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Non è anormale essere felici

gennaio 29, 2012

Jeanette Winterson

Jeanette Winterson per “Il Corriere della Sera

Puoi essere normale e felice. È la promessa delle religioni. Ti dicono la tua norma, il tuo posto nel piano del cosmo, della creazione, di Dio. Ti dicono che quella norma è la strada lungo la quale puoi inseguire la tua felicità. Almeno in teoria. In pratica, quando sperimentiamo Dio, normalità e felicità si scontrano. Si combattono. La scrittrice inglese Jeanette Winterson pone la questione al centro del suo nuovo libroWhy Be Happy When You Could Be Normal? (Jonathan Cape, Londra). A tanti anni dal primo romanzo del 1985 che la fece conoscere in tutto il mondo, e che uscì da Mondadori nel 1994 con il titolo Non ci sono solo le arance, Winterson ritorna su quella storia «semi-autobiografica» e ne ricerca il senso.

Il suo privatissimo percorso, per quanto unico, pone domande e offre risposte che riguardano tutti. Figlia adottiva di una coppia di cristiani pentecostali, la piccola Jeanette cerca la propria felicità contro il Dio cupo e depressivo della madre. La donna vede il demonio dappertutto, conduce una vita separata dal mondo, venera l’Apocalisse, «ama tutto ciò che va contro il Papa» e minaccia i mormoni di dannazione eterna. Ha orrore del sesso: passa le notti a preparare dolci per evitare di dormire col marito. A 16 anni, Jeanette si innamora di una coetanea e decide di andarsene di casa. Sulla soglia, spiega alla madre: «Quando sto con lei sono felice; semplicemente felice». La replica della donna è il tema e il titolo del libro: «Perché essere felice, quando potresti essere normale?».

Il libro della Winterson è una risposta onesta: senza manipolazione, auto-inganno, fuga nella teologia o nella politica per negare la realtà contraddittoria dell’esperienza religiosa. Winterson tesse il racconto di una normalità violenta e malata, riflesso di una felicità nell’aldilà da riscattare con l’infelicità nell’aldiquà. Per la madre «felice significava cattivo/sbagliato/peccaminoso. O semplicemente stupido», mentre invece «infelice portava con sé la virtù». La SignoraWinterson, ricorda la figlia, «era infelice, e noi dovevamo essere infelici con lei». Spettacolari e drammatiche le conseguenze: è rogo in giardino, quando la madre scopre i primi romanzi acquistati da Jeanette e nascosti sotto il materasso; sono giorni di digiuno ed esorcismi, quando la madre trova la figlia a letto con l’amica.

Fino a 16 anni Jeanette ha sperimentato una Chiesa in cui «le risposte, anche le più sceme, venivano preferite ad una domanda vera»; dove il sesso era male, il dogma «crudele» e si copriva la tv con un panno la domenica perché gli interdetti venivano presi sul serio. Ma nella Chiesa Winterson ha anche fatto esperienza del «senso di appartenenza a qualcosa di grande e di importante», di «impulsi religiosi» resistenti alla secolarizzazione. La sua Elim Pentecostal Church era comunque il luogo della festa e del rito, dell’«odore di Gesù», della solidarietà e delle «potenzialità immaginifiche». Per la classe operaia di cui Jeanette era figlia, poteva venire solo dalla religione la «sfida dell’amore all’arroganza del potere e all’inganno della ricchezza». Era la Bibbia a dire alla ragazzina solitaria che se anche nessuno la amava sulla terra, c’era un Dio in cielo a pensarla come il bene più prezioso. C’era una felicità da perseguire, come gli stessi padri della Costituzione americana avevano imparato dalle Scritture. Più che una promessa, una chance. È questo il significato della radice hap da cui l’inglese happiness: la sorte buona o cattiva con cui devi fare i conti; «le carte che ti trovi in mano».

Fuggendo da una normalità infelice e oppressiva, giocandosi le sue carte, Jeanette ha rifiutato un Dio perverso e ha scelto un Dio liberante. Imparando il potere della parola e del testo da una madre che leggeva la Bibbia «come se fosse stata appena scritta», la scrittrice di Manchester non ha aspettato che la promessa di felicità della religione si compisse per miracolo, ricompensa di una normale infelicità. È uscita di casa ed è andata a cercarsi la normalità e la felicità che il Dio anormale ed infelice di sua madre non avrebbe mai potuto darle.

Ma l’Olocausto non è misura di tutte le cose

gennaio 27, 2012

Abraham B. Yehoshua

Dobbiamo ricordarci che il fatto di essere stati vittime non è sufficiente a conferirci uno status morale

Abraham B. Yehoshua, da “La Stampa

Abraham Yehoshua riceve oggi alla Scuola Normale Superiore di Pisa il diploma di Perfezionamento honoris causa in Letteratura contemporanea. Nell’occasione pronuncerà una lectio (rielaborazione del suo Elogio della normalità , ed. Giuntina), di cui qui anticipiamo uno stralcio. Dello scrittore israeliano è da poco uscito per Einaudi il romanzo La scena perduta .

Pur caricandoci di un grande peso, l’Olocausto ci pone di fronte a delle sfide chiare. Come figli delle vittime, ci incombe l’obbligo di enunciare al mondo alcuni insegnamenti fondamentali.

Il primo è la profonda repulsione per il razzismo e per il nazionalismo. Abbiamo visto sulle nostre carni il prezzo del razzismo e del nazionalismo estremisti, e perciò dobbiamo respingere queste manifestazioni non solo per quanto riguarda il passato e noi stessi, ma per ogni luogo e ogni popolo. Dobbiamo portare la bandiera dell’opposizione al razzismo in tutte le sue forme e manifestazioni. Il nazismo non è una manifestazione solamente tedesca ma più generalmente umana, di fronte a cui nessun popolo, e insisto, nessun popolo è immune. […]

Ma gli anni che sono passati da allora ci provano purtroppo che manifestazioni naziste sono possibili anche tra altri popoli. Gli orrori presenti non hanno toccato i vertici della seconda guerra mondiale, ma gli avvenimenti del Biafra, del Bangladesh o della Cambogia non sono poi così lontani dalla violenza del massacro nazista.

Noi, in quanto vittime del microbo nazista, dobbiamo essere portatori degli anticorpi di questa malattia tremenda, da cui ogni popolo può essere affetto. E in quanto portatori di anticorpi dobbiamo anzitutto curare il rapporto con noi stessi.

Dobbiamo inoltre fare attenzione a non perdere il senso della misura, e a non misurare tutto in rapporto all’Olocausto. Poiché dietro di noi c’è una sofferenza così terribile, potremmo essere indifferenti a ogni sofferenza meno violenta della nostra. Chi ha molto sofferto può non rendersi conto del dolore degli altri, e questo è un comportamento del tutto naturale. Come alfieri dell’antinazismo dobbiamo acuire la nostra sensibilità, e non diminuirla. Perché dobbiamo ricordarci che il fatto di essere stati vittime non è sufficiente per conferirci uno status morale. La vittima non diventa morale in quanto vittima. L’Olocausto, al di là delle azioni turpi nei nostri confronti, non ci ha dato un diploma di eterna rettitudine. Ha reso immorali gli assassini, ma non ha reso morali le vittime. Per essere morale bisogna compiere degli atti morali; e per questo affrontiamo degli esami quotidiani.

Ho già detto che l’Olocausto può condurre l’uomo a un atteggiamento di disperazione nei confronti del mondo. È del tutto naturale non avere fiducia nell’uomo e nei suoi atti dopo un’esperienza del genere. Noi, figli delle vittime, possiamo esprimere la nostra delusione con un vigore raddoppiato. Ma dobbiamo ricordare che la sfiducia nel mondo è proprio un atteggiamento tipico del nazismo. Il nazismo è nato anch’esso dalla sensazione che il mondo è nella sua essenza privo di valori, che non si può sperare nulla di buono dall’uomo, e che gli unici valori che hanno un peso sono la forza e l’astuzia. Chi, in seguito all’esperienza dell’Olocausto, arriva a una conclusione nichilista, dà paradossalmente ragione alle tesi naziste. Non è cosa facile nutrire speranza e fiducia nell’uomo dopo l’Olocausto, ma se vogliamo essere coerenti nel nostro antinazismo dobbiamo fare nostra questa sfida.

Quando esaminiamo quello che è avvenuto e ci domandiamo meravigliati come sia potuto avvenire, siamo costretti a riconoscere quanto scarsa e povera fosse la nostra conoscenza delle atrocità durante la guerra. Ci chiediamo spesso come sia stato possibile che una parte consistente del popolo (compresa la colonia ebraica in terra di Israele) fosse all’oscuro di quanto avveniva nell’Europa occupata. E se avessimo saputo quello che avveniva laggiù, forse avremmo potuto essere più utili. Il problema della chiusura dei canali di comunicazione non è solo un problema oggettivo di una situazione imposta da un ferreo regime totalitario, preoccupato di nascondere le proprie atrocità agli occhi del mondo: la chiusura di questi canali ha anche origine da un rifiutointerno di sapere quello che avviene, il rifiuto di scavare dietro ogni briciola di notizia che potrebbe fornire un quadro più chiaro degli avvenimenti. L’importanza della comunicazione umana, l’apertura dei canali di comunicazione, lo sviluppo della stampa e di altri mezzi di comunicazione, sono uno degli insegnamenti chiari di quel periodo. E mi pare che il mondo dopo l’Olocausto, il mondo occidentale, lo abbia capito bene, e cerchi per quanto è possibile di assicurare una situazione in cui l’occultamento e la soppressione delle notizie non siano più possibili. […]

E per finire, l’esperienza dell’Olocausto in quanto esperienza prettamente ebraica ha un significato perenne per tutta l’umanità. Anche tra molti anni si continuerà a studiare quel periodo, perché gli eventi di quella guerra tremenda hanno esteso il concetto di uomo, il ventaglio delle sue possibilità. Quella guerra ci ha insegnato cose che non conoscevamo sulla natura dell’uomo. Il concetto di uomo non è più lo stesso di prima, nel bene e nel male. Riusciamo a capire meglio l’uomo, dopo l’Olocausto. E’ vero, abbiamo sempre saputo che l’uomo è capace di compiere il male più efferato e il bene più straordinario; ma nonostante questo l’Olocausto ci ha svelato un nuovo abisso di male a cui l’uomo può giungere, ma anche la forza della sua resistenza. Degli scheletri ambulanti nei campi di concentramento, che da un punto di vista biologico dovevano quasi considerarsi come morti, davano ancora delle prove di moralità, dividendo con gli altri l’ultimo pezzo di pane che restava.

Dalla disperazione più tremenda può perciò nascere anche la speranza. Noi che siamo stati lì, e che ne siamo usciti, possiamo e secondo me dobbiamo alzare il vessillo della fede nell’uomo.

Sovraeccitati contro la noia

gennaio 27, 2012

Guido Vitiello per “Il Corriere della Sera

Un nuovo Flaubert che volesse censire i luoghi comuni del nostro tempo dovrebbe far caso a una domanda che ricorre come un ritornello in televisione, sui giornali, ovunque: «Che cosa prova in questo momento?». La si rivolge indifferentemente al superstite di un disastro navale e alla reginetta neocoronata di un concorso di bellezza, alla madre cui hanno ucciso il figlio un’ora prima e alla concorrente cacciata da un reality. La risposta, per lo più, è: «Un’emozione fortissima». E allora, come in un rito spiritico, dietro il tendaggio delle immagini televisive fa capolino il fantasma dell’autenticità: le lacrime, le grida, il cuore in gola stanno a garanzia che qualcosa è accaduto di vero e di vivo. Ai moralisti nostri contemporanei questo botta e risposta offre un’occasione di più per biasimare un giornalismo frivolo o sciacallesco. Ma un antropologo catapultato da Marte penserebbe più prosaicamente che i popoli della Terra hanno lo strano bisogno di sottoporsi a un continuo check- up emotivo per assicurarsi di essere vivi.

Christoph Türcke non viene da Marte, più banalmente dalla Bassa Sassonia, ma il suo libro La società eccitata (Bollati Boringhieri) ha il merito di porsi domande che si porrebbe qualunque marziano di buon senso. Perché leggerlo in Italia? Perché la sovraeccitazione è il filo che lega eventi tragici e farseschi. La telefonata che sta ipnotizzando in questi giorni il nostro Paese tra il capitano fellone della nave Costa — semi-affondata a pochi metri dall’isola del Giglio — e il comandante modello, come la telefonata-scherzo che, nel 1990, annunciava a Sandra Milo che il figlio era in fin di vita all’ospedale («Ciro!» urlò lei disperata, in diretta). Nelle prime pagine Türcke cita una freddura che circolava negli anni Sessanta a proposito di un rotocalco avido di sangue e sciagure: «Bild è stato il primo a parlare con il cadavere». Se oggi la battuta ci fa meno ridere, è perché il sensazionalismo non è più affare di gazzettini scandalistici, detta legge a tutto il sistema dei media: è l’unica via per penetrare «nel sensorio ipersaturo di stimoli dei contemporanei». Neppure è un’esclusiva dell’informazione: la ricerca dello shock, dell’emozione violenta, in una parola della «sensazione», Türcke la vede all’opera nella pubblicità e nell’intrattenimento, nella pratica del piercing e nelle stragi più insensate, tra i tossicomani e i fondamentalisti. Non si salvano neppure gli intellettuali, che per trapassare la corazza protettiva di un pubblico assuefatto procedono a colpi di slogan e aforismi puntuti.

La società moderna vive uno stato di eccitazione perpetua, febbrile, s’intossica di stimoli senza curarsi di dar loro un senso. Il tema non è nuovo, ma oggi è inaggirabile. Vent’anni fa il sociologo Gerhard Schulze aveva scritto un libro, Die Erlebnisgesellschaft, su una «società dell’esperienza» in cerca della sensazione forte fine a sé stessa, e ben prima c’erano state le pagine di Georg Simmel sul bombardamento sensoriale della metropoli e quelle di Walter Benjamin sullo shock come forma dell’esperienza moderna. Certo, c’è tedesco e tedesco. A differenza di Benjamin e delle sue folgorazioni aforistiche, Türcke tende più al tipo del filosofo sistematico, che se si trova per le mani una buona intuizione non si contenta di svolgerla nella forma lieve dell’essai: prima scava nelle profondità abissali della sua idea per dissotterrarne il fondamento primordiale (quel genere di cose che il tedesco esprime con l’intraducibile parolina Ur); poi, sul terreno così dissodato, innalza un imponente grattacielo concettuale — i piloni portanti sono, in questo caso, Marx, Freud, Benjamin e il situazionista Guy Debord — con il rischio di intimidire il lettore profano. Che però, in questo caso, farà bene a non scoraggiarsi: la favola parla di lui, e dei suoi antenati che vissero all’alba della modernità.

A quell’epoca, la «mobilitazione totale» del sistema nervoso suonava ancora come una promessa: era il segno di un mondo nascente. Ma tutto quel dimenarsi, che nell’industrioso Ottocento pareva diretto a un fine, da qualche decennio è un meccanismo che vortica a vuoto, generando una frenesia senza scopo. Torna alla mente uno dei dipinti newyorkesi di Mondrian, Broadway Boogie-Woogie (1943), un reticolo pulsante di lineette e quadratini gialli, rossi, blu, capace di evocare insieme i ritmi sincopati del jazz, il codice morse dei telegrafi e la veduta aerea di una metropoli illuminata: lo spirito della modernità in compendio. Eppure, a rivederlo bene, notiamo che quelle linee e quelle luci compongono un circuito chiuso, autoreferenziale, una misteriosa e indecifrabile segnaletica primitiva. «Il rivoluzionamento ipertecnologico lascia trasparire chiari segni di una regressione all’arcaico», suggerisce Türcke, persuaso che l’umanità stia tornando a una fase primordiale della percezione.

Non siamo abbastanza tedeschi per seguirlo in questa scampagnata ancestrale, né abbastanza filosofi per apprezzare la sua archeologia del concetto di «sensazione». Ma c’è una parola più comune che abbiamo cercato invano scorrendo le sue pagine: noia. Possibile che la grandinata di stimoli sotto cui viviamo non abbia nulla a che fare con la noia? Türcke avrebbe fatto bene a rileggere un vecchio saggio di George Steiner che s’intitolava appunto The Great Ennui. Vi era descritta la «grande noia» dei letterati ottocenteschi, saturi di letture e di chimere, divorati dai demoni del vuoto mentre tutt’intorno regnava l’ottimismo affaccendato dei positivisti e dei liberali. Quel senso di paralisi interiore culminò nel grido profetico di Théophile Gautier: «Meglio la barbarie della noia!». I poeti si misero allora a coltivare fantasie di catastrofe, si tuffarono nelle antichità più orgiastiche, si volsero all’oppio e all’assenzio. Che la moderna ricerca della «sensazione» sia figlia di un ennui altrettanto grande?

Come le rane degli esperimenti di Galvani, siamo percorsi di continuo da spasmi e contrazioni, e tutto il nostro mondo tecnologico sta lì a somministrarci scosse elettriche. Ma quelle rane, per quanto agitassero convulsamente le zampe, erano già stecchite e sezionate. Chissà che non fossero morte di noia.
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In meno di due minuti

gennaio 24, 2012

Paolo Rossi

Paolo Rossi, da “Il Sole 24 Ore

In un pomeriggio dell’inizio del mese di maggio del 1944, a Perugia, suonai il campanello di un appartamento del primo piano in via Cavour, ai Tre Archi, numero civico 16, dove abitavano il dottor Arturo Schiavelli, allora veterinario provinciale, con la moglie Pia Cinelli e la loro figlia Anna Pia. Quest’ultima che aveva sposato il professor Carmelo Cappuccio, era tornata da Bologna a vivere con i suoi genitori portando con sé il figlio Giammarco (che, quel giorno, non aveva ancora compiuto dieci anni).

Suo marito, come molti altri soldati e ufficiali dell’esercito, dopo l’8 settembre del 1943, era stato deportato in Germania nello stesso campo di prigionia nel quale (seppi qualche anno più tardi) erano stati deportati anche il filosofo Enzo Paci e il poeta Vittorio Sereni. In quella casa ero stato altre due o tre volte, perché Carmelo Cappuccio era stato mio professore di italiano e latino in un Liceo di Bologna e perché mio padre, che di Cappuccio era stato collega, mi aveva fornito quell’indirizzo. Non mi ero presentato alla chiamata alle armi bandita dal governo della Repubblica sociale italiana nel novembre del 1943 e, nonostante un successivo bando del febbraio del 1944, che decretava la pena di morte per i renitenti alla leva e per i disertori, dall’ottobre fino a oltre la metà di marzo, avevo vissuto abbastanza tranquillamente, con la mia famiglia, in una casa vicino al Santuario della Madonna di Canoscio (a una quindicina di chilometri da Città di Castello) dove mio padre aveva affittato quattro stanze.

Dopo aver dato pochi esami, avevo interrotto i miei studi di Filosofia e passavo le giornate leggendo con cura i pochi libri che ero riuscito a portarmi dietro. Frequentavo assiduamente un sottotenente dell’aeronautica che era capitato in quel luogo dopo essere sfuggito alla deportazione e che, come me e tutti gli altri ragazzi del posto, metteva il massimo impegno a passare inosservato e a non farsi notare. I locali carabinieri sembravano non manifestare alcun interesse a ricercare i renitenti alla leva e la vita era abbastanza, anche se non completamente, tranquilla.

Il titolare di un negozio di scarpe, anche lui sfollato a Canoscio, che tutti i giorni viaggiava avanti e indietro con Città di Castello, ogni tanto ci avvertiva che all’indomani sarebbe passato da quelle parti un reparto della Guardia repubblicana in cerca di renitenti, disertori e soldati alleati evasi dai campi di prigionia. Attingeva le notizie sui rastrellamenti da un suo molto più giovane fratello che – mi disse una volta con aria che stava a metà fra il compatimento e il disprezzo – era, oltre che un fanatico fascista, un inguaribile chiacchierone. In quei non frequenti casi, ci spostavamo in gruppi di una decina di persone e avevamo due o tre posti che alcuni ritenevano, a ragione o a torto, più sicuri. Quella falsa tranquillità scomparve del tutto quando, dopo il secondo bando, alcuni ragazzi di vent’anni furono effettivamente condannati a morte e fucilati con la sola imputazione di renitenza alla leva.

Quando suonai il campanello di casa Schiavelli, quel giorno, ero in una situazione precaria. Alla fine di marzo, dopo che mio padre era stato direttamente e rudemente minacciato perché aveva un figlio che non si era presentato alle armi, mi ero presentato al Distretto militare di Perugia con l’idea di tagliare la corda alla prima occasione. Scendendo verso Sud avrei anche accelerato la mia liberazione. Ma non avevo fatto bene i miei conti. Per un mese intero, vivemmo rinchiusi in caserma. Anche quando attuai il mio progetto di diserzione fui o poco avveduto o molto sfortunato.
Avevo una ferita alla gamba sinistra (davvero poco eroica perché mi era stata inferta da un focoso commilitone con uno sgabello di ferro che, nelle sue brave intenzioni, avrebbe dovuto spaccarmi la testa). Sembrava una faccenda di poco conto e non me ne preoccupai, anche perché era uscito pochissimo sangue. Invece, in poche ore, quella ferita mi procurò febbre alta e un gonfiore che portò il diametro della mia caviglia alla stessa misura di quella del polpaccio. Mi resi conto, all’improvviso, che non ero minimamente in grado di tagliare nessuna corda e che – al tempo stesso – non era per nulla consigliabile ritornare sui miei passi (ero uscito da una finestra assieme ad altri due ragazzi) o presentarmi a un pronto soccorso.

Fui accolto in quella casa, o, per meglio dire, in essa accuratamente nascosto, dall’inizio di maggio fino a circa il 10 giugno, pochi giorni prima della liberazione di Perugia. Il dottor Schiavelli mi disse che di piaghe peggiori della mia ne aveva curate in grande quantità sia nei cavalli sia nei bovini e che con una serie di medicazioni con il nitrato d’argento, e con la gamba in riposo la piaga sarebbe guarita e la febbre passata. Il che puntualmente avvenne. Nei giorni che passarono prima della liberazione di Perugia (il 20 giugno) feci con Giammarco innumerevoli partite a dama e lunghe chiacchierate. Solo una volta dovetti nascondermi in un rifugio che era stato appositamente predisposto in cortile e che era raggiungibile senza far uso delle scale. Un paio di militi dettero un’occhiata in tutte le stanze e non si fecero più vivi.

Il 10 o il 12 giugno, la mattina presto, qualcuno suonò energicamente il campanello. Fui raggiunto poco dopo dalla signora Anna Pia, che, con il volto pallidissimo, mi disse che, aprendo la porta, si era trovata di fronte un ufficiale tedesco. Dopo pochi istanti credo si fosse resa conto, ritengo con un certo sollievo, che l’indesiderato visitatore non era per nulla interessato a chi fosse presente in quella casa, ma che aveva invece un altro compito. Chi comprese quale fosse fu Giammarco, unico nell’intero edificio a conoscere un po’ di tedesco. Scese all’ingresso dello stabile e l’ufficiale gli comunicò che era venuto ad avvertire tutte le famiglie che l’intero palazzo, assieme ad altri due dell’incrocio, sarebbe stato fatto saltare in aria per ritardare, con un notevole mucchio di macerie, l’avanzata degli angloamericani.

Se Einstein ci insegna a viaggiare nel tempo

gennaio 18, 2012

Albert Einstein

Il cosmologo J. Richard Gott spiega uno dei grandi misteri della fisica. Proprio grazie alla teoria della relatività speciale le avventure immaginate da H.G. Wells nei suoi romanzi non sono solo delle fantasie

J. Richard Gott, da “la Repubblica”

Quando nel 1895 H.G.Wells scrisse La macchina del tempo, le leggi della fisica sostenevano che viaggiare nel tempo fosse impossibile. Il romanzo di Wells fu visionario nel trattare il tempo come una dimensione dieci anni prima che Minkowski usasse questo concetto nell´interpretazione della teoria della relatività speciale di Einstein. A volte la fantascienza anticipa la scienza vera e propria.
Nel 1905 Einstein mostrò come nella sua teoria della relatività speciale il viaggio nel futuro fosse invece possibile. Lo scienziato basò la propria teoria su due postulati: 1. il moto è relativo e 2. la velocità della luce (300000 km al secondo) è costante.
Dopodiché, Einstein dimostrò i teoremi basati su questi due postulati. Un teorema sostiene che non possiamo costruire un razzo che vada più veloce della luce: se il razzo su cui ci troviamo stesse viaggiando a una velocità maggiore di quella della luce, potremmo sparare un laser verso la punta del razzo e il fascio non la colpirebbe mai. La punta del razzo infatti si muove più veloce ed è partita prima: una volta che ci accorgessimo del fatto che il fascio laser non la raggiunge scopriremmo di starci muovendo, e questo non è permesso dal primo postulato.
Einstein immaginò il seguente esperimento mentale: costruiamo un orologio in cui un raggio di luce rimbalza su e giù tra due specchi orizzontali. Immaginiamo che un astronauta passi in volo accanto alla Terra a una velocità prossima a quella della luce, muovendosi da sinistra verso destra e con in mano un orologio del genere. Mentre si muove, noi sulla Terra vedremmo che i raggi luminosi dell´orologio dell´astronauta si muovono lungo percorsi diagonali tra i due specchi. Vedremmo che l´orologio ticchetta più lentamente rispetto al nostro – sulla Terra – perché questi percorsi diagonali sarebbero più lunghi rispetto a quelli che la luce compie nel nostro orologio. Allo stesso tempo, noteremmo che l´astronauta invecchia più lentamente rispetto a noi; in caso contrario, il suo invecchiamento non concorderebbe con il proprio orologio e l´astronauta potrebbe accorgersi di essere in uno stato di moto, cosa non permessa dal primo postulato.
Ecco come Einstein mostrò che gli orologi in moto ticchettano lentamente. Noi crediamo alla teoria di Einstein perché molti dei teoremi che ha dimostrato a partire dai suoi postulati sono stati messi alla prova e hanno dimostrato di essere veri. Uno di questi è la famosa equazione (Energia uguale alla massa per il quadrato della velocità della luce), che è stata dimostrata dalla bomba atomica. Einstein ci ha dipinto un mondo strano in cui orologi in moto uno rispetto all´altro non concordano, ma sembra proprio che sia il mondo in cui viviamo, perché tutti i test sperimentali della teoria di Einstein hanno dato i risultati previsti. Orologi atomici in viaggio su aeroplani che volano da est verso ovest intorno alla Terra (così che la velocità dell´aereo si sommi a quella di rotazione terrestre) sono in ritardo di 59 miliardesimi di secondo, proprio come ci si aspettava dalle previsioni di Einstein. Il più grande viaggiatore nel tempo, a oggi, è Sergei Krikalev che, grazie alle sue sei missioni orbitali ad alta velocità, è invecchiato di un quarantottesimo di secondo in meno di quanto avrebbe fatto se fosse rimasto a casa. Di conseguenza, quando ritornò sulla Terra, scoprì che la Terra si trovava di un quarantottesimo di secondo nel futuro rispetto a quanto lui avrebbe potuto aspettarsi: aveva viaggiato nel futuro di un quarantottesimo di secondo. Più velocemente andiamo, più avanti viaggiamo nel tempo. Se partiamo oggi, andiamo fino alla stella Betelgeuse, che si trova a una distanza di 500 anni luce, e torniamo indietro a una velocità pari al 99,995% di quella della luce, arriveremo sulla Terra nel 3012 e saremo invecchiati soltanto di 10 anni. Sappiamo che un simile viaggio nel futuro è possibile: i muoni dei raggi cosmici che si muovono a velocità prossime a quella della luce decadono più lentamente di quelli in laboratorio.
E che dire del viaggio nel passato? Teoricamente, se potessimo muoverci più velocemente della luce, potremmo viaggiare nel passato; Einstein, tuttavia, ha dimostrato che non possiamo costruire un razzo che viaggi più velocemente della luce. Nonostante ciò, nella sua teoria della relatività generale del 1915 Einstein dimostrò anche che la gravità può essere spiegata dagli effetti dello spaziotempo curvo. Ed ecco il trucco: possiamo superare un raggio di luce viaggiando lungo una scorciatoia nello spaziotempo curvo. Soluzioni delle equazioni di Einstein della relatività generale per stringhe cosmiche e wormholes presentano simili scorciatoie e sono abbastanza convolute da permettere di viaggiare indietro nel tempo e visitare il passato. Il viaggiatore temporale viaggia sempre, localmente, in direzione del futuro, eppure torna indietro a un evento del proprio passato; proprio nello stesso modo in cui l´equipaggio di Magellano circumnavigò il globo, viaggiando sempre verso ovest ma ritornando, alla fine, al punto di partenza in Europa. Una cosa del genere non potrebbe mai succedere su una superficie piatta. Costruendo un loop temporale nello spaziotempo curvo possiamo costruire una macchina del tempo per visitare il passato; non potremmo mai però usare questa macchina del tempo per visitare un passato precedente alla creazione della macchina stessa. Se creiamo un loop temporale nell´anno 3000, possiamo usarlo nel 3002 per tornare indietro al 3001, ma non possiamo tornare al 2012 perché questo anno è precedente all´esistenza del loop.
Un simile loop temporale esistito all´inizio del nostro universo potrebbe far sì che l´universo fosse la madre di se stesso. Per comprendere se sia possibile costruire simili macchine del tempo per visitare il passato potremmo aver bisogno di conoscere le leggi della gravità quantistica, ossia come la gravità si comporta su scale molto piccole: ecco una delle ragioni per cui questo argomento è così interessante per i fisici.
Traduzione di Eva Filoramo

Diritti Globali

Il buon maestro Eugenio Garin

gennaio 16, 2012

Eugenio Garin

Paolo Rossi, da “Il Sole 24 Ore

Eugenio Garin apparteneva a quella generazione di studiosi i quali (come anche Norberto Bobbio e Nicola Abbagnano) si sono formati e hanno cominciato a scrivere durante gli anni del fascismo e sono diventati più tardi – nel ventennio successivo alla Seconda guerra mondiale – figure di riconosciuti maestri. Dopo la metà degli anni Cinquanta, in specie dopo la recensione di Palmiro Togliatti alle Cronache di filosofia italiana del 1955, Garin, oltre a scrivere libri di storia della filosofia e di storia degli intellettuali, assunse la funzione di «grande intellettuale civile».

Il libro «Eugenio Garin: un intellettuale nel Novecento» (Laterza, Roma-Bari, pagg. 164, € 20,00) di Michele Ciliberto, che di Garin è stato scolaro, ha un primo e molto rilevante merito: quello di mettere in chiaro alcuni punti fondamentali: 1) L’immagine di Garin che deriva dalla sua attività posteriore alle Cronache rappresenta «una sorta di filtro, spesso insuperabile, rispetto al Garin degli anni Trenta e Quaranta» e rispetto alle tesi che egli aveva sostenuto sino al celebre libro del 1952 sull’umanesimo italiano; 2) Si ha anche l’impressione «che egli si sia quasi censurato, cancellando le tracce» rifiutando (per esempio) le molte offerte di una ristampa del suo libro su Pico della Mirandola del 1937 e di quello sui moralisti dell’illuminismo inglese del 1941 del quale disse nel 1983 che «non si riconosceva più». 3) Nella seconda metà degli anni Trenta e nei primi anni Quaranta Garin era su posizioni indubbiamente definibili come esistenzialismo religioso. Gli autori che sente vicini, ai quali guarda con ammirazione, che propone come modelli, sono principalmente Lavelle, Blondel, Maritain, Jankélévitch e soprattutto Gilson. 4) L’incontro con gli scritti di Gramsci furono decisivi nel liberare Garin dalla “tentazione religiosa”. Si trattò, per usare le sue stesse parole, di «una esperienza decisiva, che durò a lungo». Garin sceglieva con cura le parole: a lungo non vuol dire per tutta la vita. 5) Negli anni Settanta (come lucidamente mostra questo libro) il quadro cambia nuovamente «gli elementi drammatici dell’esistenza umana ritornano in primissimo piano, spingendo nel fondo del quadro la dimensione civile» che si era configurata negli anni Cinquanta e Sessanta quasi come «un’ancora di salvezza». Emergono, in quest’ultima fase, come per esempio nei fondamentali saggi sull’Alberti, toni decisamente nichilistici. Questo è, per così dire, lo scheletro del libro, che è ricco di analisi dettagliate e sottili e di non pochi riferimenti a Delio Cantimori e Cesare Luporini.

Anch’io, come Ciliberto, sono stato allievo di Garin. Lui si è laureato nel 1968, io nel 1946. Il mio primo esame aveva come testo principale le oltre seicento pagine dell’Action di Maurice Blondel e conservo ancora una lettera dove mi si consigliava una lettura della Alternative di Vladimir Jankélévitch. Garin considerava la lucidità e la chiarezza come valori, non amava le semplificazioni e a esse contrapponeva le analisi sottili.

Sono più volte mutati i suoi punti di riferimento, ma la messa in luce della coesistenza di cose contrastanti, l’amore per le sfumature, il rifiuto delle dicotomie rozze, la convinzione che il passato sia pieno di cose sconosciute non lo abbandonarono mai. Sapeva perfettamente anche una cosa che tutti i piccoli maestri amano dimenticare. Che il sapere cresce perché ci sono maestri e soprattutto, perché ci sono scolari che si distaccano dai loro maestri. Sapeva che il rapporto tra maestri e scolari è, come quello fra padri e figli, un rapporto difficile. Sapeva che i maestri devono essere amati e rispettati, non ripetuti e che quelli che Galileo (facendo riferimento al loro maestro Aristotele) chiamava «i trombetti» non hanno mai dato contributi alla crescita del sapere.

In un mondo nel quale le lodi non venivano (come spesso oggi accade) regalate per aumentare il numero degli studenti, il massimo dei voti alla tesi equivaleva di fatto a una lettera di presentazione. Era una sorta di invito ad accogliere un novizio che veniva rivolto ai membri di una vasta comunità di studiosi: «Mi sono laureato a Firenze con Eugenio Garin». Questo è stato per me (e per moltissimi altri) un biglietto da visita straordinario. Il modo in cui (nel 1959) fui accolto al Warburg Institute da Gertrud Bing, Otto Kurz, Ernst Gombrich, Arnaldo Momigliano, Frances Yates dipendeva dalla mia provenienza scientifica, era legato alla stima grandissima e all’ammirazione che quegli studiosi nutrivano per il mio maestro.

Quella stima e quell’ammirazione non erano per nulla dipendenti dalla figura di Garin intellettuale civile. Dipendevano dalle molte pagine da lui dedicate alla storia intellettuale europea. Questo libro ci mostra che dietro quelle pagine sono nascoste molte scelte drammatiche e molta sofferenza.

Falsificare Pound per antifascismo

gennaio 15, 2012

Ezra Pound

Pierluigi Battista per “Il Corriere della Sera

Ezra Pound era un grande poeta. Meglio: un grande poeta fascista. Forse gli scrittori e gli intellettuali che hanno firmato una lettera di solidarietà alla figlia di Pound in lotta contro l’«appropriazione indebita» da parte di Casa-Pound pensano invece che un grande poeta non possa essere un grande poeta fascista. Dicono infatti di essere «sdegnati» per l’«uso improprio» che l’estrema destra farebbe del «valore universale della poesia» di Pound. Perché, le poesie di un grande poeta fascista, nel caso fossero grandi poesie belle ed emozionanti, non possono avere un «valore universale»? Dicono anche con una certa imprudenza interpretativa, i Belpoliti e i Cucchi, i Magrelli e i Guglielmi, i Ghezzi e i Balestrini e gli altri firmatari dell’appello, che l’estrema destra che si appropria del nome di Pound sarebbe lontana «dall’universo culturale» del grande poeta (fascista). «Lontano» in che senso?

Ezra Pound era un grande poeta fascista. Era così fascista che concepì i suoi meravigliosi Cantos vicino a Pisa, precisamente nel campo di Coltano, insieme a numerosi altri fascisti che lì erano internati dopo il 25 aprile, dove il grande poeta venne rinchiuso in una gabbia all’aperto, sotto il sole cocente o sotto una pioggia torrenziale: non ci furono grandi poeti e scrittori dello schieramento antifascista che si sentirono di difendere il «valore universale» di Pound. Pound era così fascista che venne segregato per tredici anni in un manicomio criminale perché, da fascista, durante la guerra aveva fatto il propagandista di Mussolini contro gli Stati Uniti: un fascista, e per giunta traditore del suo Paese. Pound era un grande poeta. E purtroppo, con le sue polemiche sull’usurocrazia delle banche a suo avviso pervase di «spirito giudaico», non esente da un antisemitismo imperdonabile. Non c’è nessuno scandalo nel fatto che, a molti anni di distanza, dei gruppi giovanili fascisti si rifacciano al nome di un grande poeta fascista. Come non ci sarebbe scandalo se un gruppo dell’estrema sinistra si richiamasse al comunista Bertolt Brecht, o al comunista Pablo Neruda. Ne verrebbe forse compromesso il «valore universale» di magnifiche opere teatrali e di splendide poesie?

Si fatica ad accettare l’idea che una grande cultura possa essere partorita da un fascista e che tra fascismo e cultura, malgrado le indicazioni di Norberto Bobbio contenute in una delle opere meno brillanti del grande filosofo torinese, non ci siano una inconciliabilità e una incompatibilità assolute. Si considera ancora il fascismo dei grandi scrittori, artisti, poeti, architetti, drammaturghi, registi fascisti come una parentesi insignificante, un accidente biografico, al massimo un deplorevole ma momentaneo cedimento che non inficia la grandezza dell’arte e della letteratura. Oppure li si depura, si dà loro una versione purgata, narcotizzata, decolorata della loro arte e del loro pensiero.

Si sente ancora l’eco delle furiose polemiche degli heideggeriani di sinistra contro una biografia di Heidegger che si era permessa di sottolineare l’adesione del grande filosofo tedesco al nazismo e il celeberrimo discorso universitario in cui il grande filosofo tedesco riconosceva in Adolf Hitler l’uomo del Destino venuto a guidare il suo popolo verso le vette dell’autenticità.

Anche Carl Schmitt è stato sottoposto a un processo di denazificazione postuma per farne un maestro della filosofia politica asettico e neutro. I recenti lavori critici di Ernesto Ferrero e Riccardo De Benedetti hanno restituito di Louis-Ferdinand Céline una pienezza di significati che non prescinde dalle nefandezze antiebraiche profuse da Céline nelle pagine delle Bagatelle per un massacroViaggio al termine della notte è un capolavoro della letteratura del Novecento, ma l’opera di Céline non può essere tagliata a fette, a seconda delle simpatie e delle convenienze. Céline era un grande scrittore, ma un grande scrittore antisemita. Purtroppo le due cose possono convivere: la cosa peggiore è far finta che non sia così, dare un’immagine di comodo di uno scrittore maledetto, scrostarlo di ogni contaminazione ideologica, darne una biografia culturale dimezzata. Del resto, non tardarono ad accorgersi dell’identità fascista degli scrittori e intellettuali appena menzionati i vincitori della Seconda guerra mondiale che non esitarono a sanzionare duramente Heidegger, Céline e Carl Schmitt (il cui caso finì addirittura a Norimberga). A Pound venne riservata, come abbiamo visto, la punizione più crudele. Furono pochissime le voci indignate per il trattamento subito dal grande poeta, pochissimi si interrogarono sul paradosso che vedeva un poeta artefice di poesie di «valore universale» trattato come un pericoloso criminale. E perché mai gli estremisti di destra non dovrebbero rivendicare la loro simpatia per Pound? E come si può ragionevolmente dire che Pound era «lontano» dall’universo culturale dell’estrema destra?

Il difetto sta appunto nel voler dividere l’indivisibile, nel nascondere le parti brutte per prenderne solo quelle più belle. Invece bisognerebbe per prima cosa riconoscere che cultura e fascismo non sono incompatibili. E in secondo luogo ammettere che l’ammirazione per le poesie di Pound (o per i romanzi di Céline, o per il teatro di Brecht) può benissimo convivere con la certezza che il loro autore disse e scrisse anche mostruose sciocchezze. In terzo luogo ricordare che purtroppo la stragrande maggioranza degli artisti e degli scrittori appoggiò uno dei grandi totalitarismi del Novecento, e talvolta, ma non tanto infrequentemente, tutti e due, in più o meno rapida sequenza. È così «improprio» ricordarlo?

Céline rivisitato in tempo di crisi

gennaio 2, 2012

Louis-Ferdinand Céline

Marco Dotti per “il Manifesto”

Per abbattere i tassi di disoccupazione, abbatteranno i disoccupati? Se lo chiedeva Louis-Ferdinand Céline nell’inverno del 1933, a pochi mesi dall’avventurosa pubblicazione del suo Viaggio al termine della notte. Un libro edito in sincrono, nel ’32, con un’altra grande disamina della lunga deriva di vita e lavoro nel secolo che tardiamo a lasciarci alle spalle, quell’Operaio di Ernst Jünger che, nel suo piano elementare, può (anche) essere letto come l’altra faccia della falsa moneta della tecnica messa alla berlina nel Viaggio. Con una differenza, tra le tante che qui si omettono: se in Der Arbeiter è – come da sottotitolo – di Herrschaft e Gestalt, dominio e forma e, di conseguenza, di mobilitazione totale che si fa questione, nel Voyage il tragitto è inverso, tanto che non è più al piano agonistico e drammatico, ma alla caleidoscopica e dirompente potenza dell’infamia e dell’informe in una prefigurata era di mobilisation infinie che si guarda. Nei panni del medico sociale Eppure entrambi, Jünger e Céline, si sporgono sullo stesso abisso. Uno dall’alto, l’altro dal fondo. Uno gettando lo sguardo oltre le sue elitarie scogliere di marmo, l’altro alzando gli occhi duri da bretone sopra il fango che si deposita nei sottopassi della Storia. Una Storia che, nelle peripezie della coppia Bardamu-Robinson del Voyage au bout de la nuit, riveste tratti di scapestrato simbolismo collettivo. Il Viaggio è anche il sogno americano che si schianta – travolgendola – contro un’Europa avvilita dalla guerra passata e imminente, dalla fame e dalla crisi del ’29 e da un colonialismo che si appresta a mutarsi – grazie alla vita malata messa al lavoro – nel più temibile dei contrappassi: una «endocolonizzazione » dell’esistenza, in nome di pari libertà, fraternità, uguaglianza. Una crisi che, in Francia, dispiegò gli effetti più duri proprio nel ’32 provocando, tra l’altro, la caduta – su questioni, ironia delle cose, di patrimoniali e debito estero – del governo di Édouard Herriot, inaugurando l’era delle grandi truffe bancarie. È di quegli anni il prototipo di molti crack finanziari moderni, quell’affaire Staviski che travolse il Crédit Municipal de Bayonne e un sistema ben più complesso di partite doppie tra politica e affarismo scritte con l’inchiostro simpatico di un grande imbroglio istituzionale. Entrambi guardano lo stesso abisso o almeno così vogliono far credere. Poco importa, dunque, che i due, Céline e Jünger, si siano fiutati e rifiutati, nei mesi trascorsi dall’autore di Die Totale Mobilmachung (1930) a smistar lettere nella Parigi occupata. Di Céline, nel suo diario Jünger ricorderà che era «grande, ossuto, forte, un po’ goffo, vivace nella discussione, anzi nel monologo», oltre che «sorpreso, urtato di sentire che noi soldati non fuciliamo, non impicchiamo e non sterminiamo gli ebrei; sorpreso che qualcuno, avendo una baionetta a disposizione, non ne faccia un uso illimitato». Sull’antisemitismo di Céline non è forse il caso di soffermarsi (lo fanno, da prospettive differenti, storica e di critica culturale, due lavori di Germinario e De Benedetti segnalati nella scheda a fianco), per evitare banalità e non meno scontate condanne. Resta un problema: se Céline non fosse stato antisemita, ci avrebbe forse offerto la più grande lettura della miseria del nostro tempo (Aragon si pronunciò in tal senso, dichiarando il Viaggio come il più autentico e sentito romanzo comunista. Altri lo seguirono a ruota). Ma se non fosse stato antisemita, non ci avrebbe offerto la più grande lettura della miseria del nostro tempo. Non se ne esce, nemmeno istituendo soluzioni di continuità tra un Céline apolitico e un Céline politico, tra un prima e un dopo i libelli antisemiti. Tutto è già in nuce nel primo Céline e tutto è in nuce nello scrittore, perché tutto – si ha l’impressione – è da sempre in potentia in un patrimonio culturale che la Francia si è apprestata a ricacciare sotto il tappeto, come si fa con la polvere. Nell’articolo uscito su «LeMois» (1 febbraio – 1 marzo 1933) con il titolo Pour tuer le chomage tueront-ils les chômeurs? chi prende posizione non indossa la maschera e il sarcasmo dello scrittore né (ma qui, appunto, il discorso si farebbe scivoloso) quella dell’apertamente violento antiborghese e antisemita delle Bagatelles pour un massacre edite da Denoël nel 1937 e tradotte dal Corbaccio l’anno seguente. Chi parla, su «Le Mois», indossa ancora abiti e contegno del medico sociale, con il suo freddo dominio delle cifre e la sua preoccupazione per le condizioni di vita del proletariato industriale. Laureato in medicina, Louis-Ferdinand Destouches aveva operato per i servizi sanitari della Società delle Nazioni e, come medico del lavoro, presso gli stabilimenti americani della Ford, dopo aver trovato impiego come operaio e essersi sentito ripetere – si legge nel Voyage – che «non ti serviranno a niente qui i tuoi studi, ragazzo! Mica sei venuto qui per pensare ma per fare i gesti che ti ordineranno di eseguire. Non abbiamo bisogno di creativi nella nostra fabbrica. È di scimpanzé che abbiamo bisogno». Nel 1930, Céline aveva già all’attivo alcuni saggi di medicina sociale che in qualche modo anticipano le pagine del Viaggio sulle condizioni della manodopera industriale alla Ford e sui quartieri popolari di Parigi. L’articolo apparso su «LeMois » è però relativo a un altro viaggio compiuto dallo stesso Céline, non negli Stati Uniti ma in una Germania sull’orlo di quel lungo inverno che l’avrebbe presto condotta a una tragica rovina. Il 5 marzo 1933, il Partito Nazionalsocialista vinse le elezioni e a qualcuno parve addirittura un segno di pacificazione interna o, comunque, un buon segno per la ripresa dell’Europa. Sofismi al posto di azioni Ma, come osservava Céline, «la pace non interessa nessuno e la fraternità viene a noia». Soprattutto in tempi di crisi. Come si ridurrà la disoccupazione?, si chiede il dottor Destouches. I tecnici dei ministeri sembrano avere, per lui, indocile lettore di statistiche, una sola risposta: «Con la sparizione graduale dei disoccupati». Questo perché «la mortalità crescente e le malattie da fame finiranno, nell’arco di cinquant’anni, per assorbire tutti i “senza lavoro”. Ecco quello che non si dice chiaramente, ma si predice come normale negli ambienti “bene informati”». E nel frattempo? Nel frattempo, conclude, «il sussidio mensile è di circa 250 franchi, e proprio il sussidio, nella realtà dei fatti, condanna il disoccupato a una morte lenta per fame. I pubblici poteri assumono con franchezza questo stato di cose? Lo sanno? Si e no». Con un sussidio di 250 franchi al mese, osservava dunque l’attento Céline, bastano 4 anni per vedersi ragionevolmente morire di fame e questo perché «su quattro tedeschi il primo mangia troppo, altri due mangiano secondo il proprio appetito e il quarto… Beh, il quarto crepa lentamente per denutrizione. Ecco un problema che un bambino di dieci anni, dotato nella media, potrebbe risolvere in dieci secondi. I sofismi invece la fanno da padroni, sofismi che sostituiscono le azioni, là dove – al posto di quel bambino – interviene l’ipocrita, raffinata, riserva della ragione adulta. Perché gli adulti hanno imparato brillantemente a ragionare, ma su basi palesemente false. Un problema non rappresenta più un problema, quando tacitamente si è giurato di fare di tutto per non risolverlo. Non si tratta di capitalismo o di comunismo. Si tratta di ordine e buona fede». Il fatto che Céline non nutra, né abbiamai nutrito alcuna speranza di emancipazione per la classe operaia fu già Paul Nizan a rilevarlo. Perché in Céline è all’opera – lo dimostra, tra l’altro, il puntiglioso lavoro di Germinario – una sfiducia sistemica, sistematica e radicale nella possibilità storica che le cosiddette classi subalterne possano ribaltare a loro vantaggio un processo di de-emancipazione che, nell’opera dello scrittore del Viaggio, sembra tendere a un punto infinito. L’antropologia céliniana – che non solo è incline al pessimismo, ma oltre certi limiti sconfina nell’abiezione – mantiene però negli anni Trenta un suo dirompente profilo non privo di risvolti politicamente lucidi e persino profetici, nella sua prefigurazione distopica. Céline è un antiutopista, ma non ha bisogno di vagheggiare Nuovi mondi o nuove ere. Le ha viste, toccate, ne scrive. Nella «massa di inerzia civica», nelle «bestie senza fiducia» che (s) qualificano la condizione operaia a condizione di sub umanità e dannazione perenni, Céline vede il peggior prodotto della bestia capitalistico-finanziaria.Un prodotto di quel luogo, la fabbrica, che altro non è se non il risvolto all’apparenza meno demoniaco di un letto d’ospedale. Masse di inerzia psico-fisica Il lavoro non nobilita l’uomo, non più della povertà, della miseria o della fame. Non più di un sussidio statale da 250 franchi al mese. Il lavoro presuppone, per il dottor Destouches e per lo scrittore Céline, una precondizione: la malattia. È la vita malata ad essere messa al lavoro, tanto che – scrive, in una nota sull’impiego nella fabbrica di Detroit – «non si vede di che malattie potrebbe essere malato un operaio al punto da non poter lavorare alla Ford». I postulanti, gli inetti, i disgraziati, le classi abbiette «sono le più gradite alla direzione dello stabilimento» che producono malattia e malattia richiedono, per mantenere uno status quo inerziale fondato non sulla progressiva decadenza dello spirito, ma dei corpi. Corpi affamati, stremati dalla fatica, incapaci di vita comune, «masse di inerzia psico-fisica», facilmente corrompibili, perché già fiaccate e corrotte. La malattia e l’avvilimento, la disgrazia e l’inerzia sono per lui condizioni essenziali e costitutive dell’impiego in fabbrica. Non ambisce a questo, né registra il dato, oltre tutte le magnifiche sorti e progressive. La malattia come ultima risorsa umana, in un mondo che si vede inesorabilmente volto alla comune rovina. Senza classe e, forse, senza classi.

Informazione Corretta

Il secolo della pace

dicembre 23, 2011

Steven Pinker

Steven Pinker, da “la Repubblica”

Il giorno in cui leggerete questo articolo, verrete a conoscenza di uno sconvolgente atto di violenza. Da qualche parte nel mondo ci sarà stato un attentato terroristico, un omicidio insensato, una sanguinosa rivolta. Venire a conoscenza di queste atrocità e non pensare “fino a che punto arriveremo?” è impossibile. Una domanda più appropriata, in realtà, potrebbe essere: “Quanto atroce è stato il mondo in passato?”. Che lo si creda o no, in passato la vita su questa Terra è stata di gran lunga peggiore. La violenza è in calo da migliaia di anni a questa parte e oggi molto probabilmente viviamo nell´epoca più pacifica nella storia della nostra specie. Certo, il calo della violenza non è stato omogeneo. In ogni caso si è trattato di un progresso storico costante, quantificabile nell´ordine dei millenni e visibile negli anni, dalla dichiarazione delle guerre alle sculacciate ai bambini. Sono consapevole che questa mia affermazione susciterà scetticismo, incredulità, e in qualche caso collera. Noi siamo portati a valutare la probabilità di un evento dalla facilità con la quale possiamo richiamare alla mente esempi analoghi e senza dubbio le scene di massacro hanno maggiori probabilità di entrare nelle nostre case e di restare impresse nella nostra memoria di gran lunga più delle immagini di gente che muore normalmente di vecchiaia. Ci saranno sempre abbastanza morti violente da riempire i telegiornali.
Non è difficile trovare le prove del nostro sanguinario passato. Basti pensare ai genocidi del Vecchio Testamento e alle crocifissioni del Nuovo, alle mutilazioni cruente delle tragedie di Shakespeare e alle fiabe dei fratelli Grimm, ai monarchi britannici che decapitavano i loro parenti e ai primi coloni americani che sfidavano a duello i loro nemici. Oggi la drastica riduzione di queste pratiche violente può essere quantificata: dando un´occhiata ai numeri si evince che nel corso della Storia il genere umano è stato benedetto da sei significative fasi di diminuzione della violenza. La prima fu un iter di pacificazione: la transizione dall´anarchia delle società dedite alla caccia, alla raccolta e all´orticultura alle prime civiltà agricole, con città e governi, iniziata circa cinquemila anni fa.
Per secoli, sociologi come Hobbes e Rousseau hanno formulato varie ipotesi dalle loro comode poltrone su come dovesse essere la vita allo “stato di natura”. Oggi possiamo fare di meglio: l´archeologia forense – una sorta di “CSI Paleolitico” – può desumere il tasso di incidenza della violenza dalla percentuale di scheletri reperiti nei siti archeologici che presentano crani spaccati, decapitati o frecce ancora conficcate nelle ossa. Gli etnografi possono appurare le cause di morte nelle popolazioni tribali che hanno vissuto in tempi recenti fuori dal controllo statale. Da queste indagini risulta che in media il 15 per cento circa delle persone vissute in epoche antecedenti alla nascita degli Stati moriva di morte violenta rispetto al 3 per cento circa delle persone vissute dopo la nascita degli stati. Il secondo calo della violenza fu un processo di civilizzazione molto evidente in Europa. Dagli archivi storici risulta che tra la fine del Medioevo e il XX secolo i paesi europei assistettero a una contrazione del tasso degli omicidi da dieci a cinquanta volte. Tali cifre sono compatibili con ciò che ci è raccontato dei bui e spietati tempi medievali. C´erano così tante persone alle quali era mutilato il naso che nei testi medici dell´epoca si facevano congetture varie sui metodi e sulle tecniche più adatte a farlo ricrescere. Gli storici attribuiscono il calo della violenza al consolidarsi di un insieme variegato di territori feudali in grandi regni dotati di un´autorità centralizzata e infrastrutture di commercio. La giustizia penale divenne di competenza dello Stato e i saccheggi a somma zero cedettero il posto a redditizi commerci. La terza transizione, denominata talora Rivoluzione umanitaria, fu innescata infine dall´Illuminismo. Nel XVIII secolo si andò diffondendo l´abolizione della tortura giudiziaria. Al tempo stesso molte nazioni iniziarono a sfoltire la lista dei reati passibili della pena capitale. Sempre più paesi cominciarono altresì ad abolire passatempi sanguinari quali i duelli, la caccia alle streghe, le persecuzioni religiose e la schiavitù.
La quarta transizione verso una sensibile riduzione della violenza è l´astensione dai conflitti internazionali alla quale stiamo assistendo dalla fine della Seconda guerra mondiale. Gli storici chiamano talvolta questo periodo “la Lunga Pace”. Il luogo comune secondo il quale il XX secolo è stato “il più violento della Storia”, pertanto, non tiene affatto conto della seconda metà del secolo (e in ogni caso l´assunto potrebbe non essere vero neppure in relazione alla prima metà, se si calcolano le morti violente in rapporto all´intera popolazione terrestre). Il quinto trend, che mi piace definire “la Nuova Pace”, interessa la guerra nel mondo inteso nel suo insieme, comprese quindi le nazioni in via di sviluppo. Dal 1946 parecchi organizzazioni hanno tenuto conto del numero dei conflitti armati e soprattutto del bilancio complessivo delle vittime in tutto il pianeta. La cattiva notizia è che per svariati decenni al calo di guerre tra nazioni diverse si è accompagnato un aumento delle guerre civili. La notizia un po´ meno cattiva è che le guerre civili tendono in genere a falciare meno vittime tra la popolazione rispetto alle guerre tra Stati. La notizia positiva, invece, è che dal picco raggiunto durante la guerra fredda negli anni Settanta e Ottanta i conflitti organizzati di ogni possibile tipo sono in costante diminuzione a ogni latitudine e il bilancio delle vittime è ancor più sensibilmente in calo.
Forse che la violenza è stata letteralmente estirpata da noi, lasciandoci più pacifici per natura? È molto più probabile che della natura umana abbiano sempre fatto parte una certa propensione alla violenza e altre propensioni a controbilanciarla – tramite l´autocontrollo, l´empatia, l´onestà e la ragione – quelle che Abraham Lincoln aveva definito “i migliori angeli della nostra natura”. La violenza è in calo perché le circostanze storiche hanno salvaguardato sempre più i nostri angeli migliori. La più ovvia di queste forze pacificanti è stata lo Stato, col suo monopolio sul legittimo uso della forza. Altra forza pacificante sono stati i commerci, attività dalla quale tutti possono trarre profitto. Una terza forza profondamente pacificante è stata il cosmopolitismo, l´espandersi dei piccoli mondi campanilistici delle varie popolazioni attuato tramite l´istruzione, la mobilità, la cultura, la scienza, la storia, il giornalismo e i mezzi di comunicazione. Queste tecnologie hanno altresì alimentato un´espansione della razionalità e dell´oggettività nelle questioni umane. Gli esseri umani hanno sempre meno probabilità di privilegiare i propri interessi a discapito di quelli altrui.
Quando si diventa consapevoli del calo storico della violenza, il mondo inizia ad apparire diverso. Il passato sembra meno innocente, il presente meno sinistro. Si iniziano ad apprezzare i piccoli doni della coesistenza che sarebbero sembrati utopistici ai nostri antenati: la famiglia interraziale che gioca al parco, il comico che fa una battuta di spirito sul capo del governo, i paesi che con calma fanno passi indietro rispetto al deflagrare di una crisi invece di lanciarsi in un´escalation bellica. Malgrado tutte le difficoltà del nostro vivere, e tutti i problemi che restano ancora irrisolti nel mondo, il calo della violenza è un risultato che possiamo apprezzare e che deve essere di incitamento ad aver care le forze della civiltà e dell´Illuminismo che l´hanno reso possibile.
*(Traduzione di Anna Bissanti)
© 2011 Dow Jones & Company, Inc. All Rights Reserved. Questo articolo è stato pubblicato sul Wall Street Journal

Diritti Globali

ARBASINO A MANHATTAN SFOTTE CATTELAN

dicembre 23, 2011

Alberto Arbasino

Alberto Arbasino per “la Repubblica“, da “Dagospia

…Come ci si sente lontani, qui, nei quartieri del lusso, dal vecchio Village, ove tante strade, oggi indifferenti, erano un tempo circonfuse da aure nostalgiche: Christopher, Grove, Stonewall, Waverly Place… E poi, più recenti secondo le mode, a Soho: Prince, Spring, Broome, Wooster, Greene, Mercer…

Variano anche le battute, nelle vignette e in tv. Saranno più anziane o più giovani?… «O è psicotico, o si appella alla base»… «Sono sicuro che siete bravissimo, ma non mi interessa sentirvi parlare di tasse»… «Possibile che questo elaborato tatuaggio sia venuto qui da solo?»… «Non che mi lamenti, ma non mi sarei mai aspettato di vedere uno scoiattolo gigante da un altro mondo che pulisce la strada»… «Prima dell´invenzione della ruota, i primitivi restavano delusi dai pneumatici quadrati»…

«Quando non porti la cravatta, poi ti gratti il collo per tutta la notte»… «Non si cambiava i jeans neanche davanti al computer»… «Qui si mette sempre peggio» (con un telefonino, da un ascensore bloccato, dove un chitarrista sta cominciando a suonare). E i vistosi annunci: uno che lascia le scene, due che divorziano, una che è incinta… Disturbing.

Un evento è la mostra di Cattelan al Guggenheim Museum: il «typically Italian» di turno. Anche qui: «perversely seductive and disturbing», giacché si tratta di oltre cento provocazioni e trasgressioni e irriverenze pendenti nel grande vano, e non nelle nicchie alle pareti che hanno sempre avuto l´inconveniente di presentare quadri rettangolari sopra un dislivello discenditivo.

Le molte impertinenze e insolenze sono appese al soffitto con cordami di lunghezze diverse: ecco dunque variamente impiccati bambini (come già a Milano), televisori, calcio-balilla, asinelli, tappeti, Hitler, piccioni veneziani, scheletri di animali. Per la gioia di chi fotografa. Ma indubbiamente starebbero meglio isolate, le singole opere. Come nel caso dei “mobile” di Calder, l´accumulo fa inevitabilmente magazzinaggio.

Quanto lavoro per tanti addetti: imbalsamatori, cordai, fissatori, esperti di riempitivi, anche per le mescolanze fra Picasso e Lichtenstein. Nessuna dissacrazione anti-musulmana, e parecchie invece anti-cattoliche. Tipicamente, il papa Wojtyla atterrato non dalle pistolettate dell´attentatore Ali Agca, bensì da un meteorite-metafora.

Nelle sale adiacenti, sempre i capolavori della collezione Thannhauser, con i magnifici Picasso antichi e recenti. Ma qui si avverte l´assenza dei suoi meravigliosi “Saltimbanchi”, ora alla National Gallery di Washington. E già descritti da Rilke nella quinta Elegia Duinese. «Là vizzo, rugoso, l´atleta, – il vecchio, che batte solo ancora il tamburo, – nella sua pelle potente rientrato, com´essa – due uomini prima vestisse…».

…Passeggiando… Al Whitney Museum, “Real/Surreal” espone un´antologia di incontri-scontri fra Realismo e Surrealismo nell´America tra le due grandi guerre. Quadri, disegni, foto. Allucinazioni quotidiane in luoghi urbani immediatamente riconoscibili e inverosimili. Nevicate, labirinti, fonderie, spiagge, binari, false prospettive e proporzioni ingannevoli. Notturni solitari e metafisici, pupazzi come in De Chirico.

Ma anche l´isolazionismo nazionalista delle Piccole Città alla Spoon River. Analisi di tipi e comportamenti psicologici dietro la fissità delle fantasticherie attonite. Qui, soprattutto Jared French (1905-1988), accanto alle tipiche magie di Edward Hopper, Joseph Cornell, Grant Wood, Philip Guston, Man Ray, e tipicamente Yves Tanguy, in zaffate di surrealismo europeo.

Accanto, oltre a brevi “corti” marini di Lichtenstein, “La seduzione di Galileo Galilei”, di Aleksandra Mir. Video con una gru che prova a costruire una torre di vecchi pneumatici, ma a causa della forza di gravità continuano a cascar giù. E su un altro piano, una collezione di giganteschi cubi nuovissimi di David Smith, perfettamente in ordine malgrado il titolo fuorviante di “Cubi e Anarchia”.

Intanto, in giro, cosa sarà più trendy, fra gli shopping events?
Bottiglie in forma di teschi, Tacchi di plastica, Pareti a strisce e pois. Conferenze su «Come fare apposta gli sbagli». Dibattiti su «La libertà di espressione deve includere la licenza di offendere?». Grand Guignol & Assenzio.

The Cannibal, The Occulter, Closet Divas & Divos, Jewish Culture Downtown, I Droni e l´Universo, «Come ho capito che non tornerai a casa», «Può un´opera trionfare per la Pace e la Verità?», «Un giardino semovente interattivo», «Solo urli e strilli», «Super Mario 3D Land, per Nintendo 3DS»…

E un tormentone d´attualità: sarà adesso più trendy come immagine, Bob Dylan o Cary Grant?

Guerre senza fine

dicembre 18, 2011

Matteo Persivale per “Il Corriere della Sera

«Usare la parola “vittoria” mi preoccupa sempre, perché richiama quest’idea dell’imperatore Hirohito che va a firmare la resa da MacArthur». La data di scadenza dell’impero americano — questione dibattuta non più soltanto tra gli accademici di sinistra, vedi Noam Chomsky, ma ormai anche dalla destra più pragmatica, vedi Niall Ferguson — potrebbe essere assegnata all’intervista nella quale, parlando dell’Iraq, Barack Obama ha smesso i panni professorali nei quali si trova maggiormente a suo agio per ammettere, con sincerità, che non esistono più le vittorie di una volta.

Il ritiro degli ultimi 24 mila soldati Usa rimasti in Iraq — doveva terminare entro sabato 31, ma gli americani lo hanno completato con due settimane di anticipo, lasciando ufficialmente il Paese giovedì scorso—dimostra che non è più possibile contare su guerre che vanno a finire: la risoluzione dei conflitti ora trova ragioni geopolitiche che superano le categorie tradizionali di vittoria e sconfitta. Che, in una società mediatica, hanno contato per un secolo su un’immagine significativa— o più immagini—che decretavano visivamente la fine di un conflitto. Guerre calde—o fredde—concluse da una foto che documenta la vittoria: la bandiera a stelle e strisce che sventola su Iwo Jima (23 febbraio 1945, l’autore dello scatto è Joe Rosenthal), il muro di Berlino abbattuto dalla folla in festa (9 novembre 1989), Slobodan Milosevic alla sbarra davanti al tribunale dell’Aja per crimini di guerra. E una foto documentava anche le sconfitte: l’ultimo elicottero che lascia l’ambasciata americana di Saigon (29 aprile 1975, foto di Hubert van Es), il corpo nudo del soldato americano William David Cleveland trascinato per le strade di Mogadiscio dalla folla in festa (il 3 ottobre 1993 di Black Hawk Down, l’autore della fotografia è il canadese Paul Watson).

Immagini-feticcio, tanto potenti da trasformarsi, nella nostra memoria, in qualcosa d’altro: è successo anche al presidente, che nell’intervista con la Abc ha parlato della definizione di vittoria come «Hirohito» che firma la resa «da MacArthur ». Ma la foto a cui si riferisce non ritrae né l’imperatore né MacArthur. L’immagine del 2 settembre 1945, infatti, mostra il ministro degli Esteri nipponico, Mamoru Shigemitsu, firmare il documento di resa a bordo della portaerei Missouri sotto lo sguardo del generale Richard K. Sutherland, il capo dello staff di MacArthur.

Quando il ministro della Difesa americano — ed ex direttore della Cia — Leon Panetta si è presentato il mese scorso davanti alla commissione forze armate del Senato, è finito sulla graticola messa a punto dal repubblicano John McCain per la scelta di non lasciare una presenza di truppe in Iraq più in là del 2011. «Qui si parla di negoziare con una nazione sovrana. Una nazione indipendente… Qui non si parla di noi che andiamo a dir loro quel che devono fare… Qui si parla di un Paese che prende una decisione». Panetta, che per lunghi anni è stato anche un potente deputato, ha finito per usare con McCain modi insolitamente aspri per l’etichetta parlamentare americana, dando apertamente del bugiardo all’avversario nella parte più dura del dialogo («Senatore, semplicemente questo non è vero»).

In apparenza stavano discutendo della clausola di immunità legale davanti alla giustizia irachena pretesa dall’amministrazione americana per restare in Iraq (e non concessa). Ma in realtà il nocciolo della questione è che Obama ha lasciato l’Iraq senza — nella pratica — quella che gli esperti di strategia chiamano «vittoria decisiva» e senza — nella forma — la sua immagine di vittoria, di fine della guerra. Mercoledì scorso, daWashington, ha annunciato il ritiro dopo otto anni e otto mesi di spedizione irachena, e il giorno dopo a Bagdad il solito Panetta ha preso parte a una pochissimo mediatica e inevitabilmente mesta cerimonia di ammainabandiera: lasciando ai posteri non un’immagine da libri di storia, ma la foto un po’ burocratica del soldato in mimetica e anfibi che ripiega e porta via l’ultima bandiera a stelle e strisce.

Quanto ai filmati sgranati dell’esecuzione di Saddam Hussein, presi col cellulare, semmai sono la conclusione di un’altra guerra del Golfo, quella cominciata nel 1991 e che per oltre un decennio lasciò il raìs al suo posto. La goffa foto di George W. Bush, il 1˚maggio del 2003, sulla portaerei «Lincoln» con quel grande striscione con la scritta «Missione compiuta» alle spalle, non solo non ha funzionato, ma ha rappresentato, secondo quanto ha ammesso lo stesso Bush (in due interviste rilasciate dopo aver lasciato la Casa Bianca), un errore.

Otto anni esatti dopo quell’infelice uscita di Bush sulla portaerei, il 1˚maggio 2011, Obama aveva annunciato al mondo l’uccisione di Bin Laden nel raid di Abbottabad. E neppure in quel caso aveva potuto consegnare la «foto ricordo» della vittoria avvenuta o, per dirla con Bush, della missione compiuta. L’unica foto di Bin Laden morto che ha fatto il giro del mondo era il solito falso diffuso via Internet. Non che se la Casa Bianca avesse davvero reso pubbliche le immagini del raid sarebbe cambiato molto (a parte la visione del cranio spappolato del leader di Al Qaeda, soddisfacente per alcuni sotto il profilo emotivo, ma spaventosa per tutti gli altri): non ci sono più immagini di vittoria — o di sconfitta — significative perché Iraq e Afghanistan segnano la fine di un’era per due motivi. Il primo, di natura strategica. Il secondo, di natura mediatica.

Il primo motivo: le «piccole guerre» — quelle in cui l’equilibrio tra le due parti è fortemente sbilanciato, generalmente sono foriere di sconfitte per chi appare più forte sulla carta dai tempi dell’Impero britannico contro i ribelli comandati da George Washington in poi, come dice Martin Van Creveld — vedono l’inevitabile «fallimento delle grandi potenze», e la classica definizione data da von Clausewitz della guerra come «una partita a carte» si trasforma in una partita dal finale confuso, dove ci si rialza dal tavolo senza riuscire a contare esattamente quante chip sono andate perse e quante se ne sono guadagnate. E l’«estensione della politica con altri mezzi» — altra definizione di von Clausewitz — non riesce a estinguersi nell’«uso più completo dei suoi risultati».

Il secondo motivo: la nostra concezione della guerra — Baudrillard scrisse che la prima guerra del Golfo, vista da tutti in tv via satellite, «non è mai accaduta» — in una società mediatica è cambiata per sempre. La seconda guerra del Golfo, quella di Bush figlio, è stata basata dal Pentagono sulla strategiashock and awe, «spaventa e stupisci», una guerra basata sulle immagini e astratta in partenza (con dosi di «realtà» comunicate grazie a giornalisti embedded al seguito delle truppe, il contrario del caos democraticamente senza filtri dell’informazione durante la guerra del Vietnam).

L’artista tedesco Gerhard Richter con la serie di quadri dedicati alla banda Baader-Meinhof — Tote, 1, 2, und 3, olio su tela, 1988 — dipinge sopra le foto dei terroristi morti e da oltre un ventennio fa pensare e scatena polemiche: sono immagini di martiri, la Rote Armee Fraktion vista da Mantegna? Sono elaborazioni in primo piano delle fotografie viste sui giornali, dei fotogrammi dei telegiornali? A quarant’anni dai crimini della Raf e a quasi un quarto di secolo dalla realizzazione di quei quadri, la Ulrike Meinhof di Richter, con gli occhi chiusi e il segno del cappio sulla gola, attira folle di visitatori alla grande mostra della Tate Gallery a Londra in queste settimane, come il quadro delle Torri gemelle che bruciano dietro un cielo opaco che sembra preso in prestito a un olio di Turner.

Alla recente Biennale, un grande carro armato rovesciato (e trasformato in un tapis roulant da palestra) troneggiava inquietante davanti al padiglione americano: opera di Jennifer Allora e Guillermo Calzadilla. Ma nessuno capisce che la nostra concezione della guerra è stata formata dai media — specialmente dai film, e dai film di guerra — più dell’artista inglese Fiona Banner, 45 anni, che l’anno scorso ha esposto alla Tate Gallery londinese dei caccia — Harrier e Jaguar — sistemati in picchiata a pochi centimetri dal pavimento, quattordicimetri di metallo scintillante per farci riflettere davanti a un enorme specchio portatore di morte e distruzione. Banner dall’inizio della sua carriera gioca con le sceneggiature dei film di guerra americani, riproducendone i testi in una specie di ossessivo stencil che copre le pareti delle sue installazioni e che avrebbe fatto la gioia di Robbe-Grillet, collegando una scena all’altra con «e poi», «e poi», ripetuti insistentemente come fanno i bambini quando raccontano in fretta qualcosa che li ha impressionati.

Un’altra opera di Fiona Banner, Black Hawk Down, è una descrizione del film sulla sconfitta americana in Somalia: «È un cataclisma del linguaggio, il testo che finisce schiacciato dal proprio peso finché non riesci più a leggere — ha detto l’artista —. È la lotta per tradurre non soltanto dal visivo al verbalema dalla storia almito, e dal mito alla storia, e la confusione che tutto questo comporta. La forma del testo sulmuro, e l’immagine che forma, è come uno schermo diviso a metà, qualcosa che ha strappato l’immagine a metà — sembra un po’ un paesaggio bombardato». È il bombardamento di immagini mediatiche che genera il nostro bisogno di vedere una guerra che va a finire, la rassicurazione della sconfitta o della vittoria sintetizzata in una sola immagine, uno slogan visivo. Ma è una necessità destinata a restare frustrata, come ha scoperto il ministro Panetta al Senato e come vede Obama ogni giorno, aprendo i giornali che gli chiedono conto del bilancio di una guerra che è stato costretto a chiudere senza un finale da film, senza la conclusione del terzo atto che da Aristotele in poi mette alla nostra tensione di spettatori la parola «fine».

Lo straniero e il nativo

dicembre 15, 2011

Gianfranco Ravasi

Gianfranco Ravasi, da “Il Sole 24 Ore

I tragici e dolorosi eventi di Torino e Firenze, in cui hanno perso la vita Samb Modou e Diop Mor, mi inducano a riproporvi un comma di un antico codice civile di cui non vorrei subito svelare la provenienza: «Quando uno straniero risiede nel nostro territorio, non deve essere né molestato né oppresso. Lo straniero residente deve essere trattato come il nativo». A commento di questo dettato legislativo vorrei allegare due esperienze personali antitetiche. La prima è legata alle ferie che ho trascorso la scorsa estate sul lago di Como. Quando mi capitava di ascoltare la radio, mi imbattevo spesso in una nota emittente di un movimento politico, aperta a un filo diretto con gli ascoltatori. Con tutte le variazioni fonetiche dei vari dialetti settentrionali, che ben conosco anche per le mie origini anagrafiche, il leit-motiv era costante: «Mandateli a casa loro! Cacciateli! Sono pericolosi, ci tolgono posti di lavoro, si allargano, sporcano e favoriscono la criminalità, vogliono una moschea in ogni quartiere…» e così via deprecando e, non di rado, inveendo.

L’altra esperienza si ripeteva, invece, ogni mattina, quando sfogliavo i giornali e giungevo alle pagine degli spettacoli ove imperavano le cronache e le recensioni del Festival del Cinema di Venezia. Non c’era giorno in cui sugli schermi del Lido non ci fosse un film che, con diversa tonalità, mettesse in scena proprio loro, gli stranieri immigrati. Penso alVillaggio di cartone del mio amico Olmi, una spoglia e pura parabola cristiana, o alTerraferma di Crialese, che ha impressionato la stessa giuria che gli ha assegnato il suo premio specifico, oppure all’intenso Là-bas di Guido Lombardo sulla piaga del caporalato, o ancora al documentario Io sono di Barbara Cupisti nella sezione “Controcampo”, per non parlare poi delle Cose dell’altro mondo di Patierno, ove lo stesso tema è trattato con un contrasto ironico.

Ci sono, quindi, due volti differenti dell’Italia e, al di là delle professioni esteriori conclamate, quello autenticamente religioso e soprattutto cristiano è il secondo, anche se – tranne Olmi – forse tutti gli altri registi si dichiarano “laici”. È, infatti, lapidaria la frase che Cristo nel capitolo 25 del Vangelo di Matteo rivolge anche a quelli che non lo conoscevano: «In verità vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli l’avete fatto a me». E chi siano questi piccoli è subito specificato: affamati, assetati, stranieri, nudi, malati, carcerati. In questa linea aveva ragione il cardinal Tettamanzi quando ai suoi critici milanesi replicava che, come vescovo, aveva semplicemente seguito il Vangelo. E confesso che mi hanno sempre affascinato le riflessioni del nuovo arcivescovo di Milano, il cardinal Scola, quando da Venezia proponeva la sua versione del “meticciato” culturale e sociale a cui siamo ormai votati e che dobbiamo faticosamente costruire e calibrare.

Nessuno di quelli che incarnano la seconda prospettiva sopra delineata è così ingenuo da ignorare le difficoltà, le asperità, le tensioni di un simile incontro. La via dello scontro o del duello è facile e fin troppo spontanea, e si arma di slogan efficaci di ritmo binario elementare (buono/cattivo, bianco/nero etc.). La via del confronto e del duetto, in cui le voci mantengono la loro identità anche antitetica – come accade in musica – ma si ascoltano e intrecciano, è più ardua, ma è l’unica cristiana e culturalmente degna e feconda, da imboccare senza troppe riserve e paure.

Il comma citato in apertura appartiene al codice dell’Israele biblico (Levitico 19,33-34;Esodo 22,20). Certo, era un regime teocratico, tant’è vero che il comma continua in modo parenetico: «Tu amerai lo straniero come te stesso, perché anche voi siete stati stranieri in terra d’Egitto». Ma una norma simile dovrebbe essere invidiata e imitata anche da uno stato moderno e “laico”.

In difesa di Christa Wolf. Una vita distrutta dalle calunnie

dicembre 14, 2011

Christa Wolf

Il testo della polemica orazione funebre per la scrittrice pronunciata ieri da Günter Grass.”Contro di lei una campagna di stampa ispirata da indignazione ipocrita e spirito opportunista”

Günter Grass, da “la Repubblica”

Christa Wolf apparteneva, come me, ad una generazione segnata dal nazionalsocialismo e da una tardiva, troppo tardiva, presa di coscienza di tutti i crimini commessi dai tedeschi nell´arco di soli dodici anni. Per scrivere, da allora, bisogna saper leggere le impronte, come lei fa in uno dei suoi libri, Trama d´infanzia. Gli anni della sua gioventù furono caratterizzati da una drammatica alternanza ideologica, dalla dittatura nazista alle dottrine staliniste. Strade sbagliate imboccate con fede, il sorgere del dubbio e la resistenza alle imposizioni, e ancora, la consapevolezza di far parte di un sistema che liquida l´utopia socialista, sono aspetti del valore dimostrato in cinquant´anni di attività letteraria: da Il cielo diviso fino all´ultimo viaggio che ci conduce nella Città degli angeli, libro dopo libro. Libri che sono rimasti.
Ne scelgo uno: Che cosa resta, un racconto pubblicato nel giugno 1990 dalla “Aufbau Verlag” e dalla “Luchterhandverlag”. Ancor prima che fosse presentato ai lettori, sia a Est che a Ovest, alcuni giornalisti tedeschi dell´Ovest, forti del loro ruolo storico di vincitori, diedero avvio ad una campagna denigratoria. Christa Wolf, prima osannata come oppositrice del regime, la vincitrice del premio Büchner 1980, la stessa autrice che era stata attorniata dagli studenti a Francoforte, la cui voce aveva ascolto tanto ad est come ad ovest, ora, a pochissima distanza dalla caduta del muro, era vittima di critiche senza fine. Fu una sorta di linciaggio pubblico. A dare il via furono, il primo e il due giugno, Die Zeit e la Frankfurter Allgemeine Zeitung. Ulrich Greiner e Frank Schirrmacher impostarono il tono, ripreso poi da un branco di giornalisti che lo amplificarono a ululato selvaggio. Le poche voci levatesi in contrasto non ebbero invece seguito.
A scatenare tanta infamia, un tale desiderio di distruzione, fu un testo scritto nell´estate del 1979, che aveva come tema il dubbio, la crisi suscitata nei coniugi Wolf dalla scoperta di essere spiati e sorvegliati dai servizi di sicurezza della Ddr. Dal loro porto sicuro i giornalisti occidentali, ubriachi del coraggio facile, che a quanto pare cresce particolarmente bene in vaso nelle redazioni, rimproveravano all´autrice di non aver avuto il fegato di pubblicare il racconto prima della caduta del muro. A detta di Ulrich Greiner, se lo avesse fatto Christa Wolf avrebbe perso il privilegio di autrice di stato e probabilmente sarebbe stata costretta ad emigrare. «Avrebbe potuto trovare facilmente asilo in Occidente», commentava generoso. E Frank Schirrmacher accusava l´autrice: «tutti lo sanno: sono tesi dell´anno 1989, non del 1979». Non venne tenuto conto che il racconto successivo Recita estiva, fu pubblicato solo dieci anni dopo essere stato scritto.
Quanta indignazione ipocrita dalle penne di giornalisti che, pur non subendo alcuna censura statale, comunque erano servi dello spirito del tempo, con spirito opportunista e desiderio di compiacere.
La campagna contro la Wolf venne portata avanti sotto la guida di potenti organi di stampa e non ha mai perso vigore, anzi, ha trovato eco persino recentemente in alcuni necrologi. In particolare il concetto di estetica ideologica applicato all´opera letteraria della Wolf e di molti autori del periodo postbellico fino ad oggi ha ispirato le menti ristrette di coloro che desiderano rinchiudere la letteratura e chi la produce in una torre d´avorio. In seguito ha preso piede l´aggettivo “Gutmensch”, idealista ingenuo, attribuito ad Heinrich Böll come espressione del cinismo corrente. Inutile attendersi pubbliche scuse da parte dei detrattori della Wolf, anche ora, dopo la sua morte. Basterebbe che riconoscessero l´effetto distruttivo delle loro accuse infamanti. Ma evidentemente non hanno il coraggio di mettersi in discussione, cosa che Christa Wolf ha fatto per tutta la vita, fino all´esagerazione.
Torno al 1990, data di pubblicazione di Che cosa resta perché in quell´anno ebbe inizio la nostra amicizia. Ci vedevamo spesso, ci scrivevamo lettere. Christa si sforzava di non darlo a vedere, ma era palese quanto soffrisse per le recenti ferite. Le sofferenze che le erano state inflitte dallo stato del suo paese, comunque molto amato, ora le erano imposte, in maniera analoga, in entrambe le Germanie, sotto l´egida della cosiddetta “libertà di opinione”: calunnie, affermazioni distorte, continui tentativi di diffamazione. Anche questo resterà, come ignominia. Quanta miseria nell´anno dell´unità tedesca.
Ma soprattutto ci resta la moltitudine dei suoi libri. Va a lei il merito di aver scritto opere in grado di superare i confini in un momento in cui Est e Ovest si fronteggiavano bellicosi, armati di incallite ideologie, libri che durano, grandi romanzi allegorici, la testimonianza personificata della malattia e del dolore. È stata lei, Christa Wolf, a scrivere, dopo il disastro nucleare di Chernobyl, Guasto, un libro che presagisce la tragedia di Fukushima e ci vede tutti avviati su una china catastrofica in fondo alla quale l´interrogativo Che cosa resta, ora animato dalla speranza, non ammetterà più ipotesi, anzi, sarà inutile.
Traduzione di Emilia Benghi

Diritti Globali

Maometto in Parlamento

dicembre 12, 2011

Marco Ventura per “Il Corriere della Sera

Un anno e un dato: 1995; 158. Cominciò tutto lì. O almeno, cominciammo a capire tutto da lì. Il 1995 fu l’anno delle elezioni politiche turche; 158 furono i seggi conquistati dal partito della prosperità, il Refah Partisi. I leader del Refah promettevano libertà e diritti in nome dell’Islam. Erano fedeli a Kemal Ataturk, ma ritenevano la sua laicità una camicia di forza. L’energia dell’Islam andava liberata affinché facesse da ponte tra il passato e il futuro, tra l’antica potenza imperiale e una nuova modernità. Il risveglio deimusulmani nelmondo era la grande occasione: rompendo l’isolamento, respirando all’unisono con i fratelli nella fede, la Turchia poteva crescere dentro e fuori i confini. Gli elettori turchi capirono. Offrendogli 158 seggi sui 450 totali, fecero del Refah il partito di maggioranza all’Assemblea nazionale e gli consentirono di formare, nel giugno 1996, un governo di coalizione. La controffensiva non tardò. Il 16 gennaio 1998 la Corte costituzionale di Ankara disciolse il partito Refah in quanto «centro di attività contrarie al principio di laicità». Il potere giudiziario, appoggiato dall’esercito, annullava la volontà popolare e interrompeva l’esperimento del nuovo Islam politico turco.

L’Islam e il voto, dunque. Oggi in Tunisia, Marocco, Egitto, tra poco in Yemen. Ieri, le elezioni turche del 1995 raccontarono le ambizioni delle nuove società musulmane. Certificarono la vitalità dell’islamismo: ostacolato dalle vecchie élite, sospinto dalla democrazia. Più la compatibilità dell’Islam con la democrazia veniva contestata, più l’Islam si rivelava attraverso di essa. Nei Paesi musulmani, gli islamisti chiedevano libere elezioni contro i dittatori, i militari e le polizie; e invocavano il voto popolare contro le potenze ex coloniali che sui regimi autoritari fondavano la loro politica di sfruttamento. Per i governi occidentali, l’ordine dei militari e dei corrotti era il male minore. Garantiva donne e minoranze, almeno un poco. Teneva a bada i jihadisti. Dopo il ritiro dei sovietici dall’Afghanistan nel 1989, la guerra santa si era sparsa per il mondo: dal Kashmir allo Yemen; dall’Armenia alla Palestina; dalla Bosnia all’Algeria. Proprio in Algeria un colpo di Stato aveva interrotto nel 1992 il processo elettorale da cui stavano uscendo vincitori gli islamisti. Uno dei leader del Fronte islamico di salvezza, Ali Belhadj, aveva proclamato nel 1989 che «non c’è democrazia nell’Islam». Il Paese sprofondò in una sanguinosa guerra civile. I bollettini del Fronte si stampavano a Londra, nella famigerata moschea di Finsbury Park. Sempre da Londra, l’ufficio di Bin Laden organizzava il terrore globale. Mentre in Turchia il Refah Partisi viveva la sua breve stagione al governo, nell’agosto 1996 la fatwa di Bin Laden inneggiò alla guerra santa contro l’occupante americano. Risuonava dappertutto in terra d’Islam il grido di libertà. Libertà dall’Occidente crociato e degenerato; libertà da governanti traditori del popolo e dell’Islam. Era labile il confine tra i profeti di violenza e i profeti di liberazione. Per le nuove generazioni, nei sobborghi del Cairo o di Birmingham, diMumbai o di Algeri, l’islamismo era l’unica risorsa. C’era chi militava e finiva nelle carceri diMubarak. C’erano i ventenni musulmani inglesi e marocchini che si incontravano nei campi di addestramento pakistani o afgani. Avevano in comune solo un Islam liberatore. Ed era tutto. Un ideale di lotta potente che motivava esistenze vuote, dava sfogo alle frustrazioni, prometteva gloria al disadattato del quartiere. Un ideale capace di sovrastare l’Islam colto premiato a Francoforte e a Parigi; di cambiare le abitudini delle maggioranze silenziose. Le ragazze rinnegavano l’emancipazione delle madri e prendevano il velo. Ovunque, l’Islam moderato si piegava all’energia dell’Islam politico. Lo scrittore Martin Amis emise il verdetto: «I moderati hanno perso la guerra civile dentro l’Islam. È ingannevole la loro sovraesposizione su giornali e media. Altrove sono supini, la loro voce non si sente».

L’Occidente non vedeva le radici sociali dell’Islam politico; non ne vedeva i motivi concretissimi, la necessità storica. Dall’alto di una supponente distinzione tra religione e politica, non capivamo l’Islam. Satolli di una fede secolarizzata, avevamo dimenticato che Dio può armare persino un assassino suicida. Storditi dalla falsa coscienza post-coloniale, non credevamo all’ambizione delle società islamiche di essere diverse da noi, libere da noi. Eravamo abbagliati da quei pochi che sembravano muovere i fili. Perché i servizi inglesi pagavano i predicatori d’odio di Londonistan? Perché Gheddafi fu il primo a denunciare Bin Laden all’Interpol?

In realtà, il processo in moto era molto più grande della distinzione tra islamismo politico e islamismo terrorista; più grande delle diplomazie e dell’intelligence. Le società islamiche non rinunciavano ai legami tradizionali, di famiglia, di gruppo. Il maschilismo, il familismo, l’odio per il diverso e per l’ebreo, l’analfabetismo restavano largamente accettati. Il modello rimaneva l’omogeneità culturale e religiosa. Poco spazio per i diritti individuali, per una vera pluralità di opzioni morali, ideologiche, religiose. Invece, quelle società si ribellavano alla corruzione dei governi, alla prepotenza della polizia. Non potendo immaginare quel cambiamento morale e sociale che Dio vieterebbe, concentravano emozioni e sforzi in una lotta di potere.

Bastava un voto a far esplodere il cocktail di conservazione e riforma, di tradizione e rivoluzione. Ecco la verità dei 158 seggi del Refah turco nel 1995. Verità lontana dal dilemma tutto occidentale di Fareed Zakaria: avrebbe saputo costruire democrazie liberali, l’Islam, o solo democrazie illiberali? Gli ottimisti rispondevano che l’esercizio democratico avrebbe imposto la propria logica alle società islamiche, occidentalizzandole. Così sussurrava a George W. Bush il giovanissimo Noah Feldman, futuro co-autore della costituzione dell’Iraq post Saddam. Per niente, rispondevano le cassandre: sarà l’Islam a piegare alla propria logica illiberale le procedure democratiche. Le elezioni in Algeria e in Turchia erano lì a dimostrarlo.

Tuttavia, all’inizio del nuovo millennio, l’establishment giudiziario-militare turco non aveva ancora posto fine alla storia narrata da quei due numeri, 1995 e 158: il Refah si era infatti rivolto alla Corte di Strasburgo, chiedendole di condannare lo Stato turco. Che l’Europa liberaldemocratica sanzionasse la Turchia antidemocratica almeno in tribunale, per aver disciolto un legittimo partito politico. La democrazia islamica metteva l’Europa di fronte a se stessa, contro se stessa. Che cosa avrebbero deciso i giudici europei: difendere la laicità turca, ritenere fondata la pregiudiziale anti islamista di Ankara e dunque sconfessare le elezioni? O stare dalla parte delle elezioni, nonostante tutto? A fine estate 2001, solo dieci giorni prima dell’attentato alle Torri gemelle, la Corte europea decise contro il partito Refah, per il diritto dell’establishment turco di sconfessare gli elettori. I giornali occidentali salutarono la vittoria della laicità, la sconfitta di un Islam che minacciava la democrazia perché sapeva magnificamente usarla.

Dieci anni dopo, quella sentenza è antiquariato e quei leader musulmani vengono salutati da «Time» come riformatori moderati. Essi guidano una potente democrazia musulmana, capace, pur nella sua specificità, di ergersi a modello. In mezzo, anni apparentemente vuoti, in cui l’Islam è parso contare elettoralmente solo dove era minoranza. Nell’Europa multiculturale, nel Sudafrica del post-apartheid; soprattutto in India, dove l’elettorato musulmano ha consentito al partito del congresso di far diga contro il nazionalismo induista.

La primavera araba non è scoppiata dal nulla. Nuovi semi crescevano sottoterra, dopo la fioritura degli anni Novanta. Si alimentavano dell’infinita varietà dell’Islam e delle sue lotte intestine, delle debolezze croniche della società civile, della sharia reinventata a Leicester, Rotterdam e Padova. L’ultimo raggio di sole che ha fatto germogliare il seme è stata la fame, l’oppressione. Si rovesciano i tiranni perché affamano e opprimono, non perché democrazia è bello; perché Allah legittima non chi ha diritto, ma chi si piglia il potere. E si vota in maggioranza per i barbuti, perché sono stati nelle prigioni dei tiranni, perché sono organizzati e socialmente efficaci. Tanto più la globalizzazione incalza le società islamiche, tanto più queste si rinserrano nelle loro tradizioni e il popolo del web e delle piazze rimane invischiato in una lotta di potere di cui il più forte beneficerà. Il voto mette così in scena una girandola postmoderna di twitter e sessuofobia, di femministe e salafiti, di copti e fratelli musulmani. Ecco cosa è uscito sulla ruota del 1995 e del 158. Non certo un impossibile Islam liberaldemocratico. Piuttosto, un Islam vitale ma smarrito, che scarica nell’urna le sue contraddizioni.

La mistica del capitalismo

dicembre 6, 2011

Roberto Esposito per “la Repubblica”

«Nel capitalismo può ravvisarsi una religione, vale a dire, il capitalismo serve essenzialmente alla soddisfazione delle medesime ansie, sofferenze, inquietudini, cui un tempo davano risposta le cosiddette religioni». Queste fulminanti parole di Walter Benjamin – tratte da un frammento del 1921, pubblicato adesso nei suoi Scritti politici, a cura di M. Palma e G. Pedullà per gli Editori Internazionali Riuniti – esprimono la situazione spirituale del nostro tempo meglio di interi trattati di macroeconomia. Il passaggio decisivo che esso segna, rispetto alle note analisi di Weber sull´etica protestante e lo spirito del capitalismo, è che questo non deriva semplicemente da una religione, ma è esso stesso una forma di religione. Con un solo colpo Benjamin sembra lasciarsi alle spalle sia la classica tesi di Marx che l´economia è sempre politica sia quella, negli stessi anni teorizzata da Carl Schmitt, che la politica è la vera erede moderna della teologia.
Del resto quel che chiamiamo “credito” non viene dal latino “credo”? Il che spiega il doppio significato, di “creditore” e “fedele”, del termine tedesco Gläubiger. E la “conversione” non riguarda insieme l´ambito della fede e quello della moneta? Ma Benjamin non si ferma qui. Il capitalismo non è una religione come le altre, nel senso che risulta caratterizzato da tre tratti specifici: il primo è che non produce una dogmatica, ma un culto; il secondo che tale culto è permanente, non prevede giorni festivi; e il terzo che, lungi dal salvare o redimere, condanna coloro che lo venerano a una colpa infinita. Se si tiene d´occhio il nesso semantico tra colpa e debito, l´attualità delle parole di Benjamin appare addirittura inquietante. Non soltanto il capitalismo è divenuto la nostra religione secolare, ma, imponendoci il suo culto, ci destina ad un indebitamento senza tregua che finisce per distruggere la nostra vita quotidiana.
Già Lacan aveva identificato in questa potenza autodistruttiva la cifra peculiare del discorso del Capitalista. Ma lo sguardo di Benjamin penetra talmente a fondo nel nostro presente da suscitare una domanda cui la riflessione filosofica contemporanea non può sottrarsi. Se il capitalismo è la religione del nostro tempo, vuol dire che oltre di esso non è possibile sporgersi? Che qualsiasi alternativa gli si possa contrapporre rientra inevitabilmente nei suoi confini – al punto che il mondo stesso è “dentro il capitale”, come suona il titolo di un libro di Peter Sloterdijk (Il mondo dentro il capitale, Meltemi 2006)? Oppure, al di là di esso, si può pensare qualcosa di diverso – come si sforzano di fare i numerosi teorici del postcapitalismo? Intorno a questo plesso di questioni ruota un intrigante libro, originato da un dibattito tra filosofi tedeschi, ora tradotto a cura di Stefano Franchini e Paolo Perticari, da Mimesis, col titolo Il capitalismo divino. Colloquio su denaro, consumo, arte e distruzione.
Da un lato esso spinge l´analisi di Benjamin più avanti, per esempio in merito all´inesorabilità del nuovo culto del brand. Tale è la sua forza di attrazione che, anche se vi è scritto in caratteri cubitali che il fumo fa morire, compriamo lo stesso il pacchetto di sigarette. Come in ogni religione, la fede è più forte dell´evidenza. Dior, Prada o Lufthansa garantiscono per noi più di ogni nostra valutazione. Le azioni cultuali sono provvedimenti generatori di fiducia cui non è possibile sfuggire. Non a caso anche i partiti politici dichiarano “Fiducia nella Germania” a prescindere, non diversamente da come sul dollaro è scritto “In God we trust”. Ma, allora, se il destino non è, come credeva Napoleone, la politica, ma piuttosto l´economia; se il capitale, come tutte le fedi, ha il suo luoghi di culto, i suoi sacerdoti, la sua liturgia – oltre che i suoi eretici, apostati e martiri – quale futuro ci attende?
Su questo punto i filosofi cominciano a dividersi. Secondo Sloterdijk, con l´ingresso in campo del modello orientale – nato a Singapore e di lì dilagato in Cina e in India – si va rompendo la triade occidentale di capitalismo, razionalismo e liberaldemocrazia in nome di un nuovo capitalismo autoritario. In effetti oggi si assiste a un curioso scambio di consegne tra Europa e Asia. Nel momento stesso in cui, a livello strutturale, la tecnologia europea, e poi americana, trionfa su scala planetaria, su quello culturale il buddismo e i diversi “tao” invadono l´Occidente. La tesi di Zizek è che tra i due versanti si sia determinato un perfetto (e perverso) gioco delle parti. In un saggio intitolato Guerre stellari III. Sull´etica taoista e lo spirito del capitalismo virtuale (ora incluso nello stesso volume), egli individua nel buddismo in salsa occidentale l´ideologia paradigmatica del tardo capitalismo. Nulla più di esso corrisponde al carattere virtuale dei flussi finanziari globali, privi di contatto con la realtà oggettiva, eppure capaci di influenzarla pesantemente. Da questo parallelismo si può trarre una conseguenza apologetica o anche una più critica, se riusciamo a non identificarci interiormente col giuoco di specchi, o di ombre cinesi, in cui pure ci muoviamo. Ma in ciascuno dei casi restiamo prigionieri di esso.
È questa l´ultima parola della filosofia? Diverremo tutti, prima o poi, officianti devoti del culto capitalistico, in qualsiasi versione, liberale o autoritaria, esso si presenti? Personalmente non tirerei questa desolata conclusione. Senza necessariamente accedere all´utopia avveniristica del Movimento Zeitgeist o del Venus Project – entrambi orientati a sostituire l´attuale economia finanziaria con un´organizzazione sociale basata sulle risorse naturali –, credo che l´unico grimaldello capace di forzare la nuova religione del capitale finanziario sia costituito dalla politica. A patto che anch´essa si liberi della sua, mai del tutto dismessa, maschera teologica. Prima ancora che sul terreno pratico, la battaglia si gioca sul piano della comprensione della realtà. Nel suo ultimo libro, Alla mia sinistra (Mondadori, 2011), Federico Rampini percorre lo stesso itinerario – da Occidente a Oriente e ritorno – ma traendone una diversa lezione. All´idea di “mondo dentro il capitale” di Sloterdijk è possibile opporre una prospettiva rovesciata, che situi il capitale dentro il mondo, vale a dire che lo cali dentro le differenze della storia e della politica. Solo quest´ultima può sottrarre l´economia alla deriva autodissolutiva cui appare avviata, governandone i processi ed invertendone la direzione.

Diritti Globali

Le condizioni della verità

dicembre 4, 2011

Akeel Bilgrami

Akeel Bilgrami per “Il Sole 24 Ore”

Credo che la forma più convincente di realismo sia una combinazione tra l'”idealismo trascendentale” di Kant – privato però del richiamo alle “cose in sé” – e il “pragmatismo” di Peirce. Questo realismo ha un’ispirazione kantiana in quanto rinuncia a ciò che Hilary Putnam ha chiamato “realismo metafisico” – il “realismo trascendentale” della tradizione filosofica. Ma il realismo che prediligo ha anche un’ispirazione pragmatista, in quanto fa a meno del fallibilismo proprio dell’epistemologia cartesiana. Consideriamo prima il versante pragmatista. In questa prospettiva, ciò che è irrilevante per le pratiche cognitive con cui indaghiamo il mondo è irrilevante anche per l’epistemologia. È il caso del dubbio fallibilistico dello scetticismo cartesiano: essendo insignificante per le nostre pratiche cognitive, non ha alcun valore epistemologico. Lo scetticismo cartesiano si fonda su due tesi: che tutte le nostre credenze relative al mondo esterno possano essere contemporaneamente false e che nessuna credenza sul mondo è certa (si tratta di due tesi diverse, perché la seconda non implica la prima). La prima tesi è stata molto criticata, ma il pragmatismo si oppone anche alla seconda. L’idea è che se di nessuna credenza sul mondo potessimo sapere che è vera, allora la verità non sarebbe un obiettivo della nostra indagine sul mondo. Come potremmo sostenere che la verità è un obiettivo della nostra indagine e, insieme, che non possiamo mai essere certi di aver raggiunto quell’obiettivo?

tutto l’articolo qui

Campo di concentramento a indirizzo commerciale

dicembre 3, 2011

Anna Politkovskaja

In un testo inedito di Anna Politkovskaja la storia di  Rozita la cecena torturata da russi pronti a far soldi con i prigionieri

Anna Politkovskaja, da “La Stampa

Rozita, una residente di Tovzeni, muove a stento le labbra. I suoi occhi, come se rinnegassero la loro naturale funzione, s’incantano e guardano da qualche parte dentro di sé. Rozita è come morta. Fa fatica a camminare, le fanno male le gambe e i reni. Un mese fa le è toccato passare attraverso un campo di filtraggio, così è chiamato, perché ha ospitato in casa sua un guerrigliero. Questo le hanno gridato in faccia i militari mentre la portavano al campo. Rozita non è più una ragazza. Ha molti figli e diversi nipoti. La più piccola, di tre anni, prima di allora non aveva mai parlato russo, ma da quando ha sentito come si sono brutalmente rivolti a sua nonna, ripete di continuo quella frase in russo: «Sdraiati sul pavimento!».

Rozita è stata prelevata da casa sua all’alba; hanno circondato completamente l’edificio e non le hanno dato nemmeno il tempo di prepararsi. Poi l’hanno portata nella zona militare alla periferia di Khottuni e gettata in una fossa. «Ti hanno spinta e presa a calci?». «Sì, certo, come si usa dalle nostre parti». Allucinanti le parole come si usa dalle nostre parti. Con le gambe piegate sotto il sedere, Rozita è rimasta seduta nella fossa scavata nella terra per dodici giorni. Era in gennaio. Il soldato che faceva la guardia alla fossa una notte ha avuto pietà di lei e le ha lanciato un pezzo di moquette. «L’ho messa sotto di me. I soldati, dopotutto, sono anch’essi esseri umani», dice Rozita muovendo a stento le labbra.

La fossa non era molto profonda ma era costruita in modo tale che la temperatura interna fosse molto più bassa di quella esterna: non c’era un tetto e si gelava per ventiquattro ore al giorno. Inoltre non vi si poteva stare in piedi, perché sulla fossa vi erano appoggiati dei tronchi d’albero impossibili da spostare con la testa. E così per dodici giorni Rozita se n’è rimasta accovacciata o seduta sulla moquette. Ma per quale ragione? Nonostante l’avessero interrogata ben tre volte, non le hanno neanche mai detto il nome del presunto guerrigliero che avrebbe ospitato né le hanno presentato un’accusa formale. Alcuni giovani ufficiali, presentatisi come collaboratori dell’FSB, le hanno infilato un paio di guanti da bambino che lasciavano scoperte le dita, hanno collegato a entrambi i suoi pollici dei cavi elettrici e glieli hanno fatti passare dietro il collo. «Sì, ho gridato forte, lo confesso, quando hanno acceso la corrente è stato doloroso. Ma sono riuscita a sopportare. Temevo che si sarebbero irritati ancora di più». A un certo punto gli ufficiali hanno detto: «Balli proprio male, dobbiamo aumentare ancora un po’…». E hanno aumentato il voltaggio, chiamando ballo le convulsioni che scuotevano il corpo di Rozita. E Rozita si è messa a gridare più forte. «E cosa speravano di ottenere con la tortura?». «Non mi hanno chiesto niente di concreto».

Hanno invece discusso concretamente con i parenti di Rozita, i quali tramite un intermediario hanno ricevuto una richiesta dagli ufficiali: cercare i soldi per pagare il riscatto di Rozita. Hanno spiegato loro: «Fate in fretta: Rozita non tollera bene la fossa e potrebbe non farcela». All’inizio i militari hanno chiesto cinquemila dollari, somma che gli abitanti non avrebbero mai potuto raccogliere, nemmeno vendendo tutto il villaggio. Allora i militari sono venuti loro incontro, scendendo a cinquecento dollari. Il giorno dopo i soldi sono stati consegnati e Rozita, che muoveva a stento le gambe, è stata liberata davanti al check point del reggimento. Ma chi è dunque Rozita, la nonna di Tovzeni? Una guerrigliera? Se non lo è, perché l’hanno trattenuta? E se lo è, perché l’hanno liberata? E perché l’hanno utilizzata come merce di scambio? Molte domande restano senza risposta e sono ormai diventate retoriche. Al tempo stesso si può giungere a una prima conclusione: nei territori della zona militare ubicata alla periferia di Khottuni, nel distretto di Vedeno, dove è dislocato il 45° reggimento delle truppe aree e il 119° dei paracadutisti del Ministero della difesa, esiste un vero e proprio campo di concentramento a indirizzo commerciale.

La metropoli cosmopolita di Cleopatra e Ungaretti

dicembre 3, 2011

Cecilia Zecchinelli per “Il Corriere della Sera

Roccaforte del partito Al Nour qui nato in giugno per portare «il Corano in tutti gli aspetti della vita egiziana», Alessandria ancora una volta si conferma diversa dal resto del Paese. Fratelli musulmani e salafiti, i «puri» che vogliono un Islam non contaminato da democrazia e innovazioni, stanno mietendo successi ovunque in Egitto, specie al Nord. Ma nella seconda città del Paese le indicazioni sono di una travolgente vittoria. Temuto dai cristiani, dai liberali e da molte donne, soprattutto il partito che ha per simbolo il sole e il cui nome significa «luce» ha capitalizzato sul degrado sociale e economico di quella che un tempo fu la metropoli più cosmopolita e colta d’Egitto, forse del Mediterraneo.

Anche in passato Iskandariya è sempre stata speciale, ma in senso opposto. Città e porto fondati da Iskandar, ovvero Alessandro Magno, poi capitale della regina Cleopatra e terra della filosofa Ipazia, sede del Faro che fu tra le sette meraviglie del mondo antico e della sua più grande biblioteca (ora ricostruita), di quel lontano e mitico passato restano solo rovine, anche se nelle sue catacombe ormai senza turisti il dio egizio Annubis vestito da legionario romano mostra quanto questo fu un luogo di fusione tra le civiltà. Ma nemmeno del nuovo splendore iniziato nel XIX secolo rimane molto. Non tanto negli edifici, in genere degradati ma ancora in piedi. Piuttosto per l’aria di libertà e cultura che un tempo si respirava, ora svanita.

Allora, a Alessandria convivevano senza tensioni almeno cinque popoli, altrettante lingue e fedi. Chi ha letto il celebre Quartetto di Lawrence Durrell ricorda gli amori negli anni Quaranta tra il narratore inglese, la ballerina greca, il mercante italiano, l’ebreo omosessuale e il travestito musulmano. Prima ancora qui nacquero e vissero poeti come Giuseppe Ungaretti e il greco Konstantinos Kafavis, più tardi fu la città, tra i tanti, di Marinetti. E tra gli egiziani vi nacquero il «Fellini arabo» ovvero Yussef Shahin, lo scrittore Edward Al Kharrat. Il premio Nobel Nagib Mahfuz l’amava, vi passava le estati, vi ambientò alcuni suoi libri.

La fine dell’Alessandria gloriosainiziò sessant’anni fa, con la caduta del Regno. Gli ebrei andarono in Israele, gli armeni, i greci e gli altri europei furono assorbiti dalle classi media e popolare egiziane, l’élite si spostò al Cairo. In pochi decenni Iskandaria da 300 mila abitanti è passata a oltre 4 milioni, il francese e il greco non si sentono più nemmeno nei caffè in stile ellenico o nei ristoranti un tempo chic. E di «diversi» ad Alessandria sono rimasti solo i cristiani, oggetto di attacchi come quello terribile della messa del Capodanno 2011, costato 23 morti. Negli ultimi mesi fatti così gravi non sono successi, ma in ottobre uno studente fu picchiato a morte perché portava la croce al collo e la comunità copta e cattolica segnala continui soprusi, tutti impuniti. In attesa del Nuovo Ordine, i salafiti si son rafforzati, osando gesti una volta impensabili. Come la copertura con teli della grande statua di Zeus con quattro sirene seminude nella piazza dove tenevano un comizio. Un fatto forse insignificante rispetto a quanto sta succedendo in Egitto, ma che dice molto su quanto Alessandria sia ormai cambiata.

SCORSESE BY SCORSESE

novembre 28, 2011

Martin Scorsese

Martin Scorsese per “La Repubblica” (traduzione di Alberto Pezzotta), da “Dagospia

Sono nato nel 1942 nel quartiere di Corona, nel Queens. I miei genitori si erano trasferiti lì dal Lower East Side. La loro idea era lasciare il vecchio quartiere per “migliorarsi”, come dicevano. Corona mi piaceva. Condividevamo una casetta con un´altra famiglia. Sul retro c´era un cortile con un albero. Si poteva andare al parco: c´era qualcosa da vedere. Ma poi mio padre si mise in guai seri col padrone di casa e dovemmo ritornare a Elizabeth Street, a Manhattan. In un certo senso fu un´umiliazione: tornare praticamente nelle due stanze e mezzo in cui era nato, per stare con i miei nonni, finché trovammo un appartamento in fondo all´isolato, al 253.

Nel Queens fu meraviglioso. Nick Pileggi e io ci abbiamo scritto sopra una sceneggiatura, che vorrei girare. Ma non so se sarò mai capace di portarla sullo schermo. quanto alla storia col padrone di casa, è una faccenda piuttosto complicata. A quei tempi se uno non era istruito e lavorava in una certa zona, doveva stringere legami di vassallaggio con il dato gruppo. C´erano diverse famiglie mafiose, e mio padre fiancheggiava una di queste.

Il capo era un suo amico. Fu lui a trovargli casa nel Queens. Mio padre aveva anche molti problemi con suo fratello, Joe. Da quello che ne so, spesso partecipava a riunioni dove cercava di evitare che altri mafiosi lo ammazzassero. Il padrone di casa era uno che aveva un camion per il trasporto della verdura in un garage di fianco a casa nostra. Un giorno passò di lì mio fratello.

Prese una gallina che aveva lì e le tirò il collo di fronte a lui, facendolo scappare in lacrime. Dopodiché cominciò a prendersela direttamente con mio padre. Probabilmente il padrone di casa deve avere pensato che mio padre fosse una specie di gangster. Non era vero, però gli piaceva vestire in un certo modo, mentre l´altro era un po´ uno zotico. E poi penso che mio padre piacesse a sua moglie.

Così il risentimento cresceva. E a un certo punto ci fu lo scontro. Tornò dal lavoro e, in cortile, dalle parole passarono ai pugni, finché il padrone di casa prese un´ascia. Allora la sorella minore di mia madre uscì fuori e lo spinse da parte dicendogli: «Piantala e molla quell´arnese. Lascia stare mio cognato». E quello si fermò. Proprio come nell´Uomo tranquillo di John Ford: sono state le donne a fermare tutto. Solo che quella sera ci fu un altro scontro. Li vidi che se le davano al bar. Tornai a casa e dissi a mia madre: «Stanno litigando».

Lei stava stirando e mi disse: «Lo so». Subito dopo ce ne dovemmo andare.
Il Lower East Side era piuttosto duro. Quello che si vede nei film degli anni Trenta, Quaranta e Cinquanta, con i Dead End Kids, non era molto lontano dal vero. I ragazzi stavano in strada, giocavano con quello che trovavano. Il coperchio di un bidone dell´immondizia poteva diventare uno scudo, e per fare la spada si staccava un´asse da una cassetta delle arance. C´era un sacco di traffico, un sacco di gente che viveva ammassata. E molta tensione. Praticamente vivevo sulla Bowery, e la cosa mi ha molto segnato. Gangs of New York non si avvicina neanche minimamente a quello che vedevo sulla Bowery.

Nel Queens, la casa aveva stanze più grandi, dove potevi sempre sparire, almeno per un po´. Qui era impossibile. Avevo addosso gli occhi di tutti e non potevo dire niente, perché ero il più piccolo. Così presi ad andare in chiesa, e rimasi affascinato dai rituali della messa. L´altra cosa era che mio padre, ovviamente, non sapeva che diavolo fare con me. Dopo avere lavorato tutto il giorno nel Garment District, andava dai miei nonni, cosa che a mia madre non andava giù. Alle undici di sera tornava a casa con i giornali popolari, il Daily News e il Daily Mirror.

C´era ancora tempo per una litigata, e poi tutti a letto. E la mattina dopo usciva per andare al lavoro. Così non è che lo vedessi molto. Ma era costretto a portarmi al cinema; mi portava al cinema in continuazione. La mia asma in pratica mi isolava da tutti. E nella mia solitudine, mi mettevano in testa l´idea di non poter fare nulla di fisico. Dovevo stare molto attento e in qualche modo essere sempre protetto. Per questo divenne importante per me il rito di andare al cinema con mio padre, non importa quale film fosse.

Frequentavamo il Loew´s Commodore, all´angolo tra la Sesta Strada e la Seconda Avenue. Entravamo sempre a metà film. Anche lì, come in chiesa, c´era un senso di pace. Era come partire per un viaggio. Fuori dalla sala i manifesti vendono sogni, si sa. E quando si entra in un cinema, il sogno è reale, o quasi. E poi, condividere queste emozioni così forti con un padre con cui non parlavo molto, diventò il principale terreno di comunicazione tra noi.

Mi portò a vedere Il bruto e la bella, il primo film che vidi su come si realizza un film. A mio padre piacevano i western. Ultimatum alla Terra fu una grande esperienza: di pomeriggio, all´Academy of Music, con duemila spettatori. O La Cosa da un altro mondo di Nyby e Hawks, si apre la porta e dietro c´è James Arness nella parte del mostro: hai mai visto duemila persone balzare sulla sedia contemporaneamente? Straordinario.

C´era un grande contrasto tra i film che vedevo e l´ambiente in cui vivevo. I miei venivano da un paese siciliano. E in Sicilia, lo sa, non ci si fida di nessuno, si cresce pieni di diffidenza. E, mi spiace dirlo, ma questo atteggiamento mi venne inculcato a forza. I miei genitori erano brava gente, lavoratori; non erano né mafiosi né criminali. Ma c´era questo atteggiamento verso il mondo. Se vedete Nuovomondo di Crialese, i miei nonni erano così. Negli anni Cinquanta era strano cercare di essere americano, di acquisire certi valori americani.

Mi era impossibile rendere compatibile l´autorità di un Eisenhower, che giocava a golf tutto il giorno, con la mia esperienza. Venivo da un mondo dove tutto si riassumeva in un unico consiglio: “Fa´ quello che vuoi ma sta´ in campana”. Quando stavo girando The Departed – Il bene e il male, ho scoperto che alla fine la storia parlava di queste stesse cose, di padri e figli. Stavo girando la scena con Jack (Nicholson, ndr) a tavola e Leonardo (DiCaprio, ndr) nel locale.

Erano sette pagine di sceneggiatura, le avevamo girate la sera prima, ed era andato tutto bene. Ma a un certo punto dico a Leo: «C´è qualcosa, qui, non so esattamente cosa, che non è ancora uscita fuori bene». Sentivo che doveva essere il punto di svolta del film. Sapevo che dovevo stargli addosso e aiutarlo ad andare in certe direzioni. Così dico a Jack: «Jack, domani rifacciamo la stessa scena. Se ti viene in mente qualcosa per rendere nervoso Leonardo…».

Il giorno dopo Jack arriva, si siede, aspetta che si sieda Leo, e la prima cosa che fa è annusare il bicchiere e dire: «Puzza di talpa». E poi tira fuori una pistola. Fu fantastico. La reazione di Leonardo è in tempo reale. Gli ho detto: «Devi convincerlo che tu non sei l´infame, anche se tu lo sei». Ero felice di come stava venendo la scena, e d´un tratto ho pensato: ma io questa scena l´ho già girata. Col senno di poi, mi accorgo che questo è il tema di tanti miei film, da Mean Streets e Toro scatenato in poi. Ci sono sempre padri e figli, e ognuno deve all´altro qualcosa. Ci sono la fiducia e il tradimento.

Nel mondo in cui sono cresciuto io, il tradimento era la cosa peggiore che ti potesse capitare. La caduta di un gangster per me è altrettanto interessante di quella di un presidente o di un cantante famoso. Per esempio in Casinò, prima c´è il tradimento, e poi la caduta. Parliamo di persone che, diciamo così, sono di natura diversa dalla nostra. Ma per me si tratta solo di esseri umani. Il tradimento ha che fare con l´amore. Ci deve essere un legame tra le persone che si tradiscono, altrimenti non farebbe così male. Ecco perché La valle dell´Eden è stato un film così importante per me. Per la lotta tra padre e figlio.

C´è il fratello buono e quello cattivo. A casa nostra, il conflitto era soprattutto tra mio padre e mio fratello maggiore. Io in teoria ero quello buono. Ma quando vidi La valle dell´Eden, mi resi conto che mi sentivo come il personaggio di James Dean. Provavo le stesse cose del cattivo. Sentivo tutto ciò che sentivano gli adolescenti quando vedevano James Dean in quel film.

Le mie radici sono ancora lì. Non appartengo a un mondo di scrittori o di artisti. Col passare del tempo mi sono reso conto che non voglio considerarmi diverso da quello che sono. Ma da piccolo, quando crescevo in quel quartiere, mi sentivo davvero schiacciato. E l´unica via di sfogo era immaginare storie, cose del genere. Fin da piccolo. Lavoravo molto di fantasia. E disegnavo i miei film. I primi li disegnai in bianco e nero e nel formato 1.33, che era quello standard del cinema dell´epoca. Un giorno mio padre mi vide che ci giocavo e dovetti nasconderli. Non capiva che cosa stessi facendo, e pensò che me ne stessi troppo per conto mio. Non completai più le storie. Stavo diventando un adolescente, e le cose cominciavano a cambiare.

C’é libertà solo nei romanzi

novembre 27, 2011

Gao Xingjian

Gao Xingjian, da “Il Corriere della Sera

La libertà, che magnifica parola. Per l’uomo costituisce una ricerca estrema, se non l’unica. Ma dove si trova la libertà? La libertà di cui voglio parlare non è un concetto filosofico, piuttosto la possibilità dell’uomo di agire sotto la costrizione delle condizioni reali dell’esistenza. L’uomo di cui parlo non è un concetto astratto: è l’individuo reale nella vita reale. Le possibilità di scelta di ogni persona costituiscono proprio i principali argomenti della letteratura nel corso dei secoli. Da questa deriva un’altra questione – ciò che chiamiamo destino, e se questo destino possa essere oggetto di previsioni. La questione filosofica della libertà e della necessità nel campo della letteratura si trasforma inevitabilmente in una questione di libertà e limite.

L’individuo che vive in una società subisce costrizioni di ogni tipo: da parte della politica, dell’etica, dei costumi, della religione e persino della famiglia; anche il matrimonio crea ostacoli alle azioni dell’individuo. Nella società del XX secolo, il totalitarismo e l’ideologia hanno non solo ostacolato le azioni degli uomini, ma anche il loro pensiero. Oltre alla soppressione della libertà di parola, il pensiero di ogni individuo è stato controllato dal politicamente corretto creato da ogni specie di potere politico e di ideologia. Ma nei Paesi democratici, gli individui godono davvero della libertà di parola e di pensiero? La democrazia garantisce la libertà individuale?

L’economia di mercato, a confronto con la globalizzazione, e la democrazia attuale non hanno trasformato radicalmente le difficoltà di vita degli uomini, né dato più libertà agli individui. Dunque la domanda è: dove si trova la libertà quando il peso degli interessi politici e le leggi del profitto agiscono ovunque e penetrano ogni aspetto della vita? Tale questione continua a suscitare imbarazzo. È ad essa che le mie opere pretendono di rispondere.

Uno scrittore censurato in una dittatura comunista, che arriva nell’Occidente democratico, otterrà a colpo sicuro la libertà di pensiero oppure diventerà un dissidente? Spingiamoci oltre: quando un individuo è fuggito da un’oppressione politica, deve conformarsi a un’altra politica, per quanto democratica? Ecco un argomento ancora più interessante: nel mondo attuale esiste una politica in grado di superare la politica dei partiti e di essere controllata dalla libertà dell’individuo? E l’individuo che non aderisce ad alcuna politica di partito ha la possibilità di superare tale politica? Ciò che si chiama libertà risiede in una scelta che non si limita alle posizioni dei vari partiti: gatto bianco o gatto nero; ma esiste una scelta non limitata al gatto bianco o gatto nero? E anche senza badare al colore dei gatti, è possibile pensare inmaniera indipendente aprendo nuove strade? In altri termini: si può pensare liberamente superando la politica attuale?

Né l’ideologia né il potere politico hanno garantito libertà all’uomo. I loro divieti nei confronti del pensiero non sono minori di quelli esercitati dai tribunali religiosi del Medioevo. Nel XX secolo appena concluso, dal marxismo al leninismo al maoismo, dal socialismo di Stato fino al nazionalismo, tutti hanno coniato in varie forme un politicamente corretto per sostituire gli insegnamenti religiosi e le strutture morali tradizionali. Le superstizioni della rivoluzione comunista, come il fascismo, sono state capaci di far nascere la follia in popoli interi; poi si sono diffuse dall’Europa all’Asia, e non sono ancora tutte scomparse.

Come può resistere un individuo a questa ondata ideologica che si infrange su un Paese intero, e riflettere in modo indipendente? Questa è una prova con cui l’uomo moderno deve confrontarsi e costituisce un tema che la letteratura oggi non può evitare. La mia risposta è il non-ismo, prerequisito per ogni pensiero libero, poiché ritengo che non si tratti di scegliere un qualunque ismo, ma al contrario che ci si debba sbarazzare delle pastoie ideologiche.

Nella vita moderna la libertà dell’individuo subisce ogni tipo di restrizione: oltre alle pressioni politiche e sociali, esistono limiti sul piano economico ed etico e anche disturbi di ordine psicologico. La libertà non è mai stata un diritto accordato alla nascita e sicuramente nessuno può regalarla ad altri. L’umanesimo dell’epoca dei Lumi considera la libertà come un diritto naturale innato,ma è una sorta di richiamo a un ideale. Il liberalismo moderno ha assunto come vessillo libertà e diritti dell’uomo, ma anch’esso è una sorta di ideologia, non corrisponde affatto a una condizione reale dell’esistenza. Di fronte alle attuali leggi del mercato e del profitto, la libertà e i diritti dell’uomo sono parole vuote.

Il conflitto tra le difficoltà dell’esistenza e il desiderio di libertà costituisce un eterno tema della letteratura. Dal teatro dell’antica Grecia al precursore del romanzo moderno, Kafka, tutto ciò che può fare lo scrittore è ricorrere all’estetica. Ci sono cose che l’uomo può fare e cose che non può fare, e se l’uomo non può andare contro il destino, può nondimeno, grazie all’estetica, trasformare la sua esperienza e i suoi sentimenti in un’opera artistica o letteraria per tramandarli alle generazioni future. Pertanto, solo nel campo dello spirito puro l’uomo può conoscere una libertà assoluta. La letteratura può ottenere la sua totale indipendenza solo sbarazzandosi dell’aspetto utilitario. La letteratura che si è liberata dell’utilitarismo politico e delle leggi di mercato è la sola che ritrova i suoi primi intenti.

In origine, la letteratura era l’espressione dell’uomo di fronte alle difficoltà e ai problemi dell’esistenza. Ritornare all’individuo reale e concreto, e non a dei concetti astratti a proposito dell’uomo: consiste anche in questo la differenza tra letteratura e filosofia. Mentre i filosofi cercano di esprimere una verità ultima, gli scrittori esprimono solo la realtà della vita. Le difficoltà dell’esistenza concrete ed evidenti sono indissociabili dai tormenti che conoscono gli individui; ecco le questioni proprie di una letteratura che si è sbarazzata della filosofia e della sociologia. La libera volontà deriva in primo luogo dalla conoscenza dell’Io. Quando la letteratura supera la critica sociale e passa all’esame dell’Io – sempre così caotico – dell’uomo, nel momento in cui essa tenta di vederci chiaro, è allora che inizia la conoscenza. La conoscenza può essere imperniata anche sulla morale o sulla religione; quando è imperniata sull’estetica, conduce alla letteratura e alla creazione artistica.

Un individuo che vive in mezzo ai dubbi dell’esistenza può prendere in mano il proprio destino? E si possono fare previsioni circa il destino o il futuro? Queste antiche domande possono avere nuove risposte? Ogni scrittore può rispondere a modo suo e nessuno riuscirà a trovare l’unica risposta giusta. Da parte mia penso che nessuno abbia la possibilità di trasformare questomondo e la natura umana, in compenso può provare a conoscerli, ed è proprio la funzione della letteratura.

L’individuo si trova di fronte a un vento di follia che spazza via ogni cosa sul suo passaggio, sia esso la rivoluzione violenta comunista o le guerre scatenate dal fascismo, e l’unica scappatoia sembra essere la fuga, ma – come se ciò non bastasse – è necessario rendersene conto in modo lucido prima che tali catastrofi arrivino. Fuggire è salvare se stessi. Tuttavia, probabilmente, la cosa più difficile è fuggire le ombre che abbiamo dentro di noi. Se non si ha una conoscenza chiara di se stessi, si rischia di perdersi dentro il proprio inferno.

Quanto alla letteratura, è una sorta di sprone, che risveglia la coscienza degli uomini, li spinge a riflettere in profondità e li incita a esaminare l’oscurità che hanno in fondo a se stessi. Sebbene la letteratura sia basata sull’esperienza acquisita dagli uomini, la forza di discernimento che essa raggiunge supera ogni aspettativa.

(traduzione di Simona Polvani)

Istantanea di un mostro: spread

novembre 25, 2011

Guido Ceronetti per “La Stampa

Più vorticoso del gorgo di Lofoden di Edgar Poe, più schiacciante dell’Incubo di Füssli: SPREAD

Questa parola di una lingua che sta a poco a poco prepotentemente scacciando la nostra (e pagheremo caro il rifiuto di difenderla dallo stupro), nel suo idioma d’origine significa innocentemente diffusione , espansione e altre cose. A stravolgerla è stato il gergo della Borsa americana: e qui il mio rifiuto di tuffarmi in questo ignoto dalla brutta grinta mi impedisce di inseguirla nei suoi significati, che inquietano e spaventano la povera e pulita gente alla quale desidero fino all’ultimo appartenere. Non mi occupo di Spread, ma di destino umano.

La vecchiaia non è una meringa. È più indigesta dell’olio di merluzzo. Ma, come l’olio di merluzzo contiene una vitamina delle più preziose e rare: ti toglie una quantità di preoccupazioni del domani, ti fa sorgere spontanea l’adesione alla massima evangelica: «Basti a ogni giorno il suo male». Il male di ogni giorno ride di quel che sarà lo Spread del giorno dopo e di quel che sarà in un inesistente domani il futuro pensionistico di figli spesso ancora in mostra sul passeggino. Sciaguratamente, l’ossessione di una Economia che non ha il minimo aggancio col significato della sua origine greca («legge della casa»), che non entra nelle case, che è una mera astrazione, una ipotesi contraddittoria e sposta capitali enormi attraverso onde improbabili immaginate al di là dell’orbita – capitali che sono vuoto su vuoto, pur facendo impazzire gli Stati, le più potenti come le più franose nazioni. Ma i calcoli sono fatti da macchine onnipotenti, che danno vita a statistiche che pochi soltanto ritengono di saper interpretare. Ma le percentuali, che ci vengono presentate inoppugnabili, che oracoli sono? Non sono povere Pizie senza il Dio, Pizie da marciapiedi?

Mi capita di ascoltare, a tavola, tra mezzogiorno e l’una, la trasmissione dell’ottima Radio Ventiquattro Salvadanaio , che mentre annaspo in un convito di solitudine, mi procura la viva felicità di sperimentare come tutto, dico tutto, senza residui, di quella trasmissione, che tratta temi economici ravvicinati all’odierno modo di esistere, mi sia meravigliosamente indifferente. La conduttrice Debora Rosciani domina le materie astruse di cui si occupa con una fantastica disinvoltura di competente che non ne lascia fuori neppure una briciola. Non l’ho mai vista, ma la sua voce m’incanta, mi calma anche quando riflette violente perturbazioni al di là degli spiccioli. Per lei Spread non ha segreti, lo srotola come un tappeto davanti a chissà quanti ascolti, e io non ci leggo che lo Havèl havalìm del mio vecchio amico biblico Qohélet: «fumo di fumi, tutto non è che fumo e vento che ha fame».

Mi appassionano le voci ansiose del pubblico telefonante e mailizzante: «Devo investire in Australia o in Uzbekistan?» – «Ho una casa a Berlino: la scambio a Milano con un garage?». Il cuore delle ansie sono le banche, ma Debora distribuisce i suoi salvagenti da tutte le sponde: viaggi a basso costo, riscaldamenti, liti di condominio (il più tristo modo di abitare: l’inferno sono gli altri: fuggite il condominio e gli amministratori – nota mia), supermercati, saldi stagionali, rimborsi, tasse. Dalle domande assente cronico è la perplessità circa pezzi della terra che ci nutre, passaggi di poderi, uso e abuso dell’agro, dove chi ci sta ignora se il successore sarà un figlio o un costruttore-distruttore della vita. Anche questo è significativo: il denaro non ha altro fine che il denaro: le ricette Rosciani, o di ogni altro esperto, si fermano lì, dove l’infinito Nulla ti agguanta.

Immune dal comprendere Spread (meglio un etologo di un filologo) devo tuttavia confessare che un certo allarme mi serpeggia per l’euro. Incoraggerei chiunque lavori per il suo mantenimento, ma non ne ignoro l’intrinseca debolezza, l’esposizione ai raggiri, alle truffe mondiali, e la sinistra inclinazione a gonfiarsi. Ricordo la prima percezione di imbroglio rassodabile nell’Italia (1999? 2000?) appena entrata nella Zona Euro, ascoltando un imbonitore che il giorno prima svendeva tutto a mille lire, battere la sua merce a un euro soltanto uno! uno! uno! e la gente cascarci, felice di spendere uno invece di mille… Già, ma un euro non corrispondeva a mille – ma a quasi duemila. Il gioco era fatto.

Oggi l’euro è forte a Babilonia e a Samarcanda, e addirittura a Washington, a Wall Street: ma quanto vale a Roma, a Parigi? Quanti ne devi tirar fuori per un kg di cavolfiore o una tariffa medica non mutuata? Nell’esistenza minuta e sminuzzabile, l’euro è debole. Con un euro fai l’elemosina minima a un suonatore benemerito di strada, ma se vuoi vederlo sorriderti torci il collo alla tirchieria e con delicatezza deponi un cinque nel cappello.

L’euro è debole nel cavolfiore perché l’Europa unionista è partita dalla fine (la moneta) e non dal principio classico, l’urgenza strategica. Dall’ano e non dalla testa. Era il buon momento quando il progetto di una comunità di difesa andò in frantumi per refrattarietà idiote nazionali: la CED sarebbe stata una buona partenza. Cesare non romanizzò le Gallie con i sesterzi ma con le legioni; né gli Stati Uniti cominciano col dollaro, né i cantoni svizzeri furono tenuti a battesimo dai banchieri ginevrini.

Questo testo è l’estratto di un discorso pronunciato da Saul Bellow nel 1988 ed è stato pubblicato per la prima volta sulla New York Review of Books nel 2011

novembre 19, 2011

da “Informazione Corretta

Leggendo le memorie di Lionel Abel, “The Intellectual Follies”, sono rimasto particolarmente colpito da un brano molto interessante nel capitolo dedicato agli ebrei. Durante la guerra, scrive Abel, aveva sentito parlare delle atrocità naziste e dei campi di sterminio nell’Europa orientale, “ma non ebbi la vera consapevolezza di quello che era accaduto fino al 1946, più di un anno dopo la resa tedesca, quando portai mia madre al cinema e vidi un cinegiornale in cui si mostravano i filmati dell’ingresso dell’esercito americano nel campo di concentramento di Buchenwald. Vidi con i miei stessi occhi la scoperta dei mucchi di cadaveri, i corpi emaciati e scheletrici dei prigionieri appena liberati, le forche e le camere a gas dove i nazisti uccidevano in massa le proprie vittime. Non avrei mai più potuto dimenticare quelle immagini, ma altrettanto indelebile fu ciò che mi disse mia madre quando uscimmo dal cinema: ‘Non credo che gli ebrei riusciranno mai a superare questa vergogna’. Non disse nulla sulla vergogna morale per la nazione tedesca… ma soltanto qualcosa su una vergogna ben più che morale, e riguardante gli ebrei. Come riuscirono gli ebrei a superarla? Emigrando in Palestina e creando lo stato di Israele”. Anch’io ebbi modo di vedere i cinegiornali sui campi di concentramento. Ne ricordo in particolare uno in cui si vedevano i bulldozer americani spingere cadaveri nudi verso una fossa comune: dai corpi dilaniati si staccavano membra e teste che ruzzolavano per terra. La mia reazione a queste immagini fu simile a quella della signora Abel: un senso profondamente inquietante di vergogna e di degrado umano, come se, proprio a causa di questi tormenti, gli ebrei avessero perduto il rispetto del resto dell’umanità, tanto da poter essere ora visti come vittime disperate, incapaci di un’onorevole autodifesa e, probabilmente in conseguenza di ciò, oggetto di una comune e istintiva repulsione – insomma, un senso di contaminazione personale e di ripugnanza. Il mondo avrebbe osservato questi cadaveri con una commiserazione che li avrebbe collocati ai margini dell’umanità. “Senza dubbio, l’Olocausto fu una tragedia”, scrive ancora Abel; e, con la tipica debolezza degli scrittori per le categorie letterarie, continua discutendo le teorie sulla tragedia: “Quando pensiamo alla tragedia dobbiamo ricordare che i migliori critici della tragedia in quanto forma d’arte ci hanno detto che alla fine di essa ci deve essere un momento di riconciliazione. Lo spirito umano, offeso dagli eccessi delle atrocità, deve essere riconciliato con la realtà delle cose. Da un male così spaventoso deve uscire un bene; e per gli ebrei questo bene fu riconosciuto soltanto nella fondazione dello stato di Israele. Il frutto dell’Olocausto fu il successo del sionismo”. A margine di questo brano scrissi la seguente nota: “Dobbiamo davvero buttarci in questa cosa?”. Non ero affatto sicuro che fosse il momento di calare il sipario sul Quinto Atto. La lotta continuava. Quel che era certo, però, era che i fondatori dello stato di Israele, grazie alla loro virilità, avevano risollevato il rispetto perduto degli ebrei. Avevano cancellato la maledizione dell’Olocausto, della mortificazione della vittimizzazione, e di questo gli ebrei della Diaspora furono estremamente grati, ripagando Israele con il loro fedele sostegno. Forse una categoria più appropriata della tragedia, se davvero abbiamo bisogno di una categoria, sarebbe l’epica: infatti, secoli e secoli di continuata adesione alle idee ebraiche ci fanno pensare a un lungo e ininterrotto epos, alla dedizione di un popolo a qualcosa di sommamente superiore a se stesso. In Germania la ripresa dell’epica nella forma wagneriana e poi hitleriana può ben essere stata un tentativo di soppiantare l’epica ebraica. Persino il piano di distruggere gli ebrei era di portata epica. La costruzione dello stato di Israele fu un ulteriore capitolo dell’epica ebraica. Probabilmente non conta affatto quale categoria letteraria si scelga, ma dato che sto parlando di ebrei e letteratura, non è forse inappropriato riflettere sulla tragedia e sull’epica, perché ciò che viene messo in luce dalla precedente discussione è proprio il fatto che in questo mondo moderno di abissi e baratri nichilistici gli ebrei, per l’orrore delle loro sofferenze e per la loro reazione a tale sofferenza, non rientrano nel nichilismo prevalente dell’occidente – se desiderano separarsi da questo nichilismo hanno un’alternativa più che legittima. Allo stesso tempo, ho spesso pensato che sarebbe stato davvero un miracolo se gli ebrei non fossero stati portati alla follia dalle esperienze vissute in questo secolo. Rileggo la poesia di Yeats “Why Should Not Old Men Be Mad” e riconosco le provocazioni dei suoi vecchi: un bel giovanotto che diventa un giornalista alcolizzato, una promettente ragazza che fa dei figli con uno zoticone. Sì, sono tragedie private – e non le si devono minimizzare. Ma confrontatele con il progetto di annientamento totale di un antico popolo, provate a pensare cosa significhi il fatto che il vostro essere ebreo vi condanni alla morte, e queste tragedie private vi appariranno come irrilevanti cause di follia. E certe volte riconosco in me stesso, un anziano ebreo, una certa pazzia o un certo estremismo, come se il vaso non riuscisse più a contenere ciò che gli viene versato dentro, e ho l’impressione che le mie pareti mentali stiano frantumandosi. Talvolta mi sembra di vedere, nella politica israeliana, indizi di una razionalità danneggiata dalla memoria dell’Olocausto. E anche se dovessimo accettare la visione catartica di Abel su Israele e considerare la fondazione dello stato israeliano un riuscito Quinto Atto – questo dramma, il dramma della Fondazione, può essersi anche concluso, ma il coinvolgimento degli ebrei nella storia dell’occidente è tutt’altro che terminato. Il capitolo americano di esso è senz’altro ancora aperto. I tempi sono molto cambiati (lo fanno sempre, non è vero?) da quando Karl Shapiro pubblicò il libro “In Defense of Ignorance”. Lo lessi durante gli ottimistici anni Sessanta e il capitolo dedicato agli scrittori ebrei in America mi colpì in modo indelebile. Shapiro sostiene che l’intelligenza creativa degli ebrei è stata per secoli indirizzata su sentieri secondari: “La straordinaria forza intellettuale degli ebrei del nostro tempo raggiunge e tocca ogni cosa di questo mondo tranne la coscienza ebraica”. E ancora: “A bene osservare, ci sono soltanto due paesi al mondo in cui lo scrittore ebreo è libero di creare la propria coscienza: Israele e gli Stati Uniti… L’ebreo europeo è stato sempre un visitatore, un ospite… Ma in America tutti sono dei visitatori. In questa terra di visitatori permanenti, l’ebreo ha la rara possibilità di ‘vivere la vita’ di una piena coscienza ebraica. Gli ebrei vivono un fantastico paradosso storico: siamo gli aborigeni spirituali del mondo moderno”. In altre parole, sostiene Shapiro, l’ebreo americano è riuscito a “sollevarsi dalla coscienza storica fino a raggiungere una piena coscienza ebraica”. Quando invece Shapiro riconosce una somiglianza tra l’umanesimo mistico giudaico e l’umanesimo laico americano, non riesco più a seguirlo. Ma la sua precedente affermazione, ossia che negli Stati Uniti lo scrittore ebreo è libero di creare la propria coscienza, mi sembra estremamente affascinante. Ma, nella costruzione della sua propria coscienza, quali sono i limiti che il nostro scrittore ebreo americano deve prendere in considerazione? Ho parlato prima degli abissi nichilistici del mondo moderno e ho sostenuto che gli ebrei, proprio a causa delle loro spaventose sofferenze e dell’atrocità della Soluzione finale, non sono stati toccati dal nichilismo dell’occidente. Se desiderano staccarsi da questo moderno nichilismo europeo possono legittimamente fare questa scelta. Cosa intendo dire esattamente con queste parole? Sono questioni estremamente difficili. Naturalmente, mi verrà chiesto di definire il termine nichilismo. Che cos’è? Possiamo scegliere tra una molteplicità di definizioni. Per Nietzsche, il nichilismo significa l’abolizione di tutti i parametri e i valori fondamentali finora accettati. Ma questa potrebbe essere una definizione troppo generica per risultare utile. Coglie maggiormente nel segno la tesi secondo cui il nichilismo nega l’esistenza di qualsiasi sé sostanziale e distinto. Questa mancanza di un sé sostanziale rende ogni individuo inutile o insignificante. Se noi siamo insignificanti, cosa importa che accadrà di noi? Ciononostante, chi viene ucciso non deve per forza accettare di essere definito in questo modo dai propri assassini o di vedersi sottratta da essi la propria umanità e la propria vita. L’onere del giudizio ricade sugli assassini, il cui retroterra è nichilistico. Deve essere il paese che ha commesso i crimini ad assumersene la responsabilità e la colpa. Gli uccisi non sono stati invitati a partecipare al Nulla, ma se lo sono visto gettare addosso. Noi siamo liberi di sottrarci (di sottrarre almeno le nostre menti, se non possiamo sottrarre anche i nostri corpi) alle situazioni in cui la nostra umanità, o la mancanza di essa, viene definita da altri anziché da noi stessi. Sono stati i carnefici a decretare che la carneficina era permessa, e che chi era destinato al massacro aveva al massimo un’insignificante diritto all’esistenza fondato sull’indifendibile finzione di una personalità individuale. I teorici dell’eutanasia avevano già da parecchio tempo accettato l’annientamento dei non adatti. Persino moderati Fabiani vegetariani come G. B. Shaw (e ce n’erano molti altri) concordavano sul fatto che una società progressista doveva prendere provvedimenti per sbarazzarsi degli elementi difettosi e imperfetti. Queste riforme socialmente e storicamente “progressiste” furono introdotte in Europa centrale dai nazisti con sistematica rigidità e una sorta di ironia purgatoria nei confronti degli ebrei e di altri popoli ritenuti superflui. E’ appunto questo che mi spinge a parlare di nichilismo. Sarebbe un errore accantonare, in nome della modernità, come cosa insignificante l’antica tendenza a connettere l’ordine spirituale presente nell’universo con le nostre stesse vite. Nella nostra disposizione pragmatica rispetto all’ordinamento sociale non lasciamo alcuno spazio all’influenza delle credenze generali sulle nostre particolari opinioni circa la moralità. Nel suo recente e breve saggio intitolato “Death of the Soul”, il filosofo William Barrett ci offre un’utile discussione sulle conseguenze della scomparsa (anzi, della distruzione del sé. Barrett sottopone a un esame critico la concezione che aveva Heidegger dell’essere umano. In che modo, a giudizio di Heidegger, noi siamo nel mondo? A Heidegger domandiamo: “Chi è l’essere che attraversa tutti questi vari modi di essere? (O, detto in linguaggio più tradizionale: chi è il soggetto, l’Io, che soggiace e persiste attraverso tutti questi molteplici modi del nostro essere?). E qui Heidegger risponde in modo evasivo”: “Non siamo null’altro che un aggregato di modi di essere, e qualsiasi centro organizzativo o unificante che asseriamo di aver trovato è soltanto qualcosa che noi stessi abbiamo forgiato o escogitato”. “Perciò, c’è un buco profondo al centro del nostro essere umano – perlomeno secondo i termini in cui Heidegger descrive questo essere. Di conseguenza, dobbiamo in definitiva riconoscere un carattere desolato e vuoto nel suo pensiero, per quanto possiamo ammirare l’originalità e la novità della sua costruzione”. Poi Barrett domanda: “Come può un essere privo di un centro essere realmente etico?”. Ed ecco la sua conclusione: “Heidegger non può essere accantonato: il quadro desolato e vuoto dell’essere che egli ci fornisce può essere semplicemente la percezione dell’essere che opera in tutta la nostra cultura, e gli siamo debitori per averla riconosciuta e portata in superficie. Per andare oltre Heidegger dovremo passare attraverso questa percezione dell’essere, al fine di raggiungere l’altra sponda”. A questo vorrei aggiungere un’altra considerazione: le questioni che non possono essere risolte con argomentazioni filosofiche rimangono spesso aperte per l’arte, ed è pertanto un errore che gli scrittori accettino il predominio dei filosofi e scrivano poesie, romanzi e commedie per illustrare, confermare ed elaborare i pensieri consegnatici da illustri (e anche non illustri) pensatori (cartesiani, kantiani, hegeliani, bergsoniani, marxisti, freudiani, esistenzialisti, heideggeriani, ecc.). Né i filosofi né gli scienziati sono in grado di spiegare agli artisti in modo conclusivo e definitivo che cosa sia l’essere umano. Ma non dilunghiamoci oltre su tale questione, almeno per il momento. Stavo dicendo prima che il destino degli ebrei, nel Ventesimo secolo, è stato quello di soffrire le crudeltà del pensiero e della politica nichilista. Non ho detto che gli ebrei – i sopravvissuti e i loro discendenti – sono sfuggiti a quel desolato e vuoto quadro dell’essere che, come dice correttamente Barrett “è all’opera in tutta la nostra cultura”. Tutti coloro che vivono nell’occidente, noi compresi, dobbiamo sopportare questa desolazione. Nessuno può sfuggire ai sentimenti che trasmette, alle motivazioni che inculca in noi, alle condizioni umane che il nostro ambiente ci rende familiari, alla forza invasiva di tali condizioni alle quali siamo costretti a sottometterci, all’influenza che esercitano sulla nostra personalità, alle mutilazioni che ci infliggono, alla schiacciante potenza plasmatrice di un nichilismo ormai predominante. Ciò che intendo dire è che anche gli ebrei non possono sottrarsi a queste forze dominanti della desolazione. L’ortodossia ebraica, naturalmente, rivendica la propria immunità da questa condizione generale, ma la maggior parte di noi non condivide questa convinzione ortodossa. Osservati da vicino, anche gli ortodossi appaiono ammaccati da queste ambiguità e dalla violenza che la nostra epoca scatena imparzialmente contro tutti noi. Anche gli israeliani rivendicano la propria immunità, e in un certo senso la minaccia di distruzione cui sono esposti giustifica questo atteggiamento. Ma anch’essi fanno parte dell’occidente civilizzato. Hanno inevitabilmente adottato la visione occidentale, nonché tecnologie e scienze occidentali, armamenti occidentali, sistemi bancari occidentali, forme diplomatiche occidentali. La difesa dello stato sionista ha portato alla creazione di una mini-superpotenza e di conseguenza Israele è in larga misura obbligato a condividere il malessere che tutti noi soffriamo – francesi, italiani, tedeschi, inglesi, americani e russi. Israele viene tenuto sott’occhio dall’occidente, e la stampa e l’opinione pubblica occidentale si sforza di trovare prove della malvagità ebraica e forse il suo obiettivo è proprio quello di coinvolgere gli ebrei nel proprio nichilismo. La creazione dello stato di Israele è stata una risposta alla furia nichilistica dei due potenti stati europei che diedero inizio alla guerra, e alla complicità degli altri stati che non riuscirono, e forse non vollero, proteggere i propri ebrei; e i fondatori di Israele ne erano perfettamente consapevoli Ma il mondo occidentale ora mostra una certa refrattarietà a sanzionare la soluzione israeliana – in altre parole, a lasciare che gli ebrei la facciano franca. Quanto agli ebrei in Francia, Inghilterra e Stati Uniti che rivendicano un posto nella vita comune dei propri rispettivi paesi, essi accettano anche di condividere il disperato senso di non-essere-nell’essere – di fronteggiare il buco profondo che sta al centro del sé, la disperazione che sorge dal cuore moribondo di ogni “società avanzata”. Dopo queste osservazioni sulla concreta situazione degli ebrei e della civiltà dalla quale non possiamo ora essere separati, vorrei tornare all’affermazione che feci nel 1976 e che offese così profondamente l’illustre studioso Gershom Scholem, ossia che io sono uno scrittore americano e un ebreo. Chiaramente, lo fece infuriare il fatto che io mi considerassi innanzitutto uno scrittore. La maggior parte degli americani, vedendo il mio nome, probabilmente pensa: “E’ un ebreo”, e poi aggiunge: “E’ uno che scrive”. Qui le priorità non contano. Ma io non sono un fautore dell’assimilazione. In quanto ebreo, tuttavia, sono già da tempo perfettamente consapevole dell’importanza politica dell’America nella storia mondiale, della straordinaria ospitalità offerta da questo paese a tutti i rami dell’umanità. Ciononostante, sono un ebreo e in quanto tale sono altrettanto consapevole, in forza della stessa storia ebraica, che non posso contare su leggi e istituzioni illuminate per la protezione mia e dei miei discendenti. Osservo con attenzione il presente ebraico e ricordo perfettamente il passato ebraico – non soltanto le sue spesso eroiche sofferenze ma anche la suprema importanza del significato della storia ebraica. Ci rifletto continuamente. Leggo. Cerco di capire cosa possa significare essere un ebreo che non può vivere secondo le regole di comportamento stabilite nel corso di secoli e millenni. Non sono, come si usa dire, un ebreo osservante e dubito che Scholem fosse un perfetto ortodosso. Era, tuttavia, immerso nel misticismo ebraico del Sedicesimo secolo, e studiò approfonditamente la Cabala, per cui appare difficile che fosse privo di un sentimento religioso. Io, al contrario, sono un ebreo americano i cui interessi sono in larga misura, anche se non esclusivamente, di carattere laico. Non c’è alcun modo in cui la mia esperienza di vita americana e moderna possa essere riconciliata con l’ortodossia ebraica. Tanto che i miei antenati, se avessero la possibilità di osservare e giudicare con i propri occhi, mi troverebbero una creatura davvero strana, non meno strana dei concittadini cattolici, protestanti o atei. Tuttavia il loro scandalosamente bizzarro discendente asserisce di essere un ebreo. E naturalmente lo è. Non può essere considerato responsabile per le trasformazioni storiche delle quali è diventato l’improbabile erede. Per gli scrittori che vivono in occidente e particolarmente negli Stati Uniti, è ormai troppo tardi per risolvere le difficoltà di cui ho parlato sopra. Oggi quasi nessuno ne è consapevole. Soltanto raramente gli scrittori mostrano di rendersi conto della grande libertà di cui godono qui. Hanno il privilegio di poter essere sfrenati nella loro distruttività. Con ciò stesso vogliono mostrare che l’America non ha possesso su di loro. Sono estremamente permalosi sul fatto di non essere posseduti. Ma, d’altra parte, nessuno li prende molto sul serio. Per dire le cose più chiaramente, non si ritiene che debbano dare conto delle proprie opinioni. Queste opinioni sono polvere rarefatta: priva di qualsiasi peso. Che cosa significa questo? Si può dire che nel nostro stordimento stiamo annichilendo persino il nichilismo? Gli scrittori ebrei, se desiderano esercitare la propria opzione di rifiuto dell’indole nichilista, possono farlo tranquillamente, ma sarebbe molto meglio per loro – anzi per tutti noi – se non si ergessero a portavoce della coscienza o non cercassero di creare grattacapi al mondo, per così dire, con il loro moralismo. Non ho mai cercato di non essere riconosciuto come ebreo per sfuggire alla discriminazione. Non me ne è mai importato molto, e non ho mai concesso a nessuno la possibilità di discriminarmi – e ora è troppo tardi per preoccuparmi di queste cose. La mia opinione, condivisa da molti, è che non esista soluzione per il problema ebraico. La malvagità contro gli ebrei non cesserà certo in un prossimo futuro, né scomparirà la coscienza di essere un ebreo, dato che il rispetto di sé impone agli ebrei di rimanere fedeli alla propria storia e alla propria cultura, che non è tanto una cultura nel senso moderno del termine quanto piuttosto una fedeltà millenaria alla rivelazione e alla redenzione. Un filosofo le cui opinioni sul tema del giudaismo mi hanno particolarmente influenzato sostiene che gli ebrei moderni per i quali l’antica fede è scomparsa continueranno a stimarla come una nobile illusione. L’assimilazione è un’alternativa impossibile e ripugnante. Ciò che ci rimane è la contemplazione della storia ebraica. “Il popolo ebraico e il suo destino somaggiormente illuno la testimonianza vivente dell’assenza di redenzione”, scrive lo stesso filosofo. E afferma che l’autentico significato del popolo eletto sta proprio nella testimonianza di ciò: “Gli ebrei sono stati scelti per provare l’assenza della redenzione. Si ritiene… che il mondo non sia la creazione del Dio giusto e vivente, il Dio santissimo, e che della mancanza di giustizia e carità siamo responsabili noi stessi, creature peccaminose. Un’illusione? Un sogno? Ma non è mai stato sognato sogno più nobile”. Queste parole non sono incompatibili con l’affermazione di Karl Shapiro, secondo il quale negli Stati Uniti lo scrittore ebreo è libero di crearsi la propria coscienza. E nel processo di tale costruzione troverà necessario contemplare la storia ebraica, cercando di scoprirne il suo più intimo significato. Per un uomo moderno questo è probabilmente ciò che costituisce una vita ebraica. All’inizio di questo discorso ho detto: “La mia prima forma di coscienza è stata quella di un cosmo, e in questo cosmo io ero un ebreo”. Dopo oltre settant’anni di vita, circa cinquanta dei quali trascorsi scrivendo libri, non posso fare nulla di più che descrivere quanto è accaduto, e posso soltanto offrire me stesso come esempio illustrativo. Sarà questa stessa documentazione a mostrare che cosa il Ventesimo secolo abbia fatto di me e che cosa io abbia fatto del Ventesimo secolo.

Dreyfus, il laboratorio dei nostri veleni

novembre 18, 2011

Gianni Riotta

Gianni Riotta per “La Stampa

Provi il lettore a identificare data e ambiente delle righe che seguono, decida se descrivono l’Italia 2011, gli Stati Uniti di Obama, il populismo di sinistra in tv o sul Web, l’Europa della Bild Zeitung o l’America dei radio show del conservatore Limbaugh: «Abbiamo visto una stampa indecente riscaldarsi, intenta a battere moneta con nocive curiosità e corrompere l’opinione pubblica per vendere i denigranti articoli dei suoi scribacchini; quella stessa stampa che non trova più lettori quando la nazione è calma, sana e forte. Sono… i giornali che si prostituiscono e adescano i passanti con i loro titoli a caratteri cubitali con la promessa di orge… Abbiamo visto… i giornali popolari da un soldo che si rivolgono alla massa e ne formano l’opinione, stimolare passioni nefaste, condurre rabbiosamente una campagna settaria, uccidendo nel nostro caro popolo… ogni generosità, ogni desiderio di verità e di giustizia. Voglio credere alla loro buona fede. Ma che tristezza di fronte a questi cervelli di polemisti invecchiati, di agitatori folli, di patrioti meschini, che improvvisandosi trascinatori di uomini commettono il crimine peggiore, offuscando la coscienza pubblica e sviando un intero popolo! Questa impresa è tanto più spregevole quando è condotta da certi giornali con bassezza di mezzi e l’abitudine alla menzogna, alla diffamazione e alla delazione che rimarranno l’onta più grande della nostra epoca».

Avete scelto? È descrizione perfetta per l’Italia dove Berlusconi è santo o demonio, per gli Usa dove Obama è Superman o falsario di certificati di nascita? O magari leggete tra queste righe quel che attende il neopresidente Monti, spenti gli applausi, nelle accuse a «Goldman Sachs» dei fogli e siti ultras? Si tratta invece di un articolo dello scrittore francese Emile Zola, pubblicato sul quotidiano parigino Le Figaro il 5 dicembre 1897. Zola, autore fra il 1871 e il 1893 del ciclo di romanzi a sfondo sociale Rougon-Macquart , era allora impegnato nella campagna per la revisione del processo a carico del capitano d’artiglieria francese Alfred Dreyfus, condannato alla deportazione all’Isola del Diavolo, in Guyana, per alto tradimento. Dreyfus era stato accusato di aver fornito ai tedeschi dettagli sulle postazioni francesi: il colpevole era invece un suo commilitone indebitato al gioco, ma i comandi militari, i politici in cerca di consenso e la stampa a caccia di prebende decisero di dare in pasto all’opinione pubblica un innocente, per di più ebreo d’Alsazia, regione franco-tedesca.

Alla fine Dreyfus fu graziato, tornò nei ranghi e combatté nella prima guerra mondiale. Zola e il suoJ’accuse , pubblicato sulla rivista L’Aurore il 13 gennaio 1898, diedero anima alla tradizione intellettuale europea di sfida al potere e alle sue verità. Per risolvere il caso, però, Dreyfus, malgrado i veri traditori fossero stati individuati e uno si suicidasse, dovette umiliarsi a chiedere la grazia, come un colpevole.

Il caso Dreyfus è dunque laboratorio perfetto per studiare come in una democrazia di massa il populismo dei mass media, il potere arrogante dell’intrigo, un’opinione pubblica pigra e rassegnata alla corruzione investano persone perbene, umiliandole, lordandole con calunnie, falsità, razzismo, bugie. Nell’era di Internet, quando lo studioso Cass Sustein vede diffondersi ovunque le Voci, gossip e false dicerie del suo saggio tradotto da Feltrinelli, e la filosofa Franca D’Agostini annota malinconica «il dogmatico si fa forza della propria e altrui ignoranza», ripubblicare le carte dell’Affaire Dreyfus è quindi opportuno. Lo fa in Italia la casa editrice Giuntina, con il curatore Massimo Sestili a dare al lettore contesto storico e culturale, l’antisemitismo, i reazionari, le ipocrisie degli intellettuali, e lo scrittore Roberto Saviano a legare passato e presente, da Zola ad Anna Politkovskaja, da Dreyfus ai dissidenti siriani calunniati dal regime alawita di Assad. L’autore diGomorra ripropone l’equilibrio e la passione di Zola per la verità, come antidoto «al livore» e «alla rassegnazione» correnti. Nelle pagine del libro, infatti, mai Zola cade nel tranello populista, accusare chi è persuaso della colpa di Dreyfus di essere complice dei registi del complotto, anzi si sforza di dialogare con tolleranza, rispettare i magistrati, non ridursi a polemiche volgari: «Non ho che una passione scrive -, quella della chiarezza, in nome dell’umanità che ha tanto sofferto e che ha diritto a essere felice».

La felicità della chiarezza e della verità di Zola, che Saviano rilancia, torna in gioco, come alla fine del XIX secolo. Purtroppo, da allora, gli intellettuali hanno perduto l’innocenza dello J’accuse! , in un secolo di campagne condotte con arcigno sussiego, ma spesso ipocrite e parziali: il silenzio sulle stragi di Stalin, il silenzio su quelle di Hitler quando si allea con Mosca, il silenzio sulla repressione in America Latina se turba Washington, da noi bugie e connivenze sul terrorismo e la batracomiomachia Pro-Silvio Anti-Silvio che acceca la riflessione sul vero stato del paese e sulla degenerazione faziosa di parte cospicua della pubblica opinione e della classe dirigente, oltre il totem Berlusconi. Il crucifige online contro gli innocenti, le calunnie in prima pagina e in prime time, il rassegnarsi a credere a una menzogna perché tanti ci credono, il demonizzare l’avversario, sono nostri veleni quotidiani. E in queste ore, forse, la lettura di questo libro può rivelarsi antidoto salutare per chi auspica un’Italia di nuovo «calma, sana e forte».

Quella messa per Pasolini e l’equivoco della conversione

novembre 15, 2011

Pier Paolo Pasolini

L’opera dell’intellettuale è fitta di segni religiosi, ma intesi come categorie premorali

Franco Brevini per “Il Corriere della Sera

Pasolini senza pace. Sono trascorsi trentasei anni dalla sua tragica fine su uno sterrato di Ostia, eppure la figura dello scrittore non sembra ancora congedarsi dai clamori della cronaca per comporsi nel distacco della storia. Di vedove Pasolini ne ha sempre avute e da subito sulla sua eredità si accanirono in molti. Ora gli tocca perfino una messa, in occasione del convegno su «Pasolini e il sacro», organizzata a Casarsa il prossimo 19 novembre e celebrata da padre Virgilio Fantuzzi, il critico cinematografico di «Civiltà cattolica». D’altronde è stato lo stesso Pasolini a incoraggiare molti equivoci, rilanciando la figura dello scrittore comecomédien et martyr.

La tendenza a proporsi come un homo patiens è rintracciabile in Pasolini fino dagli inizi. Non c’è forse un rapporto fra il Cristo fanciullo impudicamente esposto sulla croce nelle blasfeme poesie dell’ Usignolo della Chiesa cattolica e il polemista civile che ostenta e sconta pubblicamente la propria omosessualità? Tutta la sua opera gronda di categorie religiose, usate con deliberata disinvoltura. Intitola una raccolta poetica La religione del mio tempo, gira La ricotta e Il Vangelo secondo Matteo, in Teorema un giovane dio sconvolge una famiglia borghese, progetta perfino un film su San Paolo. Ma il Vaticano censura i suoi film, La ricotta gli costa una denuncia per vilipendio della religione e nuovi guai gli procureràTeorema.

Ma cos’è il sacro per Pasolini? È una categoria premorale: sacri sono rousseauianamente i diritti della creatura. I ragazzi di vita compiono atrocità, cui basta a riscattarli la loro condizione creaturale. In Accattone un giovane ladro e magnaccia può morire sulle note della Passione secondo Matteo . Nel suo antimodernismo, al disincanto del capitalismo, opponeva la sacralità della «meglio gioventù», della civiltà contadina e delle plebi del Terzo mondo.

In un’opera segnata da un fondo ossessivo, la sacralità fu per lui una metafora per rivendicare i diritti di una diversità sessuale, che ostentò sempre con impudicizia. «Gettare il proprio corpo nella lotta». E la lotta era un’esperienza di riconsacrazione sacrificale dopo gli incontri mercenari con i ragazzi di vita. Per questo in lui militanza significa subito martirio: un Cristo esposto, che attraverso la vocazione pedagogico-socratica cerca il riscatto dal proprio peccato.

Tuttavia non si dovrebbe scordare che di tutto questo parliamo perché è diventato parole e immagini di una delle più folgoranti avventure creative del secondo Novecento. Tornare a quelle parole e immagini, misurarsi con l’opera invece che con la fallacia della biografia, può essere il modo più serio per onorare quel suo doloroso sacro.

Due Céline? No, uno e tutto antisemita

novembre 14, 2011

Sergio Luzzatto per “Il Sole 24 Ore”

E’ benvenuta la lettera del professor Di Simplicio, perché consente di ritornare sul tema dei «due Céline». Molti critici hanno infatti cercato – e cercano – di separare nettamente un Céline dall’altro, il romanziere dal libellista, sostenendo la tesi della «discontinuità»: l’antisemitismo come un’ossessione che nel 1937 spuntò quasi dal nulla nella mente di Céline e gli accecò la vista per sette o otto anni, fino alla catastrofe del nazifascismo. Come ho scritto, è una tesi che non regge. E che non regge per un insieme di ragioni, psicologiche, letterarie, ideologiche. Non sarà consolandosi con una teoria della «parentesi» in nome della quale Céline sarebbe meraviglioso scrittore dal 1932 al ’36 e poi di nuovo dal 1946 fino alla morte, ma obnubilato pamphlettista nel decennio intermedio, non sarà consolandosi con un’interpretazione di comodo come questa che si potrà spiegare un apparente paradosso: il fatto che uno dei più talentuosi romanzieri del Novecento abbia scritto contro gli ebrei alcune delle pagine più immonde che siano state vergate nel corso del secolo. In un saggio recente, Céline. Letteratura politica eantisemitismo (Utet), Francesco Genninario ha sfatato la leggenda dei due Céline dimostrando con argomenti persuasivi la continuità fra la critica antiborghese del Céline romanziere e la polemica antisemita del Céline libellista. L’impazienza anarcoide dell’autore del Viaggio, la rabbia antifilistea dell’autore di Morte a credito, la diffidenza verso la democrazia che Céline condivideva con tanti intellettuali francesi e non francesi degli anni Trenta, a partire da un certo momento unirono i loro effetti per suggerire a Céline (e a tanti intorno a lui) che l’antisemitismo potesse valere come una via d’uscita dai guasti della società borghese. La caccia contro i giudei come una panacea per tutti i mali. D’altronde già trent’anni fa, nel 1981, Cesare Cases aveva osato scrivere che le Bagatelle per un massacro (libro su cui si concentra il saggio di Riccardo De Benedetti pubblicato dall’editore milanese Medusa) «sono un libro assai notevole, forse il migliore dell’autore dopo il Viaggio», perché «saltano fuori i più vecchie i più plausibili oggetti del suo odio, in buona parte già denunciati in quel romanzo: l’impero del denaro, la standardizzazione, la tecnocrazia, la burocrazia, l’America», il tutto «etichettato come ebreo». Chi dunque non voglia accontentarsi di un giochino di citazioni, cercando nei testi di Céline l’una o l’altra formula espressamente antisemita; chi voglia ricostruire un percorso intellettuale (e misurare un impatto culturale) anziché cercare parole o frasi da addebitare a carico o a discarico, dovrà guardare – ho scritto nel mio articolo – a Céline «uno e indivisibile» piuttosto che ai due Céline della leggenda consolante. Ciò detto, le Lettere recentemente raccolte nell’edizione Pléiade dimostrano come l’antisemitismo di Céline (più esattamente: la tentazione di addebitare agli ebrei i guasti della società borghese) sia un tarlo che cresce nella sua mente durante la prima metà degli anni Trenta. Gli ebrei «sono al comando dappertutto», lamenta Céline fin dal 15 ottobre 193o. Una donna che voglia avere successo nella vita deve «perseverare come un’Ebrea», «tenacemente, oscuramente», «con tutti i mezzi» che le garantiscano agio e sicurezza (fine settembre-inizio ottobre 1932). Nel mondo letterario, Céline vuole parlare soltanto attraverso i suoi romanzi: «Saper tacere. Non sbavare come un ebreo, fare l’articolo, per vendere, esporre ciò che deve restare segreto, per venderlo» (22 luglio 1935). Poi, la corrispondenza di Céline si fa più esplicita. Gli «ebrei» diventano «giudei in transe» (giugno 1936), e la loro condizione di perseguitati nella Germania hitleriana lungi dal commuovere: «gli ebrei giocano tutte le loro carte, e la Francia è il loro ultimo rifugio» (15 ottobre 1936). Fino alla tetra analisi del 5 aprile 1937 («Gli ebrei e i comunisti diventano sempre più insolenti – forse non è lontano il momento in cui bisognerà scappare o crepare»), che prelude direttamente alla scrittura delle Bagatelle per un massacro.

Informazione Corretta

Slavoj Žižek, lo straniero decaffeinato

novembre 14, 2011

Slavoj Zizek

La paura degli immigrati contagia anche il multiculturalismo progressista disposto ad accettare l’Altro a patto di privarlo della sua Alterità

Slavoj Žižek, 62 anni, sloveno di Lubiana, è un filosofo (e psicanalista) tra i più popolari d’oggi. Il testo di cui qui proponiamo uno stralcio è pubblicato sull’Almanacco Guanda 2011 (pp. 149, 25), curato da Ranieri Polese, che ha per titolo «Con quella faccia. L’Italia è razzista? Dove porta la politica della paura». Tra gli altri autori Gianni Biondillo, Andrea Camilleri, Luciano Canfora, Franco Cardini, Marcello Fois, Edoardo Nesi. 

SLAVOJ ŽIŽEK, da “La Stampa

Dopo decenni di speranza sostenuta dallo Stato sociale, durante i quali i tagli finanziari venivano spacciati per temporanei, e compensati dalla promessa che le cose sarebbero presto tornate alla normalità, stiamo entrando in una nuova epoca nella quale la crisi – o, meglio, una specie di stato economico d’emergenza, con il relativo bisogno di misure d’austerità d’ogni tipo (tagli dei sussidi, riduzione dei servizi sanitari e scolastici, maggiore precarietà dei posti di lavoro) – si è fatta permanente. La crisi sta diventando uno stile di vita. Dopo la disintegrazione dei regimi comunisti, nel 1990, siamo entrati in una nuova era nella quale un’amministrazione tecnica, depoliticizzata, e il coordinamento dei diversi interessi sono diventati la forma predominante di esercizio del potere statale. L’unico modo di introdurre passione in questo tipo di politica, l’unico modo di mobilitare attivamente le persone, è fare leva sulla paura: la paura degli immigrati, la paura del crimine, la paura dell’empia depravazione sessuale, la paura di uno Stato invadente (con il suo fardello di tassazione elevata e controllo), la paura di una catastrofe ecologica, e inoltre la paura delle molestie (il politicamente corretto è la forma progressista esemplare della politica della paura).

Una politica di questo tipo si fonda sempre sulla manipolazione di una moltitudine paranoica: la spaventevole mobilitazione di donne e uomini spaventati. Per questo il grande evento del primo decennio del nuovo millennio è stato il momento in cui la politica anti-immigrazione è diventata largamente diffusa e ha reciso il cordone ombelicale che la legava ai partiti minoritari di estrema destra.

Dalla Francia alla Germania, dall’Austria all’Olanda, cavalcando il nuovo spirito di orgoglio della propria identità storica e culturale, i partiti maggioritari ora trovano accettabile sottolineare che gli immigrati sono ospiti tenuti a adattarsi ai valori culturali che definiscono la società ospite: «È il nostro Paese, prendere o lasciare», questo è il messaggio.

I progressisti, ovviamente, sono inorriditi da questa forma di razzismo populista. Tuttavia, un esame più attento rivela quanto la loro tolleranza multiculturale e il loro rispetto delle differenze condividano con coloro che si oppongono all’immigrazione il bisogno di tenere gli altri a debita distanza. «Gli altri sono okay, li rispetto», dicono i progressisti, «ma non devono invadere troppo il mio spazio. Nel momento in cui lo fanno, mi molestano… Sostengo senza riserve l’affermazione della propria identità, ma non sono disposto ad ascoltare musica rap ad alto volume». Ciò che si sta imponendo come diritto umano centrale nelle società del tardo capitalismo è il diritto di non essere molestati, ossia il diritto di essere tenuti a distanza di sicurezza dagli altri. Il posto di un terrorista i cui piani micidiali debbano essere sventati è a Guantánamo, la zona vuota sottratta all’esercizio della legge; un ideologo del fondamentalismo dovrebbe essere ridotto al silenzio perché istiga all’odio. Persone simili sono soggetti tossici che compromettono la mia tranquillità.

Sul mercato odierno troviamo un’intera serie di prodotti privati delle loro proprietà nocive: caffè senza caffeina, panna senza grassi, birra senza alcol. E la lista potrebbe continuare: che dire del sesso virtuale, ossia sesso senza sesso? E della dottrina di Colin Powell sulla guerra senza vittime (del nostro schieramento, naturalmente), ossia guerra senza guerra? E dell’attuale ridefinizione della politica come arte dei tecnici dell’amministrazione, ossia politica senza politica? Tutto ciò conduce all’odierno tollerante multiculturalismo progressista come esperienza dell’Altro privato della sua Alterità: l’Altro decaffeinato.

Il meccanismo di questa neutralizzazione è stato teorizzato nella maniera migliore possibile, come ho detto spesso, nel 1938 da Robert Brasillach, l’intellettuale fascista francese, che si vedeva come un antisemita «moderato» e inventò la formula dell’antisemitismo ragionevole. «Ci concediamo il permesso di applaudire Charlie Chaplin al cinema, un mezzo ebreo; di ammirare Proust, un mezzo ebreo; di applaudire Yehudi Menuhin, un ebreo… Non vogliamo uccidere nessuno, non vogliamo organizzare pogrom. Ma pensiamo anche che il modo migliore di intralciare le sempre imprevedibili azioni dell’antisemitismo istintivo sia organizzare un antisemitismo ragionevole». Non è forse lo stesso atteggiamento che troviamo diffuso nel modo in cui i nostri governi trattano la «minaccia immigrazione»?

Dopo avere sdegnosamente respinto il razzismo populista esplicito in quanto «irragionevole» e inaccettabile per i nostri standard democratici, appoggiano misure «ragionevolmente» razziste, ovvero, come ci dicono i Brasillach del giorno d’oggi, alcuni dei quali persino socialdemocratici: «Ci concediamo il permesso di applaudire atleti africani ed est-europei, medici asiatici, programmatori di software indiani. Non vogliamo uccidere nessuno, non vogliamo organizzare pogrom. Ma pensiamo anche che il modo migliore di intralciare le imprevedibili, violente azioni istintive anti-immigrazione sia organizzare una protezione anti-immigrazione ragionevole».

Questa prospettiva di disintossicazione del prossimo suggerisce un netto passaggio dalla barbarie diretta alla barbarie dal volto umano. Rivela la regressione dall’amore cristiano del prossimo all’istinto pagano di privilegiare la propria tribù rispetto all’Altro, il barbaro. Seppure travestita da difesa di valori cristiani, costituisce la minaccia maggiore all’eredità culturale del cristianesimo.

[Traduzione di Alba Bariffi]

L’illusione della censura progressista

novembre 14, 2011

Giulio Giorello per “Il Corriere della Sera

La «Regina negra» è scomparsa; o meglio, si è trasformata nella «Regina dei mari del Sud»: con mosse del genere la casa editrice tedesca del classico “Pippi Calzelunghe” (della svedese Astrid Lindgren) non è riuscita, tuttavia, a evitare la scomunica della teologa Eske Wollrad, che il 7 novembre, in una conferenza a Lipsia dedicata alla letteratura per bambini, ha sostenuto che la storia di Pippi gronda velenoso razzismo; ed è quindi inadatta ai giovanissimi. L’intervento è stato sponsorizzato dall’Ufficio anti-discriminazioni della Sassonia. Pochi giorni prima (la notizia è stata data dal «Corriere della Sera» del 5 novembre) in Inghilterra era toccato anche a Tintin, l’eroe del fumetto di Hergé (pseudonimo di Georges Prosper Remi). Qualche anno fa un «progressista» come Hugo Chavez ha costretto un’emittente privata a sospendere I Simpson, perché «i bambini del Venezuela potrebbero subirne un’influenza negativa» (gli spettatori avranno invece goduto dell’indubbio contributo pedagogico di “Baywatch”, ove prosperose «bagnine» hanno sostituito per decreto l’iconoclasta Bart e famiglia).

Cosa hanno in comune questi casi apparentemente diversi? Di essere esempi di quella che potremmo chiamare la censura nelle società democratiche (largheggiando, vi abbiamo incluso il Venezuela). Sia chiaro: essa si dispiega in forme ben diverse da quella che un tempo veniva esercitata nel cosiddetto Ancien régime, quando a Londra nel 1732 Alberto Radicati di Passerano finiva in galera per aver pubblicato (in inglese) una “Dissertazione filosofica sulla morte”, su istigazione del vescovo di Londra che trovava quel testo (un’apologia del suicidio in chiave materialistica e irreligiosa) «il libro più empio e immorale che io abbia mai letto»; oppure quando, nel 1749, Denis Diderot veniva imprigionato nel castello di Vincennes per aver scritto opuscoli «contrari alla religione, allo Stato o alla morale», tra cui la “Lettera sui ciechi”. E in forme ben diverse, anche, dalle censure di Stato caratteristiche delle dittature del Novecento — dalla Germania di Hitler all’Urss di Stalin alla Spagna di Franco. Basti sfogliare il bel volume di Fabio Gadducci, Leonardo Gori e Sergio Lama dedicato allo scontro tra fascismo e fumetti “Eccetto Topolino”( Npe 2011), ove si racconta come il regime di Mussolini, soprattutto a partire dal 1938, avesse emesso le sue direttive contro «le storie straniere antieducative», inizialmente facendo eccezione per il personaggio creato da Walt Disney. Ma poi, con l’Italia ormai gettata nella Seconda guerra mondiale, nel febbraio 1942 anche Topolino cedeva il posto a un più innocuo Toffolino (ragazzo in carne e ossa creato da Pier Lorenzo De Vita, le cui avventure ricalcavano però le storie Disney con gli animali-umani).

Nelle nostre società democratiche la censura non consiste più nell’imprigionamento degli autori e nel rogo dei loro libri; e nemmeno nella più sofisticata sorveglianza burocratica che filtra e rimodella interi contenuti. Piuttosto, ha i tratti di un procedimento multicentrico di controllo e selezione dell’accesso all’informazione. Multicentrico perché viene esercitato da poteri, gruppi di pressione, o anche singoli personaggi rilevanti nella vita politica o economica — che trovano «licenziosa» un’eccessiva libertà di espressione. E così abbiamo religiosi cristiani che vogliono rimuovere pubblicità offensive o slogan ateistici; solerti istituzioni locali che cassano i finanziamenti a manifestazioni di «miscredenti»; autorità televisive che accorciano film, telefilm o fiction varie delle scene di sesso, con zelo ancor maggiore se si tratta di rapporti omosessuali; per non dire delle difficoltà di circolazione create ad arte per opere scomode come “Il caimano” di Nanni Moretti o la scomparsa dalle librerie di “Falce e carrello” di Bernardo Caprotti. Non si tratta più della cancellazione definitiva dei lavori incriminati (come si voleva fare invece nel caso delle situazioni come la “Lettera sui ciechi”: è piuttosto il loro confino, per alludere a una misura di polizia cara al Duce, in una cerchia limitata di fruizione, con lo scopo di non farli raggiungere un pubblico più ampio.

Resta, però, tra tutte queste modalità politiche di censura, un’aria di famiglia. I fogli fascisti, denunciando la mancanza di «elevazione spirituale» nel settore della «letteratura periodica giovanile», ne prospettavano una «bonifica», in modo che si cessasse di «avvelenare l’animo dei fanciulli». Non è molto diverso il modo di esprimersi della teologa che condanna “Pippi Calzelunghe”. I vari moralisti politicamente corretti sembrano tutti ossessionati (e qui ci vorrebbe il lettino dello psicoanalista) dal binomio veleno-giovinezza. Come se il modo migliore di difendere i nostri rampolli fosse quello di farli crescere avvolti in una sorta di Neolingua del bene che si illude di cancellare il male semplicemente cancellandolo dalla pagina o dallo schermo. E questa strategia tende pericolosamente ad allargarsi, con la trasformazione più o meno subdola dei «grandi» in «giovani» da tutelare. Come proteggerci, noi adulti, da questi indesiderati protettori? Pensiamoci alla svelta, prima che (poniamo) dalle biblioteche o dalle librerie i bigotti dell’animalismo mettano al bando o magari riscrivano «correttamente» il “Moby Dick“ di Herman Melville, un libro che notoriamente «rivela un punto di vista ostile alle balene».

Questo testo è l’estratto di un discorso pronunciato da Saul Bellow nel 1988 ed è stato pubblicato per la prima volta sulla New York Review of Books nel 2011

novembre 12, 2011

da “Informazione Corretta

Qualche breve parola preliminare sul titolo di questo discorso: si parla di alcuni aspetti della mia storia personale e della sostanzialità della persona che sta dietro a questa storia. Il concetto della sostanzialità di una persona è stato sottoposto dai pensatori modernisti, postmodernisti e postpostmodernisti a un esame critico che ricorda l’indecente uso di effigi da parte degli ingegneri che simulano incidenti automobilistici e collisioni aeree: manichini che vengono dilaniati davanti ai nostri occhi o bruciati dalle fiamme della benzina. Il “problema dell’identità” ha assillato e lacerato l’intelletto moderno. Perciò quale diritto ho io, in considerazione del “nuovo look” prospettato per gli individui da illustri pensatori esistenzialisti, decostruzionisti e nichilisti, di parlare della mia personalità e della mia storia personale? (more…)

Quello che l’Europa non ricorda di sé

novembre 8, 2011

Irène Némirovsky

«A Parigi si suole dimenticare ogni cosa» notava Irène Némirovsky poco prima della morte tragica a Auschwitz e di un lungo oblio della sua opera. Un’anticipazione da «Lettera internazionale» in uscita nei prossimi giorni

Drago Jancar, da “il Manifesto

«Come potete credere che io abbia potuto dimenticare le mie vecchie amiche solo a causa di un libriccino di cui si parla da due settimane, ma che verrà presto dimenticato? Del resto, a Parigi si suol dimenticare ogni cosa». Queste parole, tratte da una lettera indirizzata alle soglie della Seconda Guerra Mondiale dalla scrittrice francese di origine ebraica Irène Némirovsky a un’amica, si riferiscono al sorprendente successo riscosso dal suo romanzo David Golder. Sorprendente non solo perché si trattava del romanzo d’esordio di una giovane emigrante fuggita con i genitori dalla Rivoluzione bolscevica russa, ma anche perché il francese non era la sua lingua madre. (…) Quando in seguito i tedeschi occuparono la Francia, la sua fama non valse a evitarle l’arresto da parte della polizia francese che la consegnò agli invasori. A nulla valse neppure il fatto che, qualche anno prima, lei, il marito – anche lui emigrante russo – e le loro due figlie si fossero convertite al cattolicesimo.
Il remoto 1989
Dopo l’arresto, di lei si perse ogni traccia. Suo marito invocò disperatamente l’aiuto di alcuni editori francesi e per loro tramite di alcuni politici ma, invece di ottenerlo, ben presto fu spedito anche lui in un campo di raccolta. Nei giorni in cui lui si prodigava per tentare di aiutare la moglie o quanto meno per sapere dove si trovasse, lei, la celebre scrittrice, insieme a una moltitudine di altri ebrei stava già viaggiando su un treno merci diretto in Germania e, attraverso tutta la Germania, a Est verso la Polonia occupata. Dopo il conflitto, si apprese che la sua vita aveva avuto presto termine in una camera a gas di Auschwitz. In seguito anche suo marito si era spento nello stesso luogo. Entrambe le figlie, che pure erano state ricercate dalla polizia, erano state tratte in salvo da alcune brave persone. Durante il primo anno del dopoguerra, gli scrittori russi emigrati si occuparono per un breve tempo di loro, ma poi, nell’euforia della vittoria, tutti si dimenticarono non solo delle due figlie, ma anche della defunta Irène Némirovsky, il cui nome non tardò a cadere nell’oblio. (…) Fu dimenticata. Come del resto, stando alle sue stesse parole, «a Parigi si suole dimenticare ogni cosa».
Non solo a Parigi e non solo nell’anno 1945. L’Europa dimentica volentieri. Coloro che hanno la sensazione che il Muro di Berlino sia crollato ieri, si sbagliano amaramente. Al pari dell’anno 1945, anche l’anno 1989 è ormai storia remota. E lo sono anche gli anni vissuti dalla cosiddetta Europa dell’Est prima di quest’evento, che per l’ennesima volta ha cambiato il volto del Vecchio Continente.
Come è capitato a Irène Némirovsky, il XX secolo e le sue ideologie hanno segnato il destino di molti altri scrittori. Essi forse non desideravano altro che dedicarsi liberamente allo scrivere, desideravano che i loro testi trascendessero i confini rappresentati dalle barriere ideologiche e dalle lingue nazionali, volevano promuovere una conversazione europea franca e aperta. Invece furono costretti – in ambienti dalla mentalità angusta, tra gente meschina, nonostante magari vivessero in grandi e antiche città dell’Europa dell’Est – a preoccuparsi della sopravvivenza stessa delle loro opere, a rassegnarsi a un’infinita serie di piccoli compromessi per poter pubblicare, spesso addirittura ad affrontare, problemi legati alle più elementari necessità esistenziali. Coloro che oltrepassarono il limite imposto dalla censura, o anche il limite invisibile tra permesso e proibito nelle società chiuse e controllate, finirono in carcere o rimasero senza lavoro, condizione aggravata nella gran parte dei casi dalla condanna all’emarginazione, che per uno scrittore è fatale; uno spazio vuoto, senza alcuna possibilità di pubblicare né di dialogare né di partecipare ad alcuna conversazione, e non solo europea.
Guerra senza battaglia
Molti di coloro che, animati da grandi speranze, poterono fuggire o trovare in un modo o nell’altro una via verso l’Occidente, furono assorbiti nel vivacchiare anonimo e incolore degli emigranti, condannati a collaborare a oscuri fogli politici o talvolta anche a riviste letterarie valide, ma poco lette. Pochi riuscirono a emergere con le proprie opere nel loro nuovo ambiente, e anche quei pochi sono stati troppo spesso ingiustamente e sommariamente ricondotti a un contesto più politico che letterario. Kundera, Skvorecký, Brodskij. Ma il destino, quanto meno quello letterario, della maggior parte di questi scrittori, dei tanti che non ebbero fortuna o risorse per affermarsi nella cultura dei paesi in cui avevano trovato ricetto, fu tragico. Tra di loro ce n’è stato uno che ha pertinacemente continuato a scrivere, lasciandoci così una testimonianza che, al pari di tante altre, dovremmo impegnarci a non dimenticare in nessuna delle conversazioni europee tanto attuali quanto future. Czeslaw Milosz, La mente prigionera.
E tuttavia: com’è possibile che oggi rammentiamo con nostalgia tante opere che ci hanno avvinto e turbato al tempo in cui eravamo privati della libertà, anche opere edite o allestite sui palcoscenici dei teatri jugoslavi, polacchi, ungheresi? Gli autori che ricordiamo sono quelli che vissero sotto regimi dittatoriali e per i quali l’unico rifugio era rappresentato dalla letteratura, per la quale combatterono «una guerra senza battaglia», come recita il titolo dell’autobiografia di Heiner Müller. Che cosa scriveva Danilo Kis e quali frasi pronunciavano i protagonisti dei drammi di Heiner Müller, da far ancora risuonare nella nostra memoria la loro intensa eco non solo estetica, ma anche sociale? (more…)

Bagatelle della Critica

novembre 6, 2011

Sergio Luzzatto per “Il Sole 24 Ore”

Riccardo De Benedetti ricostruisce la presenza (e poi la sparizione dalle librerie) del testo violentemente antisemita del controverso scrittore. E riapre la questione sull’autore.

«Gli italiani sono sempre stati i migliori, con mio marito!»: questo – correva l’anno 1995 – il parere informato di Lucette Almanzor, vedova Destouches. La vedova di Céline. L’ex ballerina e maestra di danza allora ultraottantenne e oggi quasi centenaria che nello sfacelo di una villetta della periferia parigina, a Meudon, fra un brulicare di animali domestici e l’incombere delle case popolari, aveva nuovamente aperto la porta – come già quarant’anni prima, vivente il marito – a un italiano viaggiatore di professione, l’Alberto Arbasino di Parigi o cara.

Céline e l’Italia: una questione da riaprire. (more…)

Così il male oscuro governa l’Occidente

novembre 6, 2011

Guido Ceronetti

Guido Ceronetti per “Il Corriere della Sera”

Via! Tuffiamoci nel male del secolo, che in verità da origini aristocratiche nel XIX, durante tutto il XX ha avuto tempo di democratizzarsi su scala planetaria. Le depressione è in agguato sempre, in ogni angolo della giornata, peste orfana di bacillo, vaiolo invisibile, demonio senza esorcismi.
Lucrezio, gran depresso di Roma cesariana, parlando dell’amore, traccia il profilo del manifestarsi di una crisi depressiva: surgit amari aliquid quae in ipsis floribus angat(«qualcosa di amaro che, sorgendo, anche nei momenti di più intensa felicità ci tortura»).
La depressione è un fungo velenoso che spunta dove e quando vuole, quando non s’installa stabilmente e ti imprigiona in qualche psicofarmaco che a poco a poco dissolve la sensibilità, l’emotività, la compassione per gli altri, fino alla percezione dell’appartenenza alla specie umana e al destino comune. E ormai è pandemica; è, più del tumore, male (mal-di-essere) di tutto l’universo civilizzato, con punte specifiche in Europa occidentale e Stati Uniti.
Dicendo psiche, psicosomatica, psicoterapia, non andiamo molto in là nell’analizzarla: perché cosa sia realmente psiche, e nei moderni linguaggi fin dove ne arrivi il senso, è questione filosofica da collocare in testa. Si sa quale ne sia il nutrimento: vive di pane di pensieri dalle innumerevoli cotture. Si sa che, termine greco, anima non le corrisponde. Nel monismo ebraico, nèfesh è insieme la gola che respira e l’intero aggregato del corpo con i suoi spazi non visibili indecifrati. In Essere e Tempo, Heidegger si avvicina involontariamente al monismo psichico greco e semitico facendone designare tutto l’esistere dell’esistente pensante. (more…)

Evola spinse la destra a “cavalcare la tigre”

novembre 4, 2011

Come nel detto cinese, il filosofo “proibito” voleva insegnare ai conservatori come resistere alla forza dirompente della modernità. Ma pochi hanno capito (e applicato) la lezione

Marcello Veneziani per “il Giornale

Non so cosa avrà capito il ladro che mi rubò la Mini Minor e si trovò sul sedile una copia, tutta sottolineata e chiosata, di Cavalcare la tigre di Julius Evola. La sua perdita mi fece soffrire quasi più dell’auto rubata. Avevo vent’anni e consideravo quel libro una specie di manuale pratico di filosofia di vita, un codice d’onore in epoca disonorata, un galateo indispensabile per un Vero Signore, ma non nel senso alto borghese in cui ne scrisse Giovanni Ansaldo o, peggio, delle buone maniere prescritte dalle donne Letizia dei rotocalchi. Il Signore evoliano era «l’uomo differenziato», fiero di distinguersi dalla massa. La sua era un’opera da asceta in campo, come uno Zarathustra disceso dai monti in piena epoca nichilista. Cavalcare la tigre è un manuale di sopravvivenza metapolitica per chi dissente dal proprio tempo e dal mondo in cui vive; ma, non potendolo modificare, preferisce ritirarsi in attiva solitudine e padroneggiarlo, cavalcarlo per non essere travolto. «Cavalcare la tigre» è un motto cinese, rispolverato anche da Mao, e suggerisce non di affrontare la tigre o tentare la fuga, ma di saltarle in groppa e correre su di lei. (more…)

Wojtyla teologo antitotalitario

ottobre 27, 2011

Maximilian Heim per “Avvenire

Quando nel 1959 il giovane Joseph Ratzinger tenne la sua prima lezione da professore, l’Università di Bonn non era molto grande, le varie cattedre non avevano assistenti e dattilografi, ma c’era un rapporto diretto fra i professori e fra questi e gli studenti. E il fatto che un’università avesse una facoltà di Teologia era motivo di orgoglio. L’università formava un “tutto” al di là delle sue diverse facoltà e in questo tutto, in questa dimensione universale dell’intelligenza si svolgeva il lavoro accademico. Una facoltà teologica trova il suo posto nell’università proprio per questo motivo, perché in tale disciplina da sempre fede e ragione si rapportano l’una all’altra. La ragione appartiene all’interrogarsi dell’uomo, al suo impulso verso la conoscenza e la verità che conosciamo già con Socrate. All’uomo non basta ciò che è apparente e superficiale ma è alla ricerca dell’Essere. L’università è il luogo in cui attraverso la ragione l’uomo indaga la struttura del cosmo. Perciò la teologia chiede la ragionevolezza della fede, anche se non tutti condividono questa fede. Un docente di Teologia dogmatica come Erwin Dirscherl ha scritto in un commento al discorso di Ratzinger a Ratisbona: «Il cuore della relazione tra fede e ragione consiste in un appello all’apertura al dialogo, dialogo in cui sosteniamo la nostra posizione ma consci dei nostri limiti e con una disponibilità all’apprendimento e ai cambiamenti». In che rapporto stanno filosofia e teologia? (more…)

Business e disgusto. Tutti in coda per la dollar-art

ottobre 25, 2011
Stenio Solinas per “il Giornale
«Ci sarà tutto il Golgota della finanza e dei mercanti d’arte» dice entusiasta la padrona di casa a una cena di galleristi, giornalisti e modaioli, e si capisce che fra il Gotha e il Golgota è solo una questione di consonanti. La cena è naturalmente un fusion finger-food, che segue l’happy hour e precede l’happening, e magari il dripping e per i più trasgressivi il pissing, senza dimenticare le performances, gli events e gli environnements, perché poi l’arte è installazione e, va da sé, provocazione, è riciclo, scarto, assemblaggio e dissemblaggio, è deperibile, fruibile, persino commestibile… Soprattutto è «contemporanea», vale a dire un marchio e insieme un work in progress, l’odierno monumentalizzato, studiato e archiviato per il solo fatto d’essere tale. (more…)

Laica e religiosa qual è il peso della fede

ottobre 23, 2011

Arrigo Levi

Arrigo Levi per “La Stampa

Finalmente è stato trovato. Grazie a strumenti sempre più raffinati, è stato trovato HD 85512b, un pianeta simile alla Terra, il primo mai avvistato che giri intorno al suo sole a una distanza «abitabile»: la distanza giusta per avere una temperatura che consenta «all’acqua liquida di brillare in superficie e alla vita di fiorire nelle zone d’ombra». Questo potrebbe esistere su quel pianeta «terrestre», anche se non ne abbiamo certezza: perché HD 85512b è a 36 anni luce di distanza da noi, troppo lontano per vederlo bene.

Questo è un tempo felice per le scoperte spaziali. Gli astronomi hanno individuato anche un pianeta che potrebbe essere fatto interamente di diamante, un diadema brillante sul velluto nero dello spazio. E hanno avvistato nella costellazione del Cigno un pianeta che orbita attorno a due stelle, e non a una soltanto. Queste ed altre scoperte impongono agli scienziati di porsi interrogativi affascinanti, ancora senza risposta certa. Che cosa esisteva prima del nostro universo, prima del Big Bang? (more…)

Le quattro lezioni di Dexia

ottobre 5, 2011

Donato Masciandaro per “Il Sole 24 Ore

La crisi di fiducia che sta colpendo l’importante banca franco-belga Dexia propone almeno quattro lezioni che le istituzioni dell’Unione Europa dovrebbero imparare a memoria, di cui una riguarda specificamente la Banca centrale europea. La prima lezione è che le crisi di fiducia aziendale su una banca nascono quando è in dubbio la solvibilità, a prescindere dalla dotazione di capitale di rischio.

Una ennesima dimostrazione – ma evidentemente non sono mai abbastanza – che l’odierna ossessione, coltivata dai mercati e colpevolmente blandita dalla autorità di controllo, di considerare la capitalizzazione delle banche come il principale presidio della sana e prudente gestione sia non solo inutile, ma anche dannosa.

Dexia è una banca che aveva pesantemente sofferto i colpi della crisi finanziaria del 2008: è stata salvata, grazie all’intervento congiunto dei governi di Belgio, Francia e Lussemburgo nella sua ricapitalizzazione. Dunque siamo di fronte ad una banca pubblica dotata di capitale di rischio; sembra il massimo della sicurezza, se si segue la (cattiva) vulgata delle regole di controllo. Peccato che quello che conta sia la qualità dell’attivo. (more…)

Cosa sta facendo internet ai vostri neuroni

ottobre 4, 2011

Armando Massarenti per “Il Sole 24 Ore

Che cosa passa per la testa di un nativo digitale? I suoi circuiti neuronali sono diversi dai nostri, figli dell’era Gutenberg, cervelli educati alla lettura di libri o (nei casi più frequenti) anestetizzati da 60 anni di televisione? I media ci cambiano le sinapsi fino a farci compiere, di generazione in generazione, veri e propri salti evolutivi? Oppure il cervello rimane, alla fin fine, sempre lo stesso e si adatta plasticamente, nel bene e nel male, alle nuove opportunità offertegli da internet, socialnetwork, videogiochi, smartphone, così come, prima di questi, alla lettura di Guerra e pace? (more…)

I palestinesi all’Onu sbagliano, da uomo di pace vi spiego perchè

ottobre 1, 2011

Bernard-Henri Lévy

Bernard-Henri Lévy per “Il Corriere della Sera”

Da oltre quarant’anni sono favorevole all’avvento di uno Stato palestinese funzionante e alla soluzione «due popoli, due Stati». Per tutta la vita — fosse solo patrocinando il piano israelo-palestinese di Ginevra e accogliendo a Parigi, nel 2003, Yossi Beilin e Yasser Abed Rabbo, i suoi principali autori — non ho smesso di dire e ripetere che è l’unica soluzione conforme alla morale non meno che alla causa della pace.

Eppure, oggi sono ostile alla strana domanda di riconoscimento unilaterale che dovrà essere discussa nei prossimi giorni dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite a New York, e sento il dovere di spiegare perché.

La richiesta palestinese si fonda, innanzitutto, su una premessa falsa: la presunta «intransigenza» israeliana che non lascerebbe alla parte avversa altre possibilità se non di ricorrere a tale atto di forza. Non parlo dell’opinione pubblica israeliana: un sondaggio dell’Istituto Truman per la pace, all’Università ebraica di Gerusalemme, ha appena ricordato che la maggioranza (il 70%) dà per scontata l’idea di una spartizione del territorio. Parlo del governo israeliano stesso, e del cammino percorso dai tempi in cui il suo capo credeva ancora alle pericolose chimere del Grande Israele. Beninteso, oggi resta aperta la questione degli «insediamenti» in Cisgiordania. Ma il disaccordo, in questa vicenda, oppone coloro che, dietro a Mahmoud Abbas, esigono che essi siano congelati prima di tornare al tavolo dei negoziati e coloro che, con Netanyahu, rifiutano che si ponga come condizione ciò che dovrà essere uno degli oggetti di negoziato: esso non concerne né la questione stessa, né la necessità di giungere a un accordo. Ciascuno, io per primo, ha la propria opinione sull’argomento. Ma presentare questa controversia come un rifiuto di negoziare è una contro-verità.

La domanda palestinese si fonda, inoltre, su un’idea preconcetta che è quella di un Mahmoud Abbas miracolosamente e integralmente convertito alla causa della pace. Lungi da me l’idea di negare la strada che anch’egli ha percorso dai tempi in cui esprimeva una «tesi», dai forti toni negazionisti, sulla «collusione fra sionismo e nazismo». Però ho letto il discorso che ha tenuto all’Onu, a New York. E se pur vi trovo accenti di vera sincerità, se mi commuovo, come tutti, all’evocazione del troppo lungo calvario palestinese, se intuisco perfino, fra le righe, come l’uomo che l’ha pronunciato potrebbe in effetti divenire, appena lo volesse e venisse incoraggiato, un Sadat palestinese, un Gorbaciov, non posso impedirmi di udire anche segnali più inquietanti. L’omaggio insistente ad Arafat, per esempio. L’evocazione, nella stessa sede Onu e nella stessa occasione, del «ramo d’ulivo» brandito da chi, una volta almeno, a Camp David, nel 2000, rifiutò la pace concreta, a portata di mano, che gli era offerta. Poi, l’assordante silenzio sull’accordo che lui, Abbas, ha concluso cinque mesi fa con un Hamas la cui sola Carta basterebbe, ahimè, a chiudergli le porte dell’Onu, che in linea di principio accetta solo «Stati pacifici» e contrari al terrorismo. È con questo uomo, certo, che Israele deve fare la pace. Ma non qui. Non così. Non con un colpo di teatro, con i silenzi, con le mezze verità. (more…)

L’intervento di Bibi Netanyahu alla Assemblea Generale dell’Onu

settembre 26, 2011

da “Informazione Corretta

” Signore e signori, Israele ha steso la sua mano in pace dal momento in cui è stata istituita 63 anni fa. Per conto di Israele e il popolo ebraico, porgo la mano ancora oggi. La porgo al popolo di Egitto e Giordania, con rinnovata amicizia per i vicini con i quali abbiamo fatto pace. La porgo al popolo della Turchia, con rispetto e buona volontà. La porgo al popolo della Libia e Tunisia, con ammirazione per coloro che cercano di costruire un futuro democratico.
La porgo agli altri popoli del Nord Africa e della penisola arabica, con i quali vogliamo creare un nuovo inizio. La porgo al popolo di Siria, Libano e Iran, con rispetto per il coraggio di chi lotta contro una brutale repressione.

Ma soprattutto, porgo la mia mano al popolo palestinese, con cui cerchiamo una pace giusta e duratura.
Signore e signori, in Israele non si è mai attenuata la nostra speranza per la pace. I nostri scienziati, medici, innovatori, applicano il loro genio per migliorare il mondo di domani. I nostri artisti, i nostri scrittori, arricchiscono il patrimonio dell’umanità.
Ora, so che questo non è esattamente l’immagine di Israele che è spesso ritratta in questa sala.
Dopo tutto, fu qui che nel 1975 si affermò l’antico desiderio del mio popolo di ristabilire la nostra unità nazionale nella nostra patria biblica – fu allora che questo sentimento venne vergognosamente assimilato e rimarcato , come razzismo.
E fu qui nel 1980, proprio qui, che l’accordo di pace storico tra Israele e l’Egitto non è stato elogiato, ma è stato denunciato!
Ed è qui, anno dopo anno che Israele è stato ingiustamente e unilateralmente accusato. E’ sovente individuato come deprecabile più spesso di tutte le nazioni del mondo messe insieme.
Ventuno delle 27 risoluzioni dell’Assemblea Generale condannano Israele – l’unica vera democrazia in Medio Oriente. Bene, questa è un aspetto infelice dell’istituzione delle Nazioni Unite. E’ il teatro dell’assurdo. (more…)

La crisi e le fondazioni bancarie

settembre 26, 2011

Massimo Mucchetti

Massimo Mucchetti per “Il Corriere della Sera”

L’estate dei tracolli di Borsa ha mietuto tante vittime. Tra quelle di maggior rango spiccano le fondazioni bancarie. Nei bilanci di questi enti si è aperta una falla profonda che può cambiare molto negli equilibri del sistema finanziario italiano. Secondo un’analisi del CorrierEconomia, le prime 12 fondazioni stanno subendo una perdita di 10 miliardi sul valore di bilancio delle loro partecipazioni nelle banche da cui avevano tratto origine grazie alla legge Amato-Carli del 1990.
È una falla che deriva dal crollo delle quotazioni delle banche, bersagliate dal deprezzamento dei titoli di Stato più deboli dell’Eurozona, nei quali avevano cercato rifugio considerandoli privi di rischio, e dall’aumento delle perdite realizzate e potenziali sui crediti alla clientela prostrata dalla recessione. Al tempo stesso, questa falla si ritorce contro le banche che dovrebbero ancora ricapitalizzarsi, come sostiene il direttore del Fondo monetario internazionale, Olivier Blanchard, nell’intervista a Federico Fubini. Senza contare i 14 miliardi di perdite attese per il 2012 sui titoli di Stato, le prime 5 banche italiane hanno bisogno di almeno 12 miliardi per raggiungere i requisiti patrimoniali di Basilea 3, secondo le stime di Mediobanca Securities riportate dalCorrierEconomia. E oggi, con un mercato rattrappito dalla paura, temono di non poter più trovare nemmeno nelle fondazioni gli azionisti stabili e forti sui quali fino alla primavera avevano potuto contare. (more…)

Se l’austerità non dà frutto

settembre 24, 2011

Paul Krugman

Paul Krugman, da “Il Sole 24 Ore

Una delle buone idee di Paul De Grauwe, professore di economia all’Università di Lovanio, è quella di fare un confronto fra Spagna e Gran Bretagna, per illustrare i problemi che l’euro deve fronteggiare.

Il debito pubblico spagnolo partiva da livelli bassi e, nonostante la recessione di Madrid, dovrebbe aumentare meno di quello inglese. Ma i mercati trattano la Spagna come un Paese ad alto rischio, mentre i titoli di Stato inglesi sono considerati un rifugio sicuro, come quelli americani o tedeschi. La differenza di trattamento si spiega con il fatto che il Regno Unito ha prospettive di crescita migliori, grazie alla svalutazione della sterlina, e anche con il fatto che la Spagna dovrà affrontare una deflazione più pesante.

Il fattore più importante è che la Gran Bretagna, potendo chiedere fondi alla Banca d’Inghilterra, non rischia un assalto dei creditori come la Spagna. È indispensabile che l’Europa – il che significa la Bce – garantisca a Spagna e Italia lo stesso sostegno su cui potrebbe contare un Paese con una valuta propria. Se questo sostegno mancherà, l’euro rischierà di sgretolarsi in poche settimane.

Nel dibattito sulle politiche economiche si tende a dare per scontato che gli stimoli hanno avuto la loro occasione e hanno fallito. Il “partito del dolore” continua a dirci che l’austerità è la strada per ripristinare la fiducia, ma nonostante l’austerità la fiducia latita. L’Irlanda, ad esempio, ha imposto un piano di austerità durissimo e nonostante ciò continua a pagare sui titoli di Stato decennali un tasso di interesse più alto di 6,7 punti percentuali rispetto ai Bund, meno dei massimi toccati recentemente, ma parecchio al di sopra del livello di partenza, prima dell’introduzione del programma di rigore. Non sentirete nessun esponente del “partito del dolore” dire: «Ehi, avrebbe dovuto funzionare, ma non ha funzionato, la nostra teoria è infondata». Al contrario, insistono che dobbiamo raddoppiare la puntata, continuare a bastonare l’economia finché il morale non migliora.

(Traduzione di Fabio Galimberti)
© 2011 NYT DISTRIBUITO DA NYT SYNDICATE

Finmeccanica, il crocevia di affari e poteri

settembre 19, 2011

L’assalto di faccendieri e politici

Massimo Mucchetti per “Il Corriere della Sera”

Le inchieste della magistratura napoletana e barese stanno minando la reputazione di Finmeccanica. Paolo Pozzessere dà le dimissioni da direttore commerciale, ruolo delicatissimo, a seguito delle ipotesi di corruzione internazionale nell’acquisizione di commesse militari in America Latina con l’ausilio dello strano giornalista Valter Lavitola, intimo del premier. L’ex ufficiale della Finanza, Marco Milanese, consigliere politico del ministro dell’Economia, è accusato di promettere cariche in società del gruppo Finmeccanica dietro compensi di varia natura. Il responsabile delle relazioni istituzionali, Lorenzo Borgogni, va a cena con il faccendiere Gianpaolo Tarantini, notoriamente impegnato a far partecipare il suo mandante pugliese Enrico Intini alla gestione di 280 milioni di appalti della Protezione civile affidati alla Selex, società del gruppo guidata da Marina Grossi, moglie del presidente Pier Francesco Guarguaglini. Non basta che questa specifica richiesta dello stranissimo mediatore non sia stata accolta, nonostante Silvio Berlusconi abbia per due volte invitato Guarguaglini a prestare attenzione al giovane amico che gli portava le donnine per le allegre serate di Palazzo Grazioli. Resta la promessa di un tavolo tecnico tra Finmeccanica e Tarantini: un tavolo tecnico…  (more…)

Erdogan, l’Egitto e i Fratelli Musulmani

settembre 19, 2011

Original Version:  أردوغان ومصر والإخوان, da “Medarabnews

La recente visita del primo ministro turco in Egitto ha rappresentato da un lato il tentativo di rafforzare l’ascesa regionale di Ankara attraverso un’intesa strategica con il Cairo, ma dall’altro ha costituito una parziale delusione per i Fratelli Musulmani, quando Erdogan ha invocato la nascita di uno Stato laico in Egitto – scrive l’analista politico libanese Issam Naaman

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Recep Tayyip Erdogan ha preparato la sua visita in Egitto con estrema cura. Gli atteggiamenti, gli eventi, la scelta di tempo e le parole, tutto era stato preparato con cura e precisione. Egli ha agito come un ospite d’eccezione che portava con sé un messaggio importante a un padrone di casa ardentemente desideroso di conoscerne il contenuto. Questo messaggio non era rivolto solo all’Egitto, ma anche agli arabi e alle altre nazioni della regione. Perciò il leader turco ha voluto che la diffusione di tale messaggio fosse ripartita in numerose occasioni affinché esso potesse giungere a tutti.

Forse egli si è immaginato nei panni del sultano ottomano Mehmet, il conquistatore di Costantinopoli (Istanbul), avendo pacificamente conquistato il Cairo, dopo secoli e generazioni, per consacrare “una fase di cambiamento storico, rivoluzionario e democratico”. Egli ha tuttavia mantenuto un comportamento abbastanza umile assegnando il ruolo di Mehmet il Conquistatore alla gioventù egiziana che “ha chiuso una pagina, aprendo la pagina di una nuova civiltà”.

Centinaia di giovani egiziani, ed in particolare di giovani appartenenti ai Fratelli Musulmani, hanno effettivamente immaginato che egli fosse il sultano “Mehmet Recep”, il nuovo califfo dei musulmani, e gli hanno preparato un’accoglienza solenne all’aeroporto del Cairo. Hanno portato bandiere, gli hanno tributato applausi e ovazioni, hanno innalzato grida e invettive, chiedendogli di fondare un califfato islamico sotto la guida della Turchia. Questi giovani hanno confermato ai mezzi di informazione di rappresentare una delegazione dei Fratelli Musulmani, che era stata selezionata sotto la supervisione dell’Ufficio della Guida suprema per esprimere il sostegno e l’appoggio alle politiche del leader turco. Essi hanno intonato rumorosi slogan a sostegno di Erdogan, come: “Erdogan, Erdogan, una grande benvenuto dai Fratelli Musulmani”, “Egitto e Turchia, mano nella mano”, “Egitto e Turchia, vogliamo un califfato islamico”.

Ma Erdogan ha deluso le speranze dei Fratelli Musulmani poiché, durante il secondo giorno della sua visita, nel corso di un’intervista televisiva ha invitato a redigere una nuova costituzione per l’Egitto fondata sui principi dello Stato laico, sottolineando che ciò non vuol dire uno Stato senza religione, ma uno Stato che si pone alla stessa distanza da tutte le religioni. Egli ha aggiunto: “Non abbiate paura dello Stato laico; io auspico l’esistenza di uno Stato laico in Egitto”.

Il leader turco non vuole soltanto uno Stato laico per l’Egitto, ma anche uno Stato moderno. Egli ha affermato che l’Egitto “potrà costruire uno Stato moderno dopo la rivoluzione, se compirà tre passi rappresentati rispettivamente dalla buona amministrazione dei cittadini, dall’interesse nei confronti dell’istruzione, e infine da una buona organizzazione delle sue finanze, così come dall’eliminazione della corruzione e dalla realizzazione della stabilità”.

Forse i Fratelli Musulmani sono d’accordo con lui riguardo a questi tre passi, ma che dire dello Stato laico? (more…)

L’Unità, una conquista laica

settembre 17, 2011

La Breccia di Porta Pia di Massimo Melli

Massimo Teodori per “Il Sole 24 Ore

«L’identità nazionale degli italiani, così fortemente radicata nelle tradizioni cattoliche, costituì in verità la base più solida della conquista dell’unità politica»: queste parole di Benedetto XVI contenute nella Lettera agli italiani per il 150° dell’Unità sono cariche di ambiguità. Infatti, dietro il messaggio papale che ha accompagnato l’ostentata partecipazione ecclesiastica alle cerimonie per l’anniversario del Regno d’Italia, si cela una visione contraffatta del Risorgimento. Non c’è chiarezza sulla laicità, questione fondante della nostra storia nazionale negli anni in cui si sviluppò il movimento unitario e, in seguito, presupposto delle istituzioni dello Stato liberale in formazione. Lo spirito laico non può essere espunto dalla nostra storia unitaria, né variamente distorto come fa la pubblicistica cattolico-tradizionalista ignorando che fu alla base dei movimenti – moderati, liberali, democratici e repubblicani – che ricongiunsero l’Italia all’Europa moderna.
Il messaggio di Benedetto XVI guarda al Risorgimento con un filtro scuro sull’idea laica che connotò lungo l’intero Ottocento il rapporto tra Stato e Chiesa e la concezione dei diritti individuali. Tanta pubblicistica cattolica, sulla scorta del Vaticano, continua a sottovalutare la formazione dello Stato nazionale e a esaltare, in opposizione, una preesistente identità di popolo che, per quanto vera, non può essere ritenuta l’elemento essenziale dei movimenti sviluppatisi tra il ’48 e il ’70. Per ridimensionare il significato del Risorgimento, il vertice d’oltretevere svilisce le leggi liberali – definite «laiciste» – promosse dal parlamento subalpino prima e da quello italiano poi a opera della Destra. È vero, sostiene il pontefice, che «il processo di costruzione dello Stato unitario dovette inevitabilmente misurarsi col problema della sovranità temporale dei Papi» che «ebbe effetti dilaceranti nella coscienza individuale e collettiva dei cattolici italiani», ma ciò accadde perché si estendeva ai «territori via via acquisiti una legislazione in materia ecclesiastica di orientamento fortemente laicista». (more…)

Censura morbida alla ottomana

settembre 12, 2011

Antonio Ferrari per “Il Corriere della Sera”

La Turchia e la censura si sono sempre amate, seppur concedendosi e perdonandosi numerosi e reciproci tradimenti. Il Tropico del Capricorno di Henry Miller fu bandito per oscenità nel 1985 dal governo di Turgut Özal, il primo ministro laico dopo l’ultimo colpo di Stato militare. Da allora, con rigidità flessibile e con intensità variabile, è stata dichiarata guerra a differenti categorie di libri, autori ed editori. Il famigerato articolo 301 del codice penale, infatti, faceva tremare gli inquisiti, che rischiavano una lunga detenzione, ma di fatto non è mai stato applicato. Nel senso che nessuno, per quel crimine di «offesa all’identità turca», è finito in cella. (more…)