopportava il suo successo svincolato da lobby e tessere di partito, la notte continuava – come un apprendista qualsiasi – a montare sulle “pantere” della polizia per fare il giro “della nera”, e dalla cronaca di tutti i giorni attingeva ancora con occhi incantati al mistero della vita. «Era un doverista», lo descriveva Gaetano Afeltra, intendendo un uomo che, anche all’apice della carriera, restava fino all’ultimo in redazione, innamorato del mestiere e dell’odore d’inchiostro, impaurito di non aver magari fatto un buon lavoro. La sua umiltà, fondata su un’educazione autenticamente cristiana, aveva radici antiche, al punto che il giovane Buzzati, appena assunto al Corriere, scrisse al suo migliore amico: «Presto da qui mi cacceranno come un cane», e quando uscì Barnabo delle montagne, il suo primo successo, in redazione si pensò a un’omonimia… Viveva infatti in punta di piedi, e in punta di piedi se ne andò, cercando di non disturbare. «Era consumato dal tumore ma non chiamava mai, per non essere di peso», lo ricorda suor Beniamina, l’infermiera giovanissima che lo accudì nel suo ultimo mese di vita alla clinica “Madonnina” di Milano. A lei il Buzzati non credente – ma per tutta la vita alla ricerca di Dio – tentava di carpire quel segreto che, come aveva scritto tante volte, rende luminosi gli occhi di chi ha fede. Cronista fino all’ultimo, la interrogava, assetato di quel Dio bevuto con il latte materno ma poi dimenticato, o meglio, divenuto il suo tormento. Ecco perché Buzzati non è mai stato un ateo, un uomo senza Dio: come scrive Pascal, «non mi cercheresti, se non mi avessi già trovato», e di Pascal i Pensieri erano sul suo comodino il giorno della morte, accanto alle Confessioni di Agostino. «Ho nostalgia di Dio, e chi non l’avrebbe?», rivelava negli ultimi mesi a un collega, conscio come pochi altri che un mondo senza il suo Creatore è solo un atomo sperduto nelle «deserte voragini dell’universo». Disperatamente incapace di concepire la vita senza un Oltre, si dibatteva tra la paura di affidarsi e lo strazio di non saperlo fare: «Oggi nell’uomo il desiderio di Dio si è affievolito, e ne è nato un vuoto spaventoso che è la tragedia del mondo moderno». Un mondo che non apparteneva al suo essere «naturaliter cristiano», come lo definì Eugenio Montale sul Corriere il 29 gennaio del 1972, il giorno dopo la sua morte.

Il 28 pomeriggio in una Milano innevata Buzzati si era accomiatato. Per dirla con le sue parole, aveva ricevuto la cartolina di precetto e, doverista fino all’ultimo, aveva obbedito con dignità, chiedendo alla moglie Almerina di fargli la barba perché all’incontro più importante di tutta la vita si va con eleganza. Non ricevette l’estrema unzione, ma l’ultimo bacio lo diede al Gesù in croce che pendeva al collo della suora. «Gli agnostici che non trovano pace sono più vicini al regno di Dio di quanto lo siano i fedeli “di routine”», ha ammonito di recente papa Ratzinger, che al dialogo interreligioso di Assisi per la prima volta ha invitato i non credenti. E «non esiste nessun uomo, per quanto infelice, a cui l’Eterno non abbia concesso un’occasione», aveva presagito lo stesso Buzzati: la fede è movimento, non un dato acquisito, è premio e traguardo dei cuori inquieti, non di chi si ferma perché pensa di possedere, e forse in tal senso nessuno fu più inquieto di lui. «Dio che non esisti, ti prego», fu la sua preghiera laica, ma ha un senso rivolgersi a un Padre che non c’è? La risposta nel suo amen, che era un credo: «Per la forza terribile dell’anima mia, se io lo chiamo verrà!». «Fratello ateo, nobilmente pensoso alla ricerca di un Dio che io non so darti – sembra offrirgli anni dopo padre Turoldo – attraversiamo insieme il deserto…».

«La fede cerca, l’intelligenza trova. E, d’altra parte, l’intelligenza cerca ancora Colui che ha trovato», diceva sant’Agostino. Tra credenti e animi inquieti, allora, forse non esiste un confine.

sequenza

gennaio 27, 2012

Quando non c’era memoria ma solo trauma

gennaio 27, 2012

Anna Foa per “L’Osservatore Romano

Controfigure è una raccolta di racconti di Jadwiga Maurer — a cura di Laura Quercioli Mincer (Firenze, Giuntina, 2011, pagine 213, euro 14) — una scrittrice polacca che vive negli Stati Uniti e scrive in polacco, ignota ai lettori italiani perché di lei era stato finora tradotto solo un racconto.

Jadwiga nasce in Polonia, a Kielce, nel 1932, in una famiglia di intellettuali ebrei al tempo stesso molto vicini al mondo della cultura ebraica e molto identificati con la patria polacca. La sua famiglia riesce a sfuggire alla sorte che le è riservata attraverso l’uso di «documenti ariani» e, come suggerisce la curatrice del libro, anche grazie «a una rimozione quasi totale del proprio passato, all’assunzione di biografie e fedi religiose posticce».

Dopo aver passato un anno a Kasimierz, il quartiere ebraico di Cracovia già sgombrato dei suoi ebrei, nel 1944 la famiglia Maurer cerca di trovare rifugio in Ungheria, con l’aiuto dell’organizzazione clandestina Zegota. Bloccati dagli eventi in Slovacchia, riescono a nascondervisi, e Jadwiga riesce anche a frequentare la scuola in un convento di monache francescane.

Di lì, alla fine della guerra, i Maurer si trasferiscono a Monaco di Baviera. La scelta, anche se potrebbe sembrare strana, aveva una sua logica: la Polonia era assai ostile agli ebrei, tanto che nella stessa città natale di Jadwiga, Kielce, ci fu nel 1946 un sanguinoso pogrom a opera dei polacchi. Invece Monaco, nella Germania occupata dagli americani, era un luogo dove nell’immediato dopoguerra i pochi ebrei che vi si stabilirono potevano usufruire degli aiuti dell’Unrra (l’organizzazione umanitaria internazionale che si occupava degli aiuti ai profughi) e condurre una vita con una parvenza di normalità, in attesa di emigrare in Palestina o negli Stati Uniti.

I racconti sono ambientati nel convento slovacco, a Monaco, e negli Stati Uniti, dove l’autrice finisce per trasferirsi e dove insegnerà letteratura polacca in varie università. L’ambientazione, pur così legata alla sua autobiografia, non ne fa tuttavia dei testi autobiografici, ci tiene a sottolineare l’autrice. Certo, l’io narrante, nella forma prima della bambina poi della giovane studentessa, è talmente forte e caratterizzato da dare l’idea di un percorso autobiografico. Il personaggio è complesso, ironico e autoironico, profondo e distaccato, intimamente segnato dall’esperienza passata, dal nascondimento e dalla Shoah, anche se tutto ciò è espresso in un linguaggio asciutto e antiretorico, mai lamentoso.

Molte storie, molti personaggi suscitano la nostra attenzione, destano la nostra curiosità. Bellissimi i racconti sulla vita della protagonista a Monaco. In La doppia vita, la sua giornata è divisa fra la frequentazione del gruppo di giovani della mensa, ebrei per lo più polacchi, reduci dai campi, con il numero tatuato sull’avambraccio, e quella dei tedeschi suoi compagni d’università.

Destinato in quel contesto al fallimento è il tentativo di mescolare i mondi, sollecitato da un professore che vuole dedicarsi al dialogo con gli ebrei, e spera che la giovane studentessa ebrea possa farsene tramite: due studenti tedeschi, con cui la protagonista passa lunghe ore a discutere di letteratura e di filosofia, saranno invitati a un ballo dei profughi. Ma nulla ne verrà fuori, ovviamente. La sensazione è quella di una sorta di vita sospesa, sia per la protagonista che per i profughi: «Il tempo riposava, si era acquattato chissà dove, era irraggiungibile. Sembrava che si fosse esaurito insieme alla guerra e alla catastrofe, e che non fosse più responsabile per il suo scorrere. Si era inceppato, punto e basta. Cominciai a pensare che il tempo avrei dovuto spingerlo io». La sua sensazione è che i sopravvissuti abbiano oltrepassato una soglia, che la morte non possa più coglierli.

L’identificazione con la Polonia è un tema dominante del percorso della protagonista, un amore per la patria polacca di cui si sentiva parte fin da bambina e di cui continua a sentirsi parte anche negli Stati Uniti. La Polonia dei pogrom del 1945 è ormai diventata quella dell’antisemitismo dello Stato comunista. E quando un professore antisemita giunge all’università inviato dalla Repubblica Popolare Polacca, la protagonista si domanda chi sia, quale sia la sua origine, dal momento che è anche lui passato da un convento. Era, probabilmente, un altro orfano ebreo, che la sorte aveva avviato a un percorso diverso dal loro.

Molto belli anche i racconti ambientati nel convento slovacco in cui la protagonista bambina è accolta e in cui si immedesima nel mondo in cui si trova tanto da proporsi di diventare santa. Prega, legge libri di devozione, fino a capire che non vi riuscirà. La fine della guerra la proietterà nuovamente nel suo mondo.

Nelle pagine di questi racconti sfilano personaggi diversi, tutti un po’ sospesi, in quel dopoguerra in cui il destino di quanti tornano dal campo è ancora segnato non dalla memoria, che ancora non c’è che a sprazzi, ma dal trauma. E in cui gli altri stessi, i non ebrei, si muovono nel migliore dei casi un po’ a vuoto tra la buona volontà e l’incapacità di esprimerla. Un angolo visuale, quello del “dopo”, non troppo utilizzato nella letteratura sulla Shoah, ma che si rivela qui utile anche alla comprensione del “prima”. Quel prima che resta sullo sfondo, nel rumore, che la protagonista ode quotidianamente dal suo convento in Slovacchia, dei treni piombati che nel 1944 portavano gli ebrei ungheresi ad Auschwitz.

Ma l’Olocausto non è misura di tutte le cose

gennaio 27, 2012

Abraham B. Yehoshua

Dobbiamo ricordarci che il fatto di essere stati vittime non è sufficiente a conferirci uno status morale

Abraham B. Yehoshua, da “La Stampa

Abraham Yehoshua riceve oggi alla Scuola Normale Superiore di Pisa il diploma di Perfezionamento honoris causa in Letteratura contemporanea. Nell’occasione pronuncerà una lectio (rielaborazione del suo Elogio della normalità , ed. Giuntina), di cui qui anticipiamo uno stralcio. Dello scrittore israeliano è da poco uscito per Einaudi il romanzo La scena perduta .

Pur caricandoci di un grande peso, l’Olocausto ci pone di fronte a delle sfide chiare. Come figli delle vittime, ci incombe l’obbligo di enunciare al mondo alcuni insegnamenti fondamentali.

Il primo è la profonda repulsione per il razzismo e per il nazionalismo. Abbiamo visto sulle nostre carni il prezzo del razzismo e del nazionalismo estremisti, e perciò dobbiamo respingere queste manifestazioni non solo per quanto riguarda il passato e noi stessi, ma per ogni luogo e ogni popolo. Dobbiamo portare la bandiera dell’opposizione al razzismo in tutte le sue forme e manifestazioni. Il nazismo non è una manifestazione solamente tedesca ma più generalmente umana, di fronte a cui nessun popolo, e insisto, nessun popolo è immune. […]

Ma gli anni che sono passati da allora ci provano purtroppo che manifestazioni naziste sono possibili anche tra altri popoli. Gli orrori presenti non hanno toccato i vertici della seconda guerra mondiale, ma gli avvenimenti del Biafra, del Bangladesh o della Cambogia non sono poi così lontani dalla violenza del massacro nazista.

Noi, in quanto vittime del microbo nazista, dobbiamo essere portatori degli anticorpi di questa malattia tremenda, da cui ogni popolo può essere affetto. E in quanto portatori di anticorpi dobbiamo anzitutto curare il rapporto con noi stessi.

Dobbiamo inoltre fare attenzione a non perdere il senso della misura, e a non misurare tutto in rapporto all’Olocausto. Poiché dietro di noi c’è una sofferenza così terribile, potremmo essere indifferenti a ogni sofferenza meno violenta della nostra. Chi ha molto sofferto può non rendersi conto del dolore degli altri, e questo è un comportamento del tutto naturale. Come alfieri dell’antinazismo dobbiamo acuire la nostra sensibilità, e non diminuirla. Perché dobbiamo ricordarci che il fatto di essere stati vittime non è sufficiente per conferirci uno status morale. La vittima non diventa morale in quanto vittima. L’Olocausto, al di là delle azioni turpi nei nostri confronti, non ci ha dato un diploma di eterna rettitudine. Ha reso immorali gli assassini, ma non ha reso morali le vittime. Per essere morale bisogna compiere degli atti morali; e per questo affrontiamo degli esami quotidiani.

Ho già detto che l’Olocausto può condurre l’uomo a un atteggiamento di disperazione nei confronti del mondo. È del tutto naturale non avere fiducia nell’uomo e nei suoi atti dopo un’esperienza del genere. Noi, figli delle vittime, possiamo esprimere la nostra delusione con un vigore raddoppiato. Ma dobbiamo ricordare che la sfiducia nel mondo è proprio un atteggiamento tipico del nazismo. Il nazismo è nato anch’esso dalla sensazione che il mondo è nella sua essenza privo di valori, che non si può sperare nulla di buono dall’uomo, e che gli unici valori che hanno un peso sono la forza e l’astuzia. Chi, in seguito all’esperienza dell’Olocausto, arriva a una conclusione nichilista, dà paradossalmente ragione alle tesi naziste. Non è cosa facile nutrire speranza e fiducia nell’uomo dopo l’Olocausto, ma se vogliamo essere coerenti nel nostro antinazismo dobbiamo fare nostra questa sfida.

Quando esaminiamo quello che è avvenuto e ci domandiamo meravigliati come sia potuto avvenire, siamo costretti a riconoscere quanto scarsa e povera fosse la nostra conoscenza delle atrocità durante la guerra. Ci chiediamo spesso come sia stato possibile che una parte consistente del popolo (compresa la colonia ebraica in terra di Israele) fosse all’oscuro di quanto avveniva nell’Europa occupata. E se avessimo saputo quello che avveniva laggiù, forse avremmo potuto essere più utili. Il problema della chiusura dei canali di comunicazione non è solo un problema oggettivo di una situazione imposta da un ferreo regime totalitario, preoccupato di nascondere le proprie atrocità agli occhi del mondo: la chiusura di questi canali ha anche origine da un rifiutointerno di sapere quello che avviene, il rifiuto di scavare dietro ogni briciola di notizia che potrebbe fornire un quadro più chiaro degli avvenimenti. L’importanza della comunicazione umana, l’apertura dei canali di comunicazione, lo sviluppo della stampa e di altri mezzi di comunicazione, sono uno degli insegnamenti chiari di quel periodo. E mi pare che il mondo dopo l’Olocausto, il mondo occidentale, lo abbia capito bene, e cerchi per quanto è possibile di assicurare una situazione in cui l’occultamento e la soppressione delle notizie non siano più possibili. […]

E per finire, l’esperienza dell’Olocausto in quanto esperienza prettamente ebraica ha un significato perenne per tutta l’umanità. Anche tra molti anni si continuerà a studiare quel periodo, perché gli eventi di quella guerra tremenda hanno esteso il concetto di uomo, il ventaglio delle sue possibilità. Quella guerra ci ha insegnato cose che non conoscevamo sulla natura dell’uomo. Il concetto di uomo non è più lo stesso di prima, nel bene e nel male. Riusciamo a capire meglio l’uomo, dopo l’Olocausto. E’ vero, abbiamo sempre saputo che l’uomo è capace di compiere il male più efferato e il bene più straordinario; ma nonostante questo l’Olocausto ci ha svelato un nuovo abisso di male a cui l’uomo può giungere, ma anche la forza della sua resistenza. Degli scheletri ambulanti nei campi di concentramento, che da un punto di vista biologico dovevano quasi considerarsi come morti, davano ancora delle prove di moralità, dividendo con gli altri l’ultimo pezzo di pane che restava.

Dalla disperazione più tremenda può perciò nascere anche la speranza. Noi che siamo stati lì, e che ne siamo usciti, possiamo e secondo me dobbiamo alzare il vessillo della fede nell’uomo.

Fede e scienza dentro il tunnel

gennaio 27, 2012

Bosone di Higgs

Paolo Viana per “Avvenire

Peter Higgs, che ha “inventato” l’inafferrabile bosone, non sopporta che lo chiamino “la particella di Dio”, eppure all’interno del Lhc, il grande acceleratore del Cern che sta dando la caccia alla particella più sfuggente dell’universo, molto parla del Creatore. A maggior ragione da quando il centro europeo di ricerca nucleare è diventato la méta di uomini di chiesa. Una visita privata, quella organizzata ieri dal fisico italiano Ugo Amaldi, destinata ad aprire un dialogo tra due mondi che, a centinaia di anni dal processo a Galileo e malgrado gli sforzi di revisione storica, ancora si guardano con sospetto.

«Per tanto tempo, la Chiesa è stata alma mater della scienza – raccontava il cardinale Camillo Ruini uscendo dal tunnel sotterraneo del Large Hadron Collider –; da Galileo in poi si è registrato un grave ritardo, ma nel contrapporre scienza e fede c’è stata una forzatura, sottolineando le distanze e non le sinergie». Se si considera che il sincrotrone di 27 chilometri realizzato da venti Paesi per scoprire l’origine della materia e confermare o smentire il Modello Standard su cui si regge la fisica delle particelle, costituisce l’opera scientifica più grande del mondo, la visita del Comitato per il progetto culturale della Cei, accompagnato dal rappresentante della Santa Sede presso l’Onu, monsignor Silvano Tomasi, rappresenta un passo “esplorativo” di una certa importanza.

E suggestivo: «In questi grandi laboratori – ha commentato monsignor Ignazio Sanna, teologo e arcivescovo di Oristano – si sente la ricerca di un contatto primordiale con il Creatore che portò alla costruzione delle grandi cattedrali cattoliche. L’esperienza di tanti giovani di tante nazionalità che lavorano insieme è un grande esempio di pace». E commovente: «Vedere di cosa sia capace l’uomo – ha ammesso il cardinale Angelo Scola – è un clamoroso segno di speranza». E incoraggiante: «I giovani che lavorano con Fabiola Gianotti sul bosone di Higgs – ha proseguito l’arcivescovo di Milano – hanno una media di 28 anni e questo ci dice che i ragazzi hanno ancora il senso del rischio legato alla passione per il sapere.

Dobbiamo incontrarli dove vivono i loro interessi». Una giornata a cento metri di profondità, tra macchine costruite per riprodurre il vuoto lunare e il freddo cosmico, apparecchi che creano il “fluido perfetto” e rilevatori in grado di scattare ad ogni secondo milioni di fotografie alle particelle elementari. Ruini e Scola, Tomasi e Sanna, il paleoantropologo monsignor Fiorenzo Facchini e il demografo Gian Carlo Blangiardo, i filosofi morali Francesco Botturi e Paola Ricci Sindoni, la preside di Psicologia della Cattolica Eugenia Scabini, il giurista Francesco D’Agostino, il filosofo Sergio Belardinelli e il direttore di Tvsat 2000 Dino Boffo si sono confrontati con la culla del naturalismo, interrogandone la struttura ancipite.

A guidarli Amaldi, anch’egli membro del comitato, uno dei più noti fisici italiani, già coordinatore di un esperimento del Lep e da un ventennio impegnato con la fondazione per adroterapia oncologica Tera, a trasferire il know how del Cern nella lotta contro i tumori (l’ultimo nato è il centro Idra pediatrico): «Uno scienziato – ha spiegato – può interpretare la realtà esclusivamente attraverso il dato naturale, relegando l’uomo in un ruolo marginale, oppure può credere che esista un Creatore che mantiene nell’essere la natura com’è, creata e libera di evolversi, affinché vi si sviluppino forme di intelligenza sempre più complesse, fino alla condizione umana che è abitata dal libero arbitrio e dall’anima.

Questa visione non è in contrasto con il metodo scientifico: purtroppo la nostra società è imbevuta di questo naturalismo che afferma che tutto è solo natura, mentre il naturalismo aperto al trascendente ha un minore appeal». Riflessioni di spessore filosofico e teologico su cui il Comitato sta discutendo. «Noi cristiani abbiamo sempre parlato di liber naturae e di liber scripturae – ha detto Scola – e San Paolo sosteneva che i Romani non potessero essere giustificati perché avrebbero dovuto riconoscere la presenza di Dio dal creato».

Il porporato ha parlato anche di un “ripensamento” teologico sulla base della «trama meravigliosa dei risultati che queste scienze ci danno; diversamente, il tentativo di relegare Cristo al di fuori del creato risulta facile», giungendo ad auspicare «una teologia meno separata». Per Ruini «nulla implica che lo studio della natura precluda una dimensione diversa. Tommaso d’Aquino introdusse il concetto di media via per risolvere la grande questione del rapporto tra il cristianesimo e il pensiero aristotelico. Tommaso è ancora attuale. Aggiungo che le scienze aiutano gli epistemologi e i filosofi a studiare il funzionamento dell’intelligenza umana, come mi insegnava Bernard Lonergan».

A due passi, il direttore della ricerca del Cern Sergio Bertolucci: «Scienza e fede sono mosse dallo stesso desiderio di ricerca», ha assicurato. Poi tra il serio e il faceto: «Al Cern non produciamo atei».

QUEL MONDO DI MASCHERE AMATO DA PIRANDELLO

gennaio 27, 2012

La fortuna del maestro apprezzato anche da D´Annunzio all´inizio del Novecento, dal teatro alla letteratura. È continuo il contatto con l´espressionismo tedesco grazie al mecenate prussiano Franz Rose. Ha assorbito dai grandi autori del secolo scorso il tema del doppio, l´enigma dell´essere e dell´apparire

Carlo Alberto Bucci per “la Repubblica”

Nell´autoritratto del 1909 Adolfo Wildt fa aderire al proprio viso due sue ossessioni: la maschera e il dolore. Maschera del dolore è il titolo della raffinatissima scultura in marmo, icona dolente che diventa manifesto e sintesi di più linguaggi: l´arte, il teatro, la letteratura. E, attraverso una maschera vera e propria, non nell´accezione teatrale ma funeraria, l´artista sfida la morte.
Del resto, è con il titolo de La vedova che nel 1893 Wildt, 25enne, aveva esposto a Milano il ritratto della moglie Dina, anche lei raffigurata dal marito, che si fece passare per morto, attraverso un travestimento: quello della fedele schiava di Nerone Atte, che è l´altro titolo della scultura presente in due versioni, in marmo di Candoglia e di Carrara, alla grande antologica aperta a Forlì.
Uomo schivo, ossuto come i suoi personaggi virili, nato da una famiglia povera di Milano e cresciuto a bottega tra gli strumenti umili dello scultore, rimanendo tutta la vita legato alla dimensione spirituale e manuale dell´artista, Wildt ha assorbito dalla letteratura contemporanea il tema del doppio, l´enigma dell´essere e dell´apparire. E l´ha affidato alla figura arcaica della maschera. Dalle forme del teatro  giapponese sembra ad esempio derivare l´Idiota, in cui manca la parte del labbro inferiore e del mento a causa di un taglio netto, voluto, della scultura, come a sottolineare la funzione di oggetto scenico. L´opera fu comprata da Gabriele D´Annunzio nel 1925, stesso anno in cui Luigi Pirandello commissionava allo scultore milanese le maschere dei Sei personaggi in cerca d´autore. Wildt amava il teatro, l´opera soprattutto. E almeno due drammi di Wagner sono citati nei sui lavori: la Venusberg del Tannhäuser nel gruppo marmoreo di Pallanza; e il Parsifal nella sua ultima scultura, il Puro folle, esposta alla Quadriennale romana del 1931, anno della morte.
In contatto continuo nei primi anni del Novecento con la cultura tedesca grazie al contratto di esclusiva con il mecenate prussiano Franz Rose, Wildt ignora la matrice esotica dell´espressionismo tedesco e francese. Le orbite vuote non le desume dalle maschere africane. Ma le ottiene seguendo un principio di svuotamento del corpo dall´interno, secondo un “per via di levare” michelangiolesco della scultura che lo porta a fermarsi al limite estremo: quello della pelle, ossia la maschera. E se guarda alla plastica berniniana, oltreché a quella ellenistica e alla gotica, è per aprire attraverso la bocca la scultura alla vita: per far entrare la luce seguendo la via cava degli occhi.
Eseguiti mai dal vivo e sempre attraverso foto in bianco e nero che esaltano il chiaroscuro risentito, anche i visi di Mussolini, di Toscanini, della Sarfatti sono ritratti in (forma di) maschera. Ed esplicitamente lo è quello di Mariuccia Chierichetti del 1921, tramandato dalla rivista Emporium, o la Maschera di Cesare Sarfatti. Potenza evocativa ed allegorica di questa seconda, altra faccia era apparsa del resto, nel 1919, attraverso le maschere, nel monumento funebre del pittore Aroldo Bonzagni al Cimitero monumentale di Milano, raffiguranti Ironia, satira e dolore: tre volti “parlanti” quanti se ne contano nelle Maschere del dipinto del 1921 di Felice Casorati, pittore ammirato da Wildt. E due maschere appaiono in quella sorta di Giano bifronte che è Carattere fiero / anima gentile del 1912, dove lo scultore milanese contrappone i due aspetti della sua arte: la natura virile, sofferente; e quella femminile, luminosa e felice, anche se dotata delle micidiali trecce di un´altra maschera: Medusa.

Diritti Globali

Densmore racconta i Doors: “Quegli anni racchiusi in un inedito”

gennaio 27, 2012

Jim Morrison

Il batterista della leggendaria band parla dell’edizione celebrativa di “L.A. Woman” che esce lunedì. La raccolta è arricchita da “She smells so nice”, una traccia ritrovata su un vecchio nastro e mai incisa

Ernesto Assante per “la Repubblica

Quaranta anni fa usciva L. A. Woman, ultimo dei sei leggendari album registrati dai Doors nei cinque, tumultuosi, travolgenti anni della loro carriera, interrotta nel 1971 dalla morte del frontman, il cantante Jim Morrison. Bruce Botnick, produttore del disco originale, era al lavoro sull’edizione celebrativa del disco, che verrà pubblicata lunedì prossimo, quando ha trovato, casualmente, un nastro con un brano che la band aveva inciso e mai pubbblicato, She smells so nice. Un brano inedito dei Doors, il primo dopo quarant’anni, con Jim Morrison e i suoi compagni, Ray Manzarek, John Densmore e Robbie Krieger, che improvvisano in studio su una traccia blues, un brano scartato all’epoca che oggi diventa un prezioso reperto storico.

Morrison morirà pochi mesi dopo, a Parigi, ma la sua voce è ancora ricca di fascino e la band suona con una magica sintonia. “È stato emozionante riascoltare questa registrazione”, dice John Densmore, batterista dei Doors, “un clamoroso salto indietro nel tempo. Non ricordavo l’esistenza di questa canzone, ma non è una cosa strana, perché quando eravamo in studio suonavamo moltissime cose nuove, si improvvisava parecchio, noi tre iniziavamo a suonare sulle tracce di un blues e Jim cantava, recitava le sue poesie, creava seguendo l’estro del momento”. Densmore è il fiero difensore dell’integrità artistica di quanto i Doors hanno prodotto nei pochi anni della loro vita. Ha sempre rifiutato il permesso di usare la musica dei Doors negli spot pubblicitari (“Sarebbe un modo di tradire tutti i motivi per i quali i Doors erano nati e hanno fatto la loro musica”) e ha addirittura fatto causa agli altri due componenti, Ray Manzarek e Robbie Krieger, perché non usassero il nome della band durante i loro concerti ed ha sempre rifiutato di tornare in scena con loro: “Se torna anche Jim lo faccio anche io. Ma Jim è morto e i Doors erano i Doors con lui, non senza di lui”.

“L. A. Woman” è il capitolo finale della vostra avventura musicale. Ed è arrivato in un momento difficile della vita di Morrison.
“Era difficile per tutti. Ma era complicato soprattutto quando non eravamo in studio. Jim era esaurito, beveva troppo, era difficile da tenere sotto controllo. Mentre registravamo il disco facemmo due concerti e nel secondo, nel dicembre del 1970 a New Orleans, Jim crollò sul palco, fu l’ultima volta che suonammo dal vivo. Ma quando eravamo in studio le cose erano completamente diverse, suonare insieme era una gioia assoluta”.

Ha detto diverse volte che si tratta del suo disco preferito dei Doors.
“Si, perché è quello che riflette meglio quello che eravamo davvero. Gli altri dischi erano più strutturati, dopo il primo album eravamo entrati in una fase in cui cercavamo anche noi di fare il nostro “Stg. Pepper”. Quando decidemmo di lavorare a “L.A. Woman” volevamo invece tornare alla semplicità. Oltretutto gran parte del disco lo registrammo nel nostro studio, il Doors Workshop, dove Bruce Botnick portò un registratore portatile, e tutto fu in presa diretta. Suonavamo per ore, ci divertivamo ancora, She smells so nice è uscita da una di quelle session”.

Lavoravate in completa libertà.
“Si, non ci preoccupavamo della tecnologia ma solo dell’intensità, della creatività, della musica. Lavorare in questo modo ci portò ad essere più minimali, a credere fortemente in quello che facevamo e tutto questo rese il disco migliore. Non avemmo bisogno di registrare i brani troppe volte, non ci furono sovraincisioni”.

Com’era suonare con i Doors?
“È ovvio se le dico che era fantastico, come potrei dire il contrario? C’era tra noi un equilibrio magico, e soprattutto c’era Jim. Era un poeta, prima di lui nessuno ha scritto dei testi di così grande forza. E i testi di L.A. Woman sono incredibili, basta ascoltare ancora Riders on the storm. Jim era un personaggio unico e difficile, ma proprio questa sua unicità, assieme al nostro modo di pensare la musica, ci rendeva diversi da tutti gli altri”.

Il cuore del disco era tutto nel blues.
“Si, era la musica che amavamo tutti, il nostro rock nasceva da li, ci identificavamo con quelle storie di dolore, emozione, perdita, speranza, erano le cose che risuonavano per noi e per un’intera generazione”.

Oggi il blues non è più molto di moda.
“Non creda, non è così. Il blues è dovunque, anche se in forme differenti. È la base di tutta la musica moderna, e dagli anni cinquanta in poi, con il rock, è entrato nella cultura popolare in tutto il mondo. Non è mai scomparso, e tornerà ancora”.

I rapporti con gli altri due componenti della band oggi non sono molto buoni.
“No, non lo sono, ed è un peccato. Non ci troviamo mai insieme. Ma sto scrivendo un libro di memorie, nel quale dico ancora che sono in debito con tutti loro per le cose belle che ho avuto dalla vita”.

Ha nostalgia per quei tempi?
“Non mi piace pensare solo al passato, e poi il passato non torna, mai, per nessuno. Detto questo ho molta nostalgia per la passione di quegli anni, per l’entusiasmo, l’energia, per la voglia di fare cose incredibili che avevano tutti. E, come si dice in questi casi, se dovessi ricominciare rifarei tutto allo stesso modo”.

Scontrosa tenerezza di Buzzati. Le confessioni di sua moglie

gennaio 27, 2012

Dino a Almerina Buzzati

A quarant’anni dalla morte del grande giornalista e scrittore la moglie Almerina ripercorre la loro vita in comune. Storia di «Un amore» che superava gli ostacoli

Daniele Abbiati per “il Giornale

La «sposa bambina», 45 e rotti anni dopo il matrimonio è ancora bambina. Treccia nera fino ai lombi, golfino di lana, gonna lunga stile anni ’70, scarpe-pantofole leggere, da bambola. E un sorriso in cui potresti riconoscere la compagna del liceo, fra ammissione di colpa e complicità, come per dire: «Visto? Te l’ho fatta di nuovo».

La «sposa bambina» fa rima in «ina», perché è Almerina, ovvero la signora Buzzati. Per parlare di Dino, dopo l’intervista telefonica della scorsa, banale, stupida, offensiva, eppure piacevole (nella vita, gli estremi spesso si toccano) ricorrenza del 2002, l’ho chiamata con qualche giorno di anticipo. E lei ha risposto: «Certo, va bene, facciamo domani pomeriggio, sul presto».

È presto, infatti, e il sole inonda i quadri («quando lui se n’è andato, avevo solo questo (il famoso Duomo dolomitico), gli altri ho dovuto ricomprarli, la Mondadori mi ha aiutato» e scocca il primo sorriso che le strizza il viso e il cuore), i mobili, i tappeti, la cassapanca che custodiva i diari di «lui», intoccabili fino alla morte, e che lei, pochi giorni dopo il commiato del 28 gennaio 1972, caricò in macchina per fuggire a Cortina e leggere, leggere furiosamente tutto. Per scoprire, finalmente, il rovescio della medaglia del suo uomo.

Il salotto della bellissima casa milanese non è un salotto, è un teatro di posa dove Almerina recita a soggetto, cioè assapora la sua perenne storia d’amore.

«Lui si metteva lì, a scrivere o a dipingere, sul tavolo. E io qui, sul divano, dandogli le spalle, a cucire (e si sdraia mettendo i piedi sul bracciolo opposto, con l’agilità di un’adolescente). Tornato dal Corriere, verso le 9 di sera, era capace di lavorare fino alle 4 del mattino. E quando veniva gente a cena, Soavi, Afeltra… stessa cosa. Noi si chiacchierava, seduti in poltrona, e lui ci faceva compagnia, ma senza aprir bocca, con la macchina per scrivere sulle ginocchia, a picchiare sui tasti».

Dino è qui, con i capelli a spazzola, la camicia bianca, la cravatta scura. E, come sempre, tace, nascosto dietro lo sguardo languido dei suoi cagnoni, gli occhi bistrati delle sue modelle, le sue montagne baciate dal tramonto. Tace, Dino, ma annuisce, ascoltando la voce argentina, e guardando lontano, ben oltre i Giardini Pubblici, fino alla Torre Velasca, dall’alto del decimo piano e del cielo.

«Lo conobbi nel ’62, ’63. Mi aveva mandato il capo fotografo del Corriere a fargli una foto con un ragazzo che aveva vinto una borsa di studio. Una cosa così… Poi, abitava ancora in viale Majno con i suoi, mi presentò in casa. C’era anche la Maria Pezzi, la mia amica Maria».
Maria, «l’altra», in teoria. Non in pratica.

«Maria era sua amica (mi fissa con gli occhi chiari, non so se più ridenti o più commossi)… L’ha aspettato per tutta la vita… Poi, quando sono arrivata io, ha capito».
Ha capito che Almerina era quella giusta per il loro comune «lui». La sua freschezza infantile, la sua spontaneità, erano qualità perfette nel bilanciare il peso delle ombre che gravavano sull’austrungarico tedio senza il quale non avremmo avuto né Il deserto dei Tartari né Un amore, né le decine, centinaia di racconti dove l’imprevisto flirta con la normalità, la fantasia si concede al dovere.

«Guai a chi mi tocca la Maria, ancora adesso… Invece la madre… La madre (e questo, di sorriso, ha una punta di risentimento) era una… si può dire, no? Bigotta. Verso i diciott’anni… diciott’anni dico… un giorno Dino le chiese: “Mamma, posso non venire più?”. E lei: “Se non vuoi venire, non venire”. Parlavano della messa della domenica, pensi un po’! No, lui non era credente. Però ha fatto da padrino al battesimo della figlia di Afeltra, per amicizia».
Adesso tornano in libreria, dopo tanto, troppo tempo, I miracoli di Val Morel, dove la forma narrativa dell’ex voto s’accoppia all’erotismo sadico, alle fantasmagoriche incursioni nell’orrore (altro che le innumerevoli, e molto presunte, provocazioni marchettisticamente blasfeme dei nostri giorni). E Almerina commenta così, secca, con laica ironia: «Del resto Santa Rita da Cascia è la santa dei miracoli impossibili…».

Nemmeno un miracolo, invece, avrebbe concesso a lei la grazia di leggere Dino prima del suo addio.
«Me lo proibiva. Probabilmente non voleva contagiarmi con le sue inquietudini… Ma era proprio inflessibile. Anche per gli articoli, sa, per gli elzeviri! Tutte le mattine ci portavano il Corriere.

Allora lui apriva la porta, lo ritirava, tagliava la pagina dove c’era il suo pezzo e mi consegnava il giornale».

Dino annuisce ancora, mi par di intuire. Però dalla finestra-palco sullo spettacolo insolitamente limpido, alpino, della città, va in un’altra stanza, molto piccola, il sancta sanctorum del suo fervore creativo. Lo seguiamo.
«Azzurra, cara, vieni (Azzurra è quasi nera, una micia bellissima, anche se le manca una zampa). L’ho salvata a Cortina tre anni fa, l’avevano investita… Ecco, guardi, in questi scaffali ci sono i suoi libri più cari (Nietzsche in tedesco, Arthur Rackham, i classici russi che erano i suoi preferiti)».

Ma un grande ritratto della madre ne ostruisce la vista. Allora Almerina prende il quadro e lo deposita a terra.
«Adesso stai qui, tu, e non dare fastidio».

Sovraeccitati contro la noia

gennaio 27, 2012

Guido Vitiello per “Il Corriere della Sera

Un nuovo Flaubert che volesse censire i luoghi comuni del nostro tempo dovrebbe far caso a una domanda che ricorre come un ritornello in televisione, sui giornali, ovunque: «Che cosa prova in questo momento?». La si rivolge indifferentemente al superstite di un disastro navale e alla reginetta neocoronata di un concorso di bellezza, alla madre cui hanno ucciso il figlio un’ora prima e alla concorrente cacciata da un reality. La risposta, per lo più, è: «Un’emozione fortissima». E allora, come in un rito spiritico, dietro il tendaggio delle immagini televisive fa capolino il fantasma dell’autenticità: le lacrime, le grida, il cuore in gola stanno a garanzia che qualcosa è accaduto di vero e di vivo. Ai moralisti nostri contemporanei questo botta e risposta offre un’occasione di più per biasimare un giornalismo frivolo o sciacallesco. Ma un antropologo catapultato da Marte penserebbe più prosaicamente che i popoli della Terra hanno lo strano bisogno di sottoporsi a un continuo check- up emotivo per assicurarsi di essere vivi.

Christoph Türcke non viene da Marte, più banalmente dalla Bassa Sassonia, ma il suo libro La società eccitata (Bollati Boringhieri) ha il merito di porsi domande che si porrebbe qualunque marziano di buon senso. Perché leggerlo in Italia? Perché la sovraeccitazione è il filo che lega eventi tragici e farseschi. La telefonata che sta ipnotizzando in questi giorni il nostro Paese tra il capitano fellone della nave Costa — semi-affondata a pochi metri dall’isola del Giglio — e il comandante modello, come la telefonata-scherzo che, nel 1990, annunciava a Sandra Milo che il figlio era in fin di vita all’ospedale («Ciro!» urlò lei disperata, in diretta). Nelle prime pagine Türcke cita una freddura che circolava negli anni Sessanta a proposito di un rotocalco avido di sangue e sciagure: «Bild è stato il primo a parlare con il cadavere». Se oggi la battuta ci fa meno ridere, è perché il sensazionalismo non è più affare di gazzettini scandalistici, detta legge a tutto il sistema dei media: è l’unica via per penetrare «nel sensorio ipersaturo di stimoli dei contemporanei». Neppure è un’esclusiva dell’informazione: la ricerca dello shock, dell’emozione violenta, in una parola della «sensazione», Türcke la vede all’opera nella pubblicità e nell’intrattenimento, nella pratica del piercing e nelle stragi più insensate, tra i tossicomani e i fondamentalisti. Non si salvano neppure gli intellettuali, che per trapassare la corazza protettiva di un pubblico assuefatto procedono a colpi di slogan e aforismi puntuti.

La società moderna vive uno stato di eccitazione perpetua, febbrile, s’intossica di stimoli senza curarsi di dar loro un senso. Il tema non è nuovo, ma oggi è inaggirabile. Vent’anni fa il sociologo Gerhard Schulze aveva scritto un libro, Die Erlebnisgesellschaft, su una «società dell’esperienza» in cerca della sensazione forte fine a sé stessa, e ben prima c’erano state le pagine di Georg Simmel sul bombardamento sensoriale della metropoli e quelle di Walter Benjamin sullo shock come forma dell’esperienza moderna. Certo, c’è tedesco e tedesco. A differenza di Benjamin e delle sue folgorazioni aforistiche, Türcke tende più al tipo del filosofo sistematico, che se si trova per le mani una buona intuizione non si contenta di svolgerla nella forma lieve dell’essai: prima scava nelle profondità abissali della sua idea per dissotterrarne il fondamento primordiale (quel genere di cose che il tedesco esprime con l’intraducibile parolina Ur); poi, sul terreno così dissodato, innalza un imponente grattacielo concettuale — i piloni portanti sono, in questo caso, Marx, Freud, Benjamin e il situazionista Guy Debord — con il rischio di intimidire il lettore profano. Che però, in questo caso, farà bene a non scoraggiarsi: la favola parla di lui, e dei suoi antenati che vissero all’alba della modernità.

A quell’epoca, la «mobilitazione totale» del sistema nervoso suonava ancora come una promessa: era il segno di un mondo nascente. Ma tutto quel dimenarsi, che nell’industrioso Ottocento pareva diretto a un fine, da qualche decennio è un meccanismo che vortica a vuoto, generando una frenesia senza scopo. Torna alla mente uno dei dipinti newyorkesi di Mondrian, Broadway Boogie-Woogie (1943), un reticolo pulsante di lineette e quadratini gialli, rossi, blu, capace di evocare insieme i ritmi sincopati del jazz, il codice morse dei telegrafi e la veduta aerea di una metropoli illuminata: lo spirito della modernità in compendio. Eppure, a rivederlo bene, notiamo che quelle linee e quelle luci compongono un circuito chiuso, autoreferenziale, una misteriosa e indecifrabile segnaletica primitiva. «Il rivoluzionamento ipertecnologico lascia trasparire chiari segni di una regressione all’arcaico», suggerisce Türcke, persuaso che l’umanità stia tornando a una fase primordiale della percezione.

Non siamo abbastanza tedeschi per seguirlo in questa scampagnata ancestrale, né abbastanza filosofi per apprezzare la sua archeologia del concetto di «sensazione». Ma c’è una parola più comune che abbiamo cercato invano scorrendo le sue pagine: noia. Possibile che la grandinata di stimoli sotto cui viviamo non abbia nulla a che fare con la noia? Türcke avrebbe fatto bene a rileggere un vecchio saggio di George Steiner che s’intitolava appunto The Great Ennui. Vi era descritta la «grande noia» dei letterati ottocenteschi, saturi di letture e di chimere, divorati dai demoni del vuoto mentre tutt’intorno regnava l’ottimismo affaccendato dei positivisti e dei liberali. Quel senso di paralisi interiore culminò nel grido profetico di Théophile Gautier: «Meglio la barbarie della noia!». I poeti si misero allora a coltivare fantasie di catastrofe, si tuffarono nelle antichità più orgiastiche, si volsero all’oppio e all’assenzio. Che la moderna ricerca della «sensazione» sia figlia di un ennui altrettanto grande?

Come le rane degli esperimenti di Galvani, siamo percorsi di continuo da spasmi e contrazioni, e tutto il nostro mondo tecnologico sta lì a somministrarci scosse elettriche. Ma quelle rane, per quanto agitassero convulsamente le zampe, erano già stecchite e sezionate. Chissà che non fossero morte di noia.
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