Marcello Veneziani per “il Giornale”
Quando il Papa-filosofo Ratzinger disse che sono più vicini a Dio gli inquieti non credenti che i devoti per routine; quando il cardinal Martini, facendo il verso al papa laico Norberto Bobbio, disse che la vera differenza non è tra chi crede e chi no, ma tra chi pensa e chi no; e quando il teologo Vito Mancuso ha sostenuto che il senso della fede dev’essere stabilito solo dalla ragione, tutta questa santa e illustre comitiva fa un incontro inconsapevole ma imbarazzante: con Giovanni Gentile. Sì, il filosofo del fascismo, ma qui la politica c’entra poco e il fascismo ancor meno. Semmai il filosofo condannato dalla Chiesa per i suoi scritti sulla religione, e questo imbarazza di più.
Potrei citare tutta l’opera gentiliana che coerentemente negli anni esprime la sua posizione su Dio e la religione. Per chi vuole approfondire c’è il corposo La religione (uscito da Sansoni nel 1965) dove sono raccolti i suoi principali scritti e discorsi sulla religione, Dio, il modernismo. Ma tra questi vi invito a leggerne almeno uno: la sua conferenza del 9 febbraio del 1943 a Firenze, La mia religione, che è il condensato del pensiero gentiliano su Dio e la filosofia. Con lo stesso titolo Miguel de Unamuno aveva scritto nel 1910 un testo mistico ed eretico. Raffrontate il discorso gentiliano con il testo di pochi mesi antecedente del suo sodale-rivale Benedetto Croce, Perché non possiamo non dirci cristiani, una riflessione limpida ma laica sulla religione, considerata più come fattore storico e morale di coesione civile, come per «gli atei devoti». In Gentile, invece, c’è uno spirito fortemente religioso, come notò Del Noce, e un’aperta professione di fede non solo cristiana ma cattolica. E tuttavia, la sua opera fu condannata dalla Chiesa, che non sbagliò dal profilo dottrinario.
Cosa sostiene Gentile? Innanzitutto notate l’approccio personale: come Mancuso premette già nel titolo del suo libro l’Io a Dio, così Gentile premise il pronome possessivo alla religione; la mia religione, il mio cattolicesimo, sempre in prima persona. In secondo luogo, Gentile ricorda alla Chiesa che lo ha condannato che fu lui quando era ministro a reinserire il crocifisso nelle scuole e l’insegnamento della religione; ma la sua idea originaria era che rimanesse nelle scuole di primo grado. Per una ragione filosofica e non didattica: perché per Gentile la religione è la filosofia per l’infanzia, è lo stadio primitivo del pensare, è metafisica per il popolo. La religione deve accompagnare i primi anni di studio, poi tocca alla filosofia. La religione, però, non deve restare in ambito privato, ma farsi pubblica, comunitaria. Sono belli e toccanti, nel discorso fiorentino, i ricordi di Gentile della sua infanzia, la fede inculcatagli della madre, la sua voce che risuona nella sua memoria; e poi del sacerdote don Onofrio Trippodo, precettore dei suoi figli, di cui ricorda una lezione: l’importante è credere in Dio, anche se ciascuno a modo suo. Due ricordi citati per rafforzare la sua idea della religione come educazione morale e spirituale puerile, impartita dalle madri, che da adulti diviene libera professione di fede. A ogni io il suo dio.
È curioso notare che nella sua conferenza Gentile rivendica il diritto, anzi la virtù, del libero pensiero nella religione. Ognuno è cattolico a modo suo, dice Gentile, niente pensiero unico imposto dalla Chiesa. La stessa cosa sostiene ora Mancuso. Gentile lo faceva richiamando la tradizione filosofica cristiana e in particolare la poligonia teorizzata da Gioberti. Peccato però che il Gentile filosofo politico contraddica il Gentile filosofo religioso e sostenga invece che la libertà del singolo qui coincide col volere universale dello Stato. Anche nei Discorsi di religione lo ribadisce: lo Stato è un solo, grande uomo e coincide con il suo popolo. Un uomo, un popolo, uno Stato. Perché lo stesso impianto monistico non vale per la religione – un papa, un’ecclesia, una dottrina e un’istituzione? La libertà che per il cittadino deve identificarsi nello Stato, non s’identifica invece per il credente nella Chiesa. La poligonia religiosa non diventa pluralismo in politica. Bella incoerenza.
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Secondo Gentile la religione nel suo grado più alto si risolve nella mistica, in cui l’io si annulla in Dio, il soggetto nell’oggetto. La filosofia realizza la sintesi tra soggetto e oggetto, tra Io e Dio; una sintesi che non si compie una volta per tutte, ma è processo incessante dello spirito. «La religione vive dentro la filosofia».
Non più dunque itinerarium mentis in deum, come voleva San Bonaventura, ma il suo contrario: itinerario di Dio nella mente, ossia nella filosofia. Il Dio di Gentile vive dentro la filosofia, che a sua volta vive nella storia dello spirito. Con altro linguaggio Heidegger aveva sostenuto un processo analogo, la religione è come in una matrioska: la divinità rimanda al sacro e il sacro abita nell’Essere. Ma lo Spirito di Gentile, l’Essere di Heidegger, come l’Uno di Platone e di Plotino, cosa sono? Forse il Dio ignoto di una nuova teologia negativa? È come la radice oscura del Dio cristiano e di ogni dio. È trascendente o immanente? Sappiamo che è nel Pensiero, pastore dell’Essere o luce dello spirito. E tuttavia quel Dio gentiliano è l’ospite inatteso evocato dal cardinal Martini, da Bobbio, da Mancuso e perfino da Papa Ratzinger. Un Dio dei pensanti, non dei credenti. Il Dio cercato dagli inquieti, dice Benedetto XVI, e così diceva pure Gentile concludendo il suo discorso: «La vita è ricerca – come poi ribadirà il suo allievo Ugo Spirito in un’opera intitolata La vita come ricerca – e se vi lascio insoddisfatti, benedetta sia l’inquietudine che vi ho data». Aprendo agli inquieti, il papa filosofo mira a ricucire non tanto lo scisma di Martin Lutero, ma l’altro scisma tedesco dell’altro Martin: Heidegger, e con lui la filosofia tedesca. A cui si abbeverò pure Gentile, nel versante idealista.
I circoli viziosi ma divini della filosofia con la teologia.
Moneta del potere, genealogia della libertà
marzo 30, 2011Gianfranco Ravasi
Gianfranco Ravasi per “Il Sole 24 Ore”
Il termine “laico”, nonostante l’attuale accezione dominante, ha sostanzialmente una genesi “religiosa” (designava, infatti, il semplice fedele “popolare” – da laós, in greco “popolo” – rispetto alla gerarchia ecclesiastica). Per impostare il discorso sulla laicità è legittimo risalire a una scena evangelica, così nota da diventare proverbiale. È l’unico pronunciamento direttamente politico di Gesù. Egli viene provocato dai suoi avversari a intervenire sulla questione fiscale, ossia sul tributo imperiale da versare da parte dei cittadini dei territori occupati da Roma. La replica di Cristo è lapidaria: «Ta Kaisaros apodote Kaisari kai ta Theou Theo», «rendete a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio» (si può leggere l’episodio sia nel Vangelo di Matteo, sia in quello di Marco o di Luca).
Risposta tagliente e a prima vista netta nel tracciare una linea di demarcazione che dovrebbe esorcizzare ogni teocrazia (la shari’a musulmana, per la quale il codice di diritto canonico diventa il codice civile, non è evangelica) e ogni cesaropapismo. Tuttavia, il discorso è più sofisticato e complesso se si tiene conto della parabola in azione che si consuma attorno a quella frase. Cristo, infatti, argomenta tenendo tra le mani simbolicamente una moneta con l'”immagine”, l’icona (eikon in greco) del l’imperatore, simbolo evidente della politica e dell’economia, alla quale viene riconosciuta una sua autonomia, un campo di esercizio proprio, una sua capacità e indipendenza normativa. (more…)
Tag:laicismo, laicità
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